“La bellezza umana in questione [agonistica] è una bellezza di tipo particolare; si potrebbe definire bellezza cinetica. La sua forza e la sua attrattiva sono universali. Sesso o modelli culturali non c’entrano. C’entra, piuttosto, la riconciliazione tra gli esseri umani e il fatto di avere un corpo.”
[David Foster Wallace – “Federer come esperienza religiosa”, 2006]
«Miky scusa è una puttanata, non vengo. Ciao.»
Il messaggio da Andrea Meneghin mi arriva alle 18:49, circa quattro minuti in ritardo rispetto al nostro appuntamento. Osservo lo smartphone perplesso. Poi alzo la testa: il “Menego” è entrato nel locale e si sta facendo le sue belle risate. La “puttanata” cui si riferisce mi era nata in testa qualche tempo fa, sentendo Andrea commentare le partite di Eurolega e del Real Madrid. “Luka Doncic”, pensai, “è in qualche modo l’evoluzione 2.0 di Andrea Meneghin, il nostro Luka Doncic prima di Luka Doncic”.
«Ok confermo è una puttanata!» esplode ridendo appena seduto il Menego sentita la mia ardita idea. Per ammansirlo ordino due birre e gli chiedo gentilmente di ascoltarmi due secondi mentre beve i primi sorsi, prima di continuare con gli improperi. Gli propongo la frase di un libro di David Foster Wallace, “Considera l’aragosta” (2005). C’è un passaggio che recita così:
Potrebbe essere benissimo che noi spettatori, privi dei doni divini degli atleti, siamo gli unici a essere davvero in grado di “vedere”, esprimere e animare l’esperienza del dono a noi negato. E che coloro i quali ricevono e mettono in pratica il dono del genio atletico debbano, di necessità, essere ciechi e muti al riguardo, e non perché la cecità e il mutismo siano il prezzo di quel dono, ma perché ne sono l’essenza.
La citazione del più geniale scrittore americano dei Nineties (pace all’anima sua) mi torna utile per portare il Menego ad “aggirare” questa sacrosanta verità così lucidamente descritta da DFW. Conoscendo la ritrosìa tipica dei grandi giocatori – e ancor di più, di giocatori dalla grande intelligenza e altrettanta umiltà come Andrea [vedi nota a pié di pagina n. 1] – nel raccontare se stessi e il proprio talento che solo a loro appare come la cosa più normale e naturale, provo ad aggirare l’ostacolo proponendogli il paragone che mi ronza in testa da qualche mese.
E se a parlare di un grande talento di pari o superiore qualità fosse un altro grande talento ormai in età adulta, passato ad allenare e con il ritiro dall’agonismo datato ormai al lontano 2006? In questo modo riusciremmo ad aggirare la constatazione di DFW, forse.
Notando che il dubbio della “puttanata” non si è ancora levato dalle sopracciglia di Meneghin, colgo l’occasione per provare sia a scalfire l’ironia e la modestia di uno degli interlocutori più simpatici e brillanti con cui mi sia mai trovato a dialogare, sia a dipanare i punti interrogativi dei lettori, soprattutto quelli delle nuove generazioni che forse non ricordano che mammasantissima di giocatore fosse Andrea. «Sentiamo…» mi sfida il Menego incrociando le braccia.
Innanzitutto la struttura fisica: due metri per 100 chilogrammi, entrambi. Menego più longilineo, un fascio di muscoli e nervi, e Luka con più massa, certamente, ma lo chassis di base è lo stesso.
Figli d’arte, entrambi. Per Dino Meneghin non credo servano presentazioni; per Sasa Doncic – che comunque l’Eurolega l’ha giocata con Lubiana – magari sì, ma vi rimandiamo alla nostra intervista con lui sul figlio di due anni fa.
Esordienti al massimo livello a 16 anni, entrambi. Meneghin con la sua Varese, Doncic con il Real Madrid: entrambi già decisivi sin dalla stagione successiva ed entrambi presto decisivi in Europa. [n.2]
Un modo di giocare e intendere la pallacanestro da subito istintivo, altruista, geniale, totale: sanno tirare, passare, usare l’altezza, intuire il gioco in anticipo, giocare tre ruoli, divertirsi. Da qui l’etichetta di enfant prodige dai media [n.3] e il rispetto degli avversari guadagnati piuttosto rapidamente.
Il 1999 come anno fondamentale. Per Andrea Meneghin è l’apice della carriera: tra Scudetto della stella con Varese e oro europeo a Parigi, entrambi da protagonista assoluto, il Menego è considerato uno dei giocatori più completi del Vecchio Continente. [n.4] Per Luka, beh… semplicemente viene al mondo, il 28 febbraio di esattamente 19 anni fa.
E poi potremmo aggiungere un oro Europeo come certificazione internazionale del livello raggiunto, vinto dal Menego a 25 anni e da Luka con la Slovenia a 18; o ancora l’aver condiviso gli anni dell’esplosione con guardie pazzesche come Gianmarco Pozzecco e Sergio Llull… ma il concetto dovrebbe essere più chiaro, ora.
Pure Andrea sembra per un attimo vacillare, ma si riprende dopo pochi secondi: «Ti ringrazio per il gran complimento!» è l’unico suo commento, e allora lo devo incalzare chiedendogli quanto sia raro vedere un giocatore così consapevole dei propri mezzi e del Gioco, a quell’età. Quanto è naturale esprimersi così a quel livello, ripensando anche ai suoi primi passi da minorenne in Serie A?
«Più che raro Doncic è quasi unico. Gioca un basket impulsivo, di talento, di genio e istinto. Una delle sue fortune è che sta dimostrando di essere una spugna, una sorta di Terminator T-1000 che appena ti tocca assorbe tutto, migliorando a una velocità allucinante. Sarà chiaramente uno scandalo se al prossimo Draft non verrà scelto alla numero uno, roba che se non succede James Naismith si rivolta nella tomba. Anche se più voci da Madrid dicono che non sia così certo che vada: io lo vedrei bene ancora “da noi”, a vincere tutti gli MVP di giornata prima di fare il grande salto».
La cosa più impressionante di entrambi credo fosse (e sia) il decision making a livelli sbalorditivi per il poco tempo trascorso su certi campi: per questo gli chiedo se capitasse anche a lui di sentirsi in una condizione simile, da così giovane. «È difficile da spiegare, sono scelte istintive prima ancora che giuste: stai conducendo un contropiede tre contro due, arrivi nella zona offensiva e “sai” semplicemente che un palleggio-arresto-tiro da 3 è la scelta migliore in quel caso. Ma lo capisci solo lì, in quell’istante. Quando hai la palla in mano e questo talento, questa consapevolezza, il difensore che hai di fronte “salta” nella tua percezione del gioco. Lo porti dove vuoi tu. Stai già giocando cinque contro quattro, e devi solo decidere come e dove passare la palla. La sfida diventa tale solo quando trovi un signor difensore».
Quindi, in un’ipotetica somma di fattori che compongono la totalità del giocatore, conta di più il talento di tutto il resto? A detta di tutti a Madrid Luka sembra essere pure un eccellente lavoratore, di quelli che vogliono imparare tutto al più presto. Da allenatore (delle giovanili di Varese) m’immagino che Andrea creda fermamente nel lavoro in palestra, cosa che ci riporta alle idee sullo Sport di DFW e al monumentale “Infinite Jest” [n.5], quando l’istruttore di tennis esorta a ripetere spasmodicamente gli stessi gesti. Fino ad implementarli nel proprio Io, per diventare “campioni”…
Ragazzi, la cosa più importante è la ripetizione. Dall’inizio alla fine, sempre. […] Per accrescitivo intendo l’accumulare attraverso gesti ripetuti, senza l’intervento della mente. Il linguaggio macchina dei muscoli. Fino a che riuscite a giocare senza pensarci. A circa 14 anni, anno più anno meno. Fatelo e basta. Non state a pensare se c’è un senso. Certo che non c’è un senso. Il senso della ripetizione è che non c’è senso. Aspettate fino a quando imbeve il vostro hardware, poi vedrete come vi si libera la testa.
«Credo molto anche in questo, il lavoro in palestra è per forza necessario, ma non è sufficiente purtroppo, altrimenti tutti sarebbero dei Luka Doncic. Ma è fondamentale, perché puoi “assorbire” rapidamente solo con la costanza – il linguaggio-macchina dei muscoli di cui parlavamo prima – e in più ora, rispetto ai miei tempi, c’è la tecnologia che aiuta. Quando giocavo io vedevi magari una volta un avversario forte – e io ho giocato contro Toni Kukoc e Sasha Danilovic, per dirne due – e cercavi di replicare qualcosa del loro gioco, ma ti basavi sul ricordo e improvvisavi da solo in allenamento. Adesso invece con il video puoi rivedere all’infinito i movimenti dei migliori e implementarli scientificamente. E se sei un talento come Luka, ampli il tuo gioco alla velocità della luce».
Note:
1 — È, nello specifico, soprattutto il caso di Andrea Meneghin, probabilmente una delle stelle sportive italiane più restie a parlare della propria carriera, perché come dice lui «sembrano sempre dichiarazioni banali: ho sempre ammirato chi dei miei compagni era capace di interagire tanto con i media».
2 — Qui manca purtroppo il paragone diretto: il Menego, retrocedendo con Varese in A2 nel 1992, giocherà la sua prima coppa europea — la Korac — solo nel 1996, a 22 anni, segnando 14 punti e quasi 2 assist di media. A 17 anni giocava comunque già 20 minuti di media in Serie A; a 21 anni segnava 14.6 punti di media giocando 32 minuti. La sua miglior stagione statistica in A è la 1996-97 a soli 22 anni, con 14.8 punti, 3.8 rimbalzi, 3.1 recuperi e 2 assist di media in 36 minuti. In Coppa Campioni (poi Euroleague) il top è nel 1998-99: 16.1 punti, 3.2 rimbalzi, 2.4 assist, il 63% da 2 e il consueto primo posto assoluto nei recuperi con 2.9 di media in 36 minuti a partita.
3 — Luka Doncic è stato il più giovane del Real Madrid ad esordire in ACB. Nella storia dell’ACB è invece “solo” il terzo più giovane di sempre, a 16 anni, 2 mesi e 2 giorni. Il primo è ovviamente Ricky Rubio, che esordì con Badalona a 14 anni e 11 mesi. Il secondo invece è un piccolo nome di culto, Ángel Rebolo, che esordì nella lontana stagione 1990-91 a 15 anni e 3 mesi con il Breogan, salvo poi letteralmente scomparire dal pianeta cestistico andando a gestire il negozio di mobili della famiglia. Ma per gli almanacchi sarà per sempre una posizione davanti a Doncic.
4 — Agli Europei del 1999 era opinione unanime che l’unico giocatore imprescindibile dello scacchiere tattico del c.t. Boscia Tanjevic fosse solo lui, Andrea Meneghin, uno dei primi veri giocatori europei “contemporanei”, un playmaker di due metri, tiratore, difensore sulla guardia avversaria più pericolosa, passatore, collante della squadra, tuttofare. Il 1999 è l’anno di grazia del Menego che cannibalizza tutto: Campione d’Italia, Campione d’Europa, MVP Supercoppa Italiana, Mr. Europa.
5 — Che una mente umana abbia potuto anche solo concepire un romanzo così folle, geniale e interminabile (il titolo, “Spasso Infinito”, si ispira a un passo dell’Amleto), composto da 1.079 pagine con un’appendice di 388 note a piè pagina, appare al sottoscritto alquanto improbabile. Deve per forza trattarsi di un’opera extraterrestre, una forma troppo intelligente capace di comprendere tutto, lasciarcene memoria e poi togliere il disturbo, in punta di piedi, quasi scusandosi. Ad ogni modo, quel testo e quelle note hanno ispirato tutto ciò che state leggendo, nulla escluso. Per quanto riguarda DFW, alla domanda su cosa fosse il libro rispose che era sul “Perché sto guardando così tanta merda? E perchè lo sto facendo?”.