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Conoscerete la nostra velocità
18 lug 2016
Le storie di Florence Griffith-Joyner, Marita Koch e Jarmila Kratochvìlova, che trent'anni fa hanno stabilito record che nessuno ha ancora battuto.
(articolo)
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Tre donne e quattro record infiniti. Tre storie che si legano perché si rincorrono sulla pista e perché vengono rincorse dalle nubi del sospetto. Tutto questo e molto altro ancora sono i limiti stabiliti nella velocità femminile tra il 1983 e il 1988. Oggi ce ne ricordiamo a malapena durante le Olimpiadi, perché fatalismo e cattivi pensieri ci impediscono di credere che qualcuno possa mai scalzare queste tre atlete dal loro piedistallo.

Parlo di Florence Griffith-Joyner (100 e 200 metri), Marita Koch (400 metri) e Jarmila Kratochvìlova (800 metri). Ci siamo detti di non crederci, non pensarci, addirittura di tirarci sopra una riga e ricominciare. Ma un record mondiale, per quanto “sporco” – e ci sarebbe da capire cosa è definibile “pulito”, almeno per poter fare una tara -, è sempre fatto da una persona e queste tre donne valgono la pena di essere raccontate.

Come Marilyn

Flo-Jo è stata un simbolo degli Stati Uniti. Voleva essere una donna unica: si aggiustava il trucco prima di accomodarsi sullo stallo di partenza, amava le sue unghie lunghissime e coloratissime, usciva di casa col boa, un serpente di nome Brandy, al collo. È stata la prima a indossare il body intero, e quello con una gamba coperta e l’altra no, li disegnava lei, sgargianti come i suoi artigli: «I colori mi eccitano».

“Dress to look good, look good to feel good and feel good to run fast”.

Disse no a Playboy che la voleva nuda in copertina e basta al primo marito, il campione degli ostacoli Greg Foster perché «vestiva troppo male». Amava ricordare a tutti che il suo secondo nome, Delorez, lo doveva a una ballerina del varietà Ziegfield. Se n’è andata in una notte di maggio nel 1998, nella sua casa di Mission Viejo, per un attacco di cuore. Morta nel sonno a 39 anni, a un passo dal decennale di quella folle Olimpiade che la incoronò imperatrice della velocità, dopo una vita da onesta velocista e, secondo l’opinione di tanti, troppi anabolizzanti.

Flo-Jo è stata la prima a correre come un uomo, coprendo i 100 metri con 47 passi e mezzo. Per rendere l’idea: oggi Bolt li copre in 41 ed è considerato un alieno. Se Usain è alto 1.96 metri, Florence non arrivava al metro e settanta e si era scoperta velocista perché rincorrendo conigli da bambina riusciva ad acchiapparne qualcuno. La ribattezzarono Fast Woman e nel 1988, per una sola stagione in una vita, corse i 100 in 10’’49 e i 200 in 21’’34. Nessuna in quasi trent’anni è riuscita ad avvicinarsi a questi tempi.

I 100 metri più veloci che una donna abbia mai corso.

Da eterna seconda Florence Griffith (miglior risultato in carriera un argento nei 200 metri a Los Angeles ’84), a 28 anni, divenne la più forte velocista di sempre stabilendo, fra luglio e settembre, due primati mondiali ancora imbattuti. Ultima di 11 figli (6 maschi e 5 femmine) di un'elettricista di origine indiana e di una maestra d'asilo con sangue irlandese di South Center, piccolo centro nei pressi di Los Angeles fra le sterpaglie del deserto di Mojave. Sulla grande scena Florence si presenta nel 1978, a soli 18 anni, con il record mondiale detenuto dalla tedesca Marlies Oelsner con 10"88, sigla un 10"86 aiutato da un vento oltre la norma.

Però essere sprinter negli Stati Uniti è tutt'altro che facile, aveva davanti compagne come Evelyn Ashford, che avrebbe stabilito nell'83 il primato mondiale (10"79 e 10"76 nell'84), Valerie Brisco Hooks e Diane Williams. Per Florence c’è un posto sicuro solo nella staffetta 4x100. Costruisce così una carriera onesta con pochi acuti: seconda con la staffetta 4x100 a Roma nella coppa del Mondo '81, quarta nei 200 nei Mondiali di Helsinki '83, la Griffith aveva puntato tutti i suoi desideri su Los Angeles '84, dove il boicottaggio le avrebbe tolto avversarie temibili come le russe e le tedesche orientali. Invece sui 200 fu solo seconda, battuta dalla compagna Brisco Hooks.

Florence fa gara di testa fino a metà rettilineo poi Valerie affonda la progressione e la beffa in seconda corsia.

Una delusione terribile per Florence che decide di andare a lavorare in banca, cassiera a Los Angeles. Otto ore allo sportello prima degli allenamenti in pista. La dieta, i ritmi da impiegata: ingrassa, perde velocità e non è facile per Bob Kersee convincerla a ritornare all'atletica a tempo pieno e a inseguire ancora il sogno di diventare la donna più veloce del mondo. L'inverno fra l'’86 e l'’87 è per lei decisivo. Lascia Foster e conosce Al Joyner che sposa in fretta e riprende ad allenarsi come non aveva mai fatto. Ci sono i Mondiali di Roma da preparare, torna sotto gli 11 secondi nei 100 e soprattutto scende sotto i 22 secondi nei 200 metri. Ma sulla pista dell'Olimpico, trova la tedesca Silke Gladisch a sbarrarle la strada.

“Griffith in going well” ma non abbastanza.

Il suo momento arriva nel luglio del 1988 ai Trials olimpici di Indianapolis. Esordio sui 100 con 10"60 ventoso, quindi 10"49 con una valutazione nulla del vento che desta molti dubbi e polemiche, infatti mentre l’anemometro della pista indica 0,0, quello del salto tripli registra un vento favorevole di 4,3 m/s e dunque più del doppio del massimo consentito. Quindi ancora 10"70 e 10"61 in finale, il tutto nello spazio di poco più di 24 ore. Vento o no, nessuna donna era mai andata tanto forte. Per farsi un’idea della portata di quel tempo la Gazzetta dell’epoca ci ricorda che nello stesso giorno a Torino Antonio Ullo vinceva i 100 dei campionati societari con lo stesso tempo.

Florence Joyner detiene ad oggi le tre migliori prestazioni sui 100 metri, appunto con i due tempi di Indianapolis e il 10’’62 della semifinale di Seul. L’unica che si sia mai davvero avvicinata è Carmelita Jeter, capace nel 2009 di correre in 10’’64 sulla pista di Shangai. Ancora più impressionante ciò che accade sui 200 dove l’unica atleta in attività ad essere entrata nella top 5 all time è l’olandese Daphne Schippers, quarta, ma staccata di tre decimi dal fantascientifico 21’’34 di Flo-Jo alle Olimpiadi coreane.

Ai Giochi di Seul è la regina: vince prima i 100 con un 10"54 ventoso. Ma quello che colpisce è la potenza e la facilità della corsa. Flo-Jo parte con un tempo di reazione migliore di quello di Ben Johnson, fa gara di testa da subito e sorride. Le altre sputano fatica e sbarrano gli occhi, lei corre e ride. Molto prima del traguardo inizia a festeggiare e al traguardo giunge a braccia alzate. La gioia dura poco perché già in conferenza stampa arrivano le accuse di doping, e giungono dalla connazionale Gwen Torrence. Volano insulti e sedie, l’allenatore di Florence, Bob Kersee impazzisce e lo devono tenere in quattro.

Lei continua a sorridere e dice beata che si è allenata guardando i video di Johnson, che fa pesi e mille piegamenti al giorno. «Ho solo assunto amminoacidi», dice. Certo che poteva scegliersi un esempio migliore: il canadese Ben Johnson viene squalificato proprio a Seul e diventa subito il simbolo stesso del doping nell’atletica. Alcuni racconteranno senza fornire prove che anche Griffith aveva lasciato tracce di sostanze proibite, ma il Comitato olimpico non poteva permettersi un altro scandalo. E così l’accordo: Flo-Jo pulita ma avrebbe dovuto abbandonare la corsa con una scusa qualsiasi. Dopo quattro mesi effettivamente l’americana pluri-medagliata si ritira di nuovo e il Cio annuncia l’introduzione dei controlli a sorpresa.

Nessuno si ritira a ventinove anni, dopo aver sconvolto il mondo, quando finalmente arrivano la pubblicità, i soldi, i contratti da firmare, Flo-Jo sì: «Forse mi dedicherò alla maratona, ho altri progetti». Della maratona non se ne fece nulla ma di altri progetti ne fioccarono a decine: Bush padre nell'’89 la volle nel Consiglio per la salute e l'attività fisica, poi lavora per la federazione americana per sviluppare l’atletica tra i giovani. Le piace dipingere quadri e disegnare vestiti, come ad esempio le divise degli Indiana Pacers, addirittura compare nella soap opera di grande successo, Santa Barbara, interpretando la fotografa Terry Holloway.

Mia madre non ne perdeva una puntata.

Nel 1996 partecipa al programma televisivo di Charlie Rose in cui annuncia l’intenzione di voler tornare all’attività agonistica e chissà magari anche alle Olimpiadi di Atlanta. Poi però su un volo per Washington si sente male, forse è un infarto, la sua cartella clinica viene secretata ma la voce del sospetto torna a farsi sentire. Poi improvvisa la morte, da sola, nel sonno. Ricompare una dichiarazione resa dal mezzofondista Darrell Robinson nel 1989 ad una rivista tedesca (Stern), in cui l’atleta dichiara di aver venduto personalmente a Griffith un ormone della crescita.

Lorna Boothe, ex ostacolista inglese divenuta team manager della nazionale di atletica rilascia invece questa dichiarazione: «Flo-Jo ha fatto regolarmente uso di droghe, conosco il cocktail di cinque porzioni, a base di steroidi e di testosterone, al quale si sottoponeva in una clinica di Los Angeles». Sono passati quasi venti anni da quel giorno di maggio 1998, e ancora oggi le circostanze attorno a Flo-Jo non sono del tutto chiare.

Flo-Jo nel suo massimo splendore

Marita Koch, libro chiuso

Quando Marita Koch appare sul rettilineo del Bruce Stadium di Canberra la sera del 6 ottobre 1985 uno spettatore distratto potrebbe pensare si tratti di una gara di mezzofondo. Infatti, staccata di cinque o sei metri, alle spalle dell’atleta della Germania Orientale, si vede soltanto Olga Bryzgina. Le altre concorrenti sono lontanissime, su un altro pianeta. La russa appare anche più brillante della tedesca negli ultimi metri e riesce a stampare un ottimo 48’’27, quarto miglior tempo assoluto, e che oggi varrebbe una medaglia d’oro con distacchi di oltre mezzo secondo. Koch però sta correndo nello spazio e ferma il cronometro a 47’’60, che significa meno 39 centesimi rispetto al precedente record.

Rivedere oggi quella gara lascia senza fiato. Marita Koch scatta dal blocco come se stesse per affrontare una gara sui 200, inoltre corre nella non fortunatissima seconda corsia, eppure niente la frena: né le curve né l’acido lattico. Nei successivi trent’anni nessuna donna è mai più scesa sotto i quarantotto secondi e nell’ultimo decennio non ci sono state prestazioni sotto i 49’’. L’ultimo mondiale è andato ad Allyson Felix, che ha coperto la distanza nel Nido d’uccello di Pechino in 49’’26, di gran lunga la miglior prestazione del 2015.

Il mostruoso tempo realizzato da Koch è il fiore all’occhiello di quella macchina di successi sportivi che fu la Repubblica democratica tedesca. Marita da sola ha migliorato 31 record mondiali. Una macchina alimentata da un sistema di doping sistematico, come si è capito dai documenti della Stasi venuti alla luce dopo il crollo del muro di Berlino.

Nel loro libro uscito nel 1991 intitolato Doping-Dokumente e frutto di un’analisi approfondita di quei dati, Brigitte Berendonk e Werner Franke documentano che l’intera squadra femminile di atletica era sottoposta a una cura meticolosa a base di un potente steroide, chiamato oral-turinabol nel periodo 1981-1984. Addirittura in una lettera scritta dalla stessa Koch alla Jenepharm, casa produttrice dello steroide, l’atleta si sarebbe lamentata del fatto che a Barbel Wockel, vincitrice del titolo europeo sui 200 nel 1982, fosse stata una dose maggiore del medicinale perché nipote del presidente della società farmaceutica.

Barbel beffa tutte, anche Marita,sulla pista di Atene.

Circostanza sempre negata da Marita che oggi vende articoli sportivi a Rostock e che difende la sua integrità in ordine del fatto di avere superato moltissimi controlli anti doping durante la carriera. Quando cadde il Muro era a casa davanti alla televisione: «Mi sono chiesta: perché solo ora e non prima? Ho pianto, ho guardato mia figlia, ho pensato che il suo futuro sarebbe stato bellissimo mentre a me una settimana dopo sono toccati sospetti, sguardi indagatori, condanne. Ero la sporca, brutta e cattiva».

Eppure appena due anni fa Marita è stata iscritta nella Hall of fame dell’atletica della Federazione internazionale (Iaaf). Lei, figlia di una nazione che non esiste più e che in cinque partecipazioni ai Giochi olimpici ha rastrellato 519 medaglie di cui 192 d’oro. Sporche di doping, è il mantra che ci ripetiamo. Allora perché il riconoscimento? Marita Koch viene nominata stella del firmamento di uno sport che non la vuole vedere più: «Mi sarebbe piaciuto tornare nell’atletica. Ma improvvisamente ero anch’io un simbolo da abbattere. I nostri primati sembravano crimini. Se ci avevano dato qualcosa non so, io ho sempre lavorato duro. Dicono: il doping corrompe. Rispondo: e i soldi che ci sono oggi no?». I conti non tornano.

La prima volta di una donna sotto i 49’’ sui 400 metri.

Sono difficili anche i conti con la carriera di Koch che, a partire dal 1979, ha stabilito trentuno record mondiali: ad esempio quello sui 200 metri infranto da Flo-Jo era suo (21’’71 corsi al Karl Marx Stadt). Oppure quello dei 400 ritoccato diverse volte a partire dal 1978, sei delle migliori dieci prestazioni all time sulla distanza sono sue. Inoltre Marita era capace di correre i 100 metri in 10’’83 ed è stata record-woman nazionale sui 50 e 60 metri. Si è messa al collo dieci ori europei e quattro mondiali, meno fortunata con le Olimpiadi per colpa del boicottaggio di Los Angeles dove non poté difendere il titolo sui 400 vinti a Mosca ’80. Praticamente è stata la donna più veloce sulla distanza per un decennio. E ancora oggi i suoi tempi sono inavvicinabili, uno dei tanti libri chiusi dell’atletica.

La vita difficile all'ombra della Ddr

Non è stata facile la carriera di Jarmila Kratochvílová, costellata di malattie e infortuni, offuscata dal talento furioso di Marita Koch. Se facciamo un passo indietro alla sera di Canberra del 6 ottobre 1985, quello che cade è il record fissato proprio da Jarmila ai Mondiali di Helsinki ‘83. Prima donna a infrangere il muro dei 48’’ sui 400 metri (47’’99 per la precisione), tempo straordinario e doppio oro, forse il più massacrante di tutto questo sport, facendo il bis negli 800. C’è anche l’argento nella 4x400, ovviamente dietro alla Ddr. Un’ossessione.

Jarmila quando fu regina dei 400.

Jarmila Kratochvílová non ha avuto una vita facile inseguita sempre dal sospetto più umiliante, quello di non essere una donna. In confronto le accuse di doping sono niente. La chiamavano “l’armadio”, la “portaerei cecoslovacca”, a sottolineare un fisico non gentile, esasperato dal doping, mai ammesso. C’è anche chi scrisse: “il suo corpo è una provocazione”. «Una ragazza di campagna», come lei stessa si è sempre descritta. Nata a Golcuv Jenikov, ex Cecoslovacchia, non si è mai allontanata da qui, anche oggi che ha superato i sessanta e fa l’allenatrice. Padre poliziotto, madre addetta in una cooperativa agricola, e una cinquantina tra zii, cugini e altri parenti.

I muscoli Jarmila dice di esserseli fatti lavorando nei campi, non in palestra. Ha iniziato tardi a fare atletica, a 17 anni, l’insegnante di sport, che era russo, si accorge che batte gli uomini e così inizia a correre seriamente. Si allena sempre, anche a Natale e Capodanno, non può farne a meno. «Non potevo smettere di pensare: e mentre io scanso la fatica, a Rostock c’è Marita Koch che si allena il doppio. Così la contentezza per il riposo era sostituita dal senso di colpa».

Il suo anno magico è il 1983. Jarmila va per i trentadue e batte nel giro di dieci giorni due record del mondo: quello sugli 800 metri con il tempo di 1’53’’28 è ad oggi il più longevo di tutta l’atletica leggera. L’altro, come detto, è il 47’’99 e sui 400 che due anni dopo Marita Koch spazzerà via, ma che resta comunque la seconda prestazione all time. «Era un miracolo e un privilegio andare all’estero a quei tempi. Così quando ci autorizzarono per il meeting di Monaco, quel 26 luglio, io ero contenta. Dovevo gareggiare nei 200, ma avevo i crampi alla gamba destra, e il coach optò per gli 800, meno veloci e pericolosi. Era la terza volta in vita mia che li correvo. A 30 metri dal traguardo vidi il cronometro e pensai: è guasto».

«È l’unica volta in vita mia che ho corso libera. Rilassata. Doveva essere solo un allenamento. Nessuno mi aveva dato ordini. Scattai dall’inizio alla fine. Una pazza. Proprio il contrario di quello che fanno oggi. Non pensai a distribuire lo sforzo. Puro e felice squilibrio»

Per Jarmila quella prestazione significò un premio di 12mila corone, circa 450 euro, e, forse più importante, il non dover più lavorare come impiegata nell’azienda tessile di stato. A casa però continuava a fare la sua solita vita e quando un giorno una troupe americana andò a filmare come si allenava la trovarono alle prese con l’ammazzamento del maiale. Fuggirono inorriditi. Più volte Kratochvílová ha sottolineato l’estrema povertà che le ha regalato l’atletica, criticando l’eccesso di gare e di premi dello sport odierno. «Io facevo tre gare all’anno, oggi ne fanno 25 e usano le lepri». Ha sempre ricordato la durezza dei suoi allenamenti e rigettato la facilitazione del doping: «Io per arrivare al mio record ci ho messo sedici anni».

Coppa Europa 1983: seguite la lettera D.

Un sondaggio condotto un paio d’anni fa dal sito letsrun.com ha incoronato Jarmila col ben poco invidiabile titolo di “record meno credibile della storia”. Si tratta chiaramente di un rilevamento che non ha valore scientifico, basandosi su appena 12.000 voti frutto molto spesso dell’umore del momento. È interessante notare come il primato dell’ottocentista cecoslovacca risulti meno credibile di quelli delle mezzofondiste cinesi Yunxia Qu e Yunxia Wang il cui doping è stato certificato. Più in generale i sospetti sono più foschi quando rivolti al passato, mentre si diradano avvicinandosi agli ultimi anni. Ci sono, ben piazzate, anche FloJo e Marita, con i loro mostruosi tempi, ma c’è anche Usain Bolt. Chissà magari a ripetere il sondaggio oggi ci sarebbero più russi, più kenyani. Quello che è certo è che non appare all’orizzonte la fine della mancanza di fiducia in uno sport che ne ha bisogno molto più che dei record.

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