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Con Allardyce la federazione inglese ha toccato il fondo?
28 set 2016
28 set 2016
Il punto sulle dimissioni di Allardyce dovute all'inchiesta del Telegraph
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Nel commentare la decisione di dimettersi di mutuo accordo con la FA presa da Sam Allardyce ieri sera, Martin Glenn, chief executive della federazione inglese, ha rilasciato una dichiarazione solo apparentemente banale. “La FA è molto di più della semplice gestione della nazionale maschile” ha dichiarato Glenn al sito della federazione “Quella coerenza, quella fiducia che le persone ripongono in noi nel comportarci in una certa maniera è il fulcro di ciò che è ogni federazione, e questo è certamente vero per la federazione inglese”.

La consapevolezza di Glenn è una dimostrazione di lungimiranza non banale, in un momento in cui pensare che Allardyce sia l’iceberg e non solo la punta ghiacciata è estremamente facile. Il tecnico di Old Park Farm ha un curriculum non certo da allenatore di prima fascia (Bolton Wandereres, Newcastle United, Blackburn Rovers, West Ham e Sunderland, dal 1999 ad oggi), era il ct di nazionale più pagato in assoluto ed aveva già avuto problemi di questo tipo. Esattamente dieci anni fa un documentario della BBC mostrò due agenti dichiarare di aver pagato delle mazzette ad Allardyce per comprare determinati giocatori.

Era un’accusa molto più grave di quella fatta dal Telegraph ieri, il cui video sotto copertura in realtà dimostra solo l’intenzionalità potenziale di vendersi ad una finta azienda orientale interessata ad investire nel calcio in cambio di un ruolo di rappresentanza (d’altra parte un ct di una nazionale non potrebbe comunque vendere o comprare giocatori – in questo senso non bisogna sottovalutare il peso delle sue dichiarazioni su Hodgson e, soprattutto, sulla famiglia reale britannica).

L’importante, in quella che è solo la prima parte di un’inchiesta molto più grande (il Telegraph dice di lavorarci da 10 mesi), non è tanto ciò che Allardyce fa quanto quello che Allardyce dice. E cioè la facilità con cui, secondo l’ex ct della nazionale, sarebbe possibile aggirare le regole della federazione inglese sulle cosiddette TPO (acronimo che sta per third-party ownership, cioè la proprietà da parte di fondi d’investimento di percentuali dei diritti economici dei giocatori) e il malcostume, a quanto pare molto diffuso e accettato, di agenti e allenatori di prendere mazzette da questi fondi per facilitare i trasferimenti.

In un’inchiesta del Guardian di un paio d’anni fa, che a sua volta cita un report scritto per la FIFA dal Centre de Droit et d’Economie du Sport (CDES) e il Centre International d’Etude Du Sport (CIES), si può leggere che “le third-party ownership cementano un sistema nei quali i giocatori devono essere venduti prima della scadenza dei loro contratti, in modo che i loro club, e i fondi che gli hanno anticipato i soldi, possano incassare”.

Non è un caso che ad un certo punto Allardyce consigli non solo di comprare una percentuale dei diritti economici del giocatore, ma anche l’agente stesso: “Se [il giocatore, nda] continua ad essere venduto, l’agente prende più soldi; e tu prendi una percentuale delle commissioni dell’agente”. Questo perché in Inghilterra le società sono costrette a comprare il 100% dei giocatori e quindi i fondi possono incassare la loro percentuale dal trasferimento solo una volta. Lo stesso Allardyce spiega di essersi ritrovato in prima persona in questa situazione, al West Ham, quando il club londinese si è ritrovato a dover acquistare il 100% del cartellino di Enner Valencia, all’epoca in parte di proprietà di un fondo d’investimento.

In questo senso, alla FA interessava soprattutto ciò che Allardyce rappresentava, e cioè la prima e più immediata immagine del calcio inglese in generale. Non bisogna dimenticare, infatti, che una parte consistente del successo economico del calcio inglese (della Premier League, ma anche della Championship) è rappresentato dalla presunta capacità della FA di mantenere intatta la competitività del gioco non solo attraverso l’equa redistribuzione delle risorse (soprattutto attraverso i ricchi diritti TV) ma anche con la trasparenza e l’applicazione ferrea delle regole. Pensiamo, ad esempio, all’invidia che si legge spesso sui nostri giornali per i rigidi controlli effettuati oltre Manica sui nuovi investitori (e di cui una delle ultime vittime è stato Cellino, al Leeds).

La FA è stata la prima federazione, nel giugno del 2008, a vietare le TPO e successivamente si è battuta ripetutamente con la FIFA affiché il divieto si estendesse a livello globale (una decisione che la FIFA ha preso solo nel maggio del 2015). In questo contesto, è facile capire perché, tra l’imbarazzo di doversi disfare di un allenatore ingaggiato solo 67 giorni fa e l’effetto catastrofico in termini d’immagine che avrebbe avuto mantenerlo, si sia scelto il primo male. Non è nemmeno da sottovalutare, quindi, il valore simbolico che ha il gesto di Allardyce di volersi dimettere volontariamente, senza esonero da parte della FA.

Questo non vuol dire, però, che la carica esplosiva dell’inchiesta del Telegraph sia stata del tutto disinnescata. Il quotidiano inglese, infatti, ha pubblicato ieri sera (non con un gran senso del tempismo, a dire la verità) la seconda parte dell’inchiesta, a livello fattuale ben più grave della prima anche se molto meno vendibile mediaticamente (il ct della nazionale in Inghilterra ha un peso mediatico inferiore solo alla Regina e al primo ministro).

In quest’ultima il testimone principale è l’italiano Pino Pagliara, uomo di fiducia di Moggi in Inghilterra ed ex dirigente del Venezia, squalificato dalla FIGC nel 2005 per cinque anni perché colto in flagrante a consegnare una valigetta con 250mila euro al Genoa in un tentativo di combine.

Pagliara, intercettato con lo stesso espediente di Allardyce, parla di un sistema molto capillare in cui a volte sono gli stessi allenatori (il Telegraph dice di avere otto nomi di allenatori attuali o recenti di Premier, e due di Championship) a chiedere una parte, nel caso in cui i trasferimenti dovessero andare in porto. Secondo Pagliara uno di questi gli avrebbe detto: “Sì, voglio il giocatore. Ma c’è un caffettino per me, Pino?”. Con “caffettino”, in pieno stile mafioso, si intende la mazzetta. “Su una cosa ho potuto fare sempre fare affidamento, e cioè l’avidità degli allenatori”, afferma Pagliara ad un certo punto.

Il punto di contatto tra le due parti dell’inchiesta è la miniera d’oro che gli agenti, le TPO e gli allenatori vedono nella Premier League. Allardyce, ad un certo punto, afferma quasi con orgoglio: “The big money’s here”. Una frase che è spiegata in maniera più esaustiva da un’altra di Dax Price, socio di Pagliara: “Questi nuovi diritti TV - 7,2 miliardi di sterline… il denaro che girerà sarà assurdo… non c’è un campionato al mondo come quello inglese”.

In questo senso, per paradosso, la FA e Pagliara hanno lo stesso obiettivo: far sì che la Premier League rimanga il campionato economicamente più remunerativo al mondo. E anche se non è detto che la federazione inglese ci riesca, salvandosi da quello che potrebbe diventare il più grande scandalo del calcio inglese contemporaneo, dalle prime dichiarazioni e azioni sembra almeno avere chiaro che la possibilità di avere quei diritti TV non si basa solo sul poter schierare Pogba e Ibrahimovic, ma anche sul poter garantire una competizione sana. O almeno convincere il pubblico di esserne capace.

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