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Compiersi a Tirana
01 giu 2022
01 giu 2022
Reportage dalla finale di Conference League.
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Non voglio includere il tempo nel mio schema.

Non voglio pensare alle cose come presenti; voglio pensarle come cose.

Non voglio separarle da loro stesse, trattandole come presenti.

Vive, dizes, no presente; Vive só no presente.” - Alberto Caeiro (Eteronimo di Fernando Pessoa)

Da oggi il sorriso con cui Laura mi accoglie all’aeroporto di Fontanarossa sostituirà definitivamente il ghigno di Davide Baiocco nella mia idea di Catania. Ho conosciuto Laura al bar della Cassazione, dove entrambi lavoriamo, poche ore prima del ritorno dei quarti di finale di Conference League Roma-Bodø/Glimt. La mia amica Veronica aveva due biglietti per lo stadio, ma il suo fidanzato, juventino, non si sentiva bene e l’idea di andarci da sola non la convinceva. Così, quando in fila per comprare il pranzo è venuto fuori che anche Laura e la sua coinquilina sarebbero andate all’Olimpico e nello stesso settore di Veronica ho provato a combinare affinché si formasse un unico gruppetto.

Alla fine, il ragazzo di Veronica si è ripreso e non se n’è fatto nulla, ma io e Laura siamo rimasti in contatto. Quando le ho detto che per andare a Tirana avrei fatto uno scalo di quasi sei ore a Catania, la sua città, dove si trovava per alcuni giorni di ferie, si è proposta di venire a prendermi in aeroporto e farmi da guida per il breve soggiorno.

Sono ore di una serenità alienante rispetto all’ansia delle ultime settimane e a quella che mi attende nel resto della giornata. L’Etna si serve di una colonna di fumo per superare nel gioco delle prospettive le altezze delle decine di gru che compaiono non appena i palazzi lasciano spazio a un orizzonte appena più lontano. «Questa città è sempre piena di cantieri, ma gli anni passano e non cambia mai nulla», mi dice Laura.

Alle 11 di mattina di un mercoledì qualsiasi il centro di Catania è zeppo di persone. Al di là di alcuni gruppuscoli di turisti nordeuropei che stanno perdendo la sfida col sole siciliano, il resto dei passanti cammina tra i banchi dello storico mercato del pesce senza alcun bisogno di ulteriori generatori di senso per la propria giornata. Mi rendo conto che la mia idea delle persone di Catania è cristallizzata al 18 maggio 2008. A 11 anni non ancora compiuti una stagione calcistica dura una porzione troppo grande del tempo di cui hai coscienza e quelle ridicole speranze di scudetto all’ultima giornata di campionato al Massimino, per me, erano già le speranze di una vita intera. Ricordo tutto di quella partita. Più di ogni altra cosa ricordo il clima surreale in cui si giocò, con alcuni giornalisti romani malmenati, un numero spropositato di persone a bordo campo, la panchina della Roma costantemente minacciata. A guardarle adesso, queste persone di Catania non sembrano come me le sono figurate per tutti questi anni. Io, invece, sono proprio lo stesso bambino del 2008. Una settimana dopo quella partita, la Roma vinse la sua nona Coppa Italia, nonché il suo ultimo trofeo, ma di quel giorno non ho nessun ricordo.

Poco dopo le 14, mentre siamo a mollo nell’acqua limpida e gelida che sostiene i faraglioni di Aci Trezza, Laura si taglia su uno scoglio. Un abbondante rivolo di sangue attraversa la sua coscia fino al ginocchio, ma lei sembra molto tranquilla. Incredibilmente, anche io mi sento tranquillo, almeno finché Wizz Air non mi comunica che il mio volo è in ritardo di circa un’ora.

***

Cosa provavano i tifosi della Roma nel 1961? Quanto erano astruse le rotte dei loro viaggi? Che cosa bevevano? Com’erano vestiti? La Roma non ha mai giocato una finale europea in campo neutro. L’unica finale giocata fuori dall’Italia è stata la gara di andata di Birmingham nella Coppa delle Fiere del 1961. Per il resto, dopo la vittoria contro gli inglesi nel ritorno a Roma, c’è stato il doppio scontro nella finale di Coppa UEFA del 1991 contro l’Inter, con la coppa alzata dai nerazzurri in un Olimpico gremito, e la madre di tutte le sconfitte, quella ai rigori contro il Liverpool nella sfida secca che ha deciso la Coppa Campioni del 1984. Di fronte a quest’occasione inedita, probabilmente la trasferta più importante nella storia della squadra, i tifosi romanisti hanno risposto alla spietata efficienza degli algoritmi delle compagnie aeree con la solita creatività scriteriata. In molti avevano comprato i biglietti prima ancora del doppio scontro con il Leicester. Io non me la sono sentita di aggiungere un investimento economico a quello emotivo già spropositato e ho comprato i biglietti dei voli circa 5 minuti dopo il fischio finale, mentre ero ancora in Curva Sud, grazie alla complicità del mio amico Valerio, il quale ha seguito la partita con il cursore del mouse sul tasto “conferma acquisto” e il seguente bignami: se la Roma è in vantaggio di tre o più gol a 5 minuti dalla fine, compra; se la Roma è in vantaggio di due gol al 90esimo, compra; se la Roma è in vantaggio di un gol, compra al fischio finale.

Ero certo che non sarei stato l’unico ad aver trovato accettabile il lungo scalo in Sicilia, ma è emozionante guardare l’espressione di inesplicabilità dei passeggeri comuni quando una sessantina di tifosi romanisti smorzano l’ansia per il ritardo cantando a squarciagola “Lella” di Edoardo De Angelis di fronte al gate dell’aereo per Tirana. Neanche la minima ombra di comprensione attraversa i volti dei pochi passeggeri comuni, che guardano questa fiumana eccitata con la curiosità bonaria che si riserva ai fenomeni esotici. A bordo dell’aereo un gruppetto di dieci ragazzi tra i 20 e i 25 anni palesa varie sfumature di ebrezza, tutte molto oltre il limite della pacifica convivenza. Uno di loro, secco come un chiodo, la barba rada, i capelli ricci a zazzera, gli occhi chiari e buoni, passa la prima metà del volo a biascicare a una ragazza straniera: «You have the shoes and the jacket of the same color». Un altro, leggermente più sobrio e nettamente più saggio della media del gruppo, prega il più grosso di tutti di cantare battendo le mani e non percuotendo il pannello che contiene la maschera a ossigeno. Quello, non senza un certo gusto, risponde: «Perché se no che fanno, ce buttano a mare?». Due di loro vomitano quasi subito il Disaronno comprato al duty free dell’aeroporto.

Uno steward albanese prova a calmarli con pazienza, ma commette un errore marchiano dichiarando alla leggera di essere juventino ed è costretto ad abbandonare ogni tentativo di conciliazione in seguito a diversi minuti ininterrotti di cori contro la Juve. I due tifosi accanto a me, rispettivamente di circa 35 e 55 anni, li guardano dall’alto della loro esperienza e commentano che anche loro da giovani ne hanno fatte di ogni in trasferta, ma che bisogna sapersi regolare per arrivare in condizioni decenti allo stadio e portare il proprio contributo alla squadra.

***

Per quanto può sembrare incredibile oggi, gli esseri umani per un paio di centinaia di migliaia di anni si sono incontrati senza la possibilità di comunicare in tempo reale. Senza la possibilità di effettuare il roaming gratuito, senza aver attivato un’offerta per l’estero, senza una sim albanese e quindi sostanzialmente senza poter usare il telefono, incontrare Giovanni e i suoi amici con un appuntamento generico in un luogo affollato come la fan zone allestita per i tifosi della Roma mi sembra un’impresa ardua. Ci sarebbe un’insperata rete WiFi funzionante, ma non serve, perché sono le prime persone che vedo appena metto piede nella fan zone, quando mancano pochi minuti alle 19. Non ho mai visto prima Giovanni, se non nella foto che mi ha mandato per farsi riconoscere.

È un amico di un mio amico che lavora all’ambasciata italiana a Tirana e semplicemente si è offerto di ospitarmi per la notte. Oltre a me, ospiterà altri due ragazzi che vengono da Roma, Edoardo e Lorenzo. Il loro atterraggio è previsto alle 19.15, meno di due ore prima del fischio d’inizio, e così Giovanni, all’interno di una macchina organizzativa studiata nei minimi dettagli che coinvolge almeno una decina di persone, ha predisposto un trasferimento direttissimo dall’aeroporto allo stadio con due moto private. Quando ci incontriamo, ha per me un sacchetto con vari prodotti da forno e una bottiglietta d’acqua. Uno dei suoi amici, un ex coinquilino che adesso non vive più a Tirana, urla il mio nome come fosse una formula propiziatoria e mi abbraccia come se dal mio arrivo fosse dipeso non solo l’esito, ma l’esistenza stessa della finale. Ci dividiamo subito: io e Giovanni passiamo a casa per lasciare il mio zaino, gli altri vanno allo stadio. Il tragitto per casa di Giovanni è quasi interamente nel Parku i Madh i Tiranës, il grande parco di Tirana, che con i suoi 289 ettari, occupa una porzione più che rilevante della parte sud della città. Ci lasciamo alle spalle l’enorme lago artificiale e attraversiamo la fan zone fino ad arrivare all’anfiteatro dove un maxischermo proietterà la partita per i tanti tifosi romanisti arrivati a Tirana senza il biglietto per lo stadio. Sarebbe stato il posto in cui l’avrei guardata anche io, se un autentico miracolo non fosse avvenuto a poco più di 27 ore dal calcio d’inizio.

Il sorteggio fra gli abbonati si era concluso con una mail mai arrivata e la nostalgia delle cose che non succedono. La vendita libera UEFA, invece, era stata una delle esperienze più frustranti della mia vita: un’ora intera ad aggiornare la pagina web ogni singolo secondo, senza mai trovare la disponibilità di un posto che non fosse riservato alle persone disabili. I successivi dieci giorni li ho passati a chiedere un biglietto a tutte le persone che conosco e anche a diverse persone che non conosco. Mi sembra valga la pena di riportare a titolo esemplificativo alcune delle persone coinvolte nei vari tentativi: una cugina di mio padre che insegna Istologia e collabora con l’Università di Tirana; una ragazza vista una sola volta in vita mia su un treno che ha pubblicato una storia dalla Tribuna d’onore dell’Olimpico in occasione di Roma-Venezia; un amico di famiglia, pugliese, per il solo fatto di essere un industriale; la segretaria di uno dei massimi vertici della Corte di Cassazione; attraverso alcuni gradi di separazione: Igli Tare. Poi, nel pomeriggio della vigilia, mentre insieme a decine di persone oltrepassavo i tornelli di uscita della metropolitana per tornare a casa dal lavoro, mentre il tabaccaio vendeva il millesimo pacchetto di sigarette della sua giornata, mentre un cane quasi faceva cadere il mendicante che cercava uno spicchio d’ombra, mi è arrivato uno dei messaggi migliori che abbia mai ricevuto.

Nella sua Musée des beaux arts Auden guarda il Paesaggio con la caduta di Icaro di Brueghel il Vecchio e riflette su “(...) come ogni cosa si volge / del tutto tranquilla dal disastro (...)”. Mi viene da pensare che valga lo stesso anche per il trionfo.

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Non siamo propriamente in ritardo, ma l’idea di non essere ancora dentro a poco più di un’ora dalla partita mi agita. A Roma-Leicester io, papà e zio siamo arrivati allo stadio due ore e mezza prima del fischio d’inizio. Giovanni è solidale con la mia ansia, ma non può nascondere un certo divertimento mentre la documenta. Dobbiamo essere arrivati allo stadio dal lato sbagliato, visto per due volte dei poliziotti ci respingono dicendo poche, svogliate parole in albanese a Giovanni, delle quali mi basta cogliere “Sheraton” per capire che c’è da tornare indietro verso il parco e aggirare la zona degli alberghi per accedere al filtraggio. Insieme a noi, alcuni ragazzetti albanesi senza biglietto si affacciano alla ricerca di una falla nello schieramento di sicurezza.

Ogni incontro sembra losco a Tirana, nessuno lo è davvero. Ogni tre palazzi finiti, c’è un cantiere. «Questo palazzo in massimo 2-3 mesi sarà pronto per essere abitato. I cantieri durano un anno e mezzo, massimo due, poi c’è un nuovo palazzo, super moderno, spesso mezzo vuoto». È il giorno della partita più importante della mia vita, manca sempre meno, e sto camminando accanto a un escavatore, poi sto pregando che questa sorta di scorciatoia nel bosco ci porti davanti al maledetto hotel Sheraton. Lateralmente nel mio cervello penso che se a fine partita ci dovessero essere scontri tra la due tifoserie in questa zona, con un bosco totalmente buio e una fornitura di materiale in ferro a cielo aperto, sarebbe un film horror a cui non vorrei partecipare.

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Capita spesso, nell’attesa dei lunghi pre-partita in Curva Sud, di ricordare i bei tempi in cui l’antica pratica di scavalcare dai distinti alla curva intratteneva gli astanti, i quali ringraziavano dello spettacolo con “olé” fragorosi in modo proporzionale a quanto goffo fosse il tentativo. Da anni ormai la rigidità delle telecamere e la severità delle sanzioni hanno fatto estinguere del tutto questo moto d’amore che spingeva decine di persone a rischiare la pelle a tre metri da terra per spostarsi da un posto più caro e con migliore visibilità a uno semplicemente più caloroso.

Sarà per l’incoscienza di chi è su suolo straniero, ma non sembrano esserci grossi rischi invece, quando, superando alcune resistenze degli steward e una vetrata non particolarmente alta, usando le braccia dei compagni d’avventura come fonte d’attrito per non scivolare lungo lo spigolo, io e altri cinque o sei temerari ci ricongiungiamo col cuore pulsante della spedizione romanista. Ora sì che può iniziare la partita.

***

I festeggiamenti delle squadre di calcio di fronte alla vittoria di un trofeo seguono una ritualità piuttosto codificata. La panchina che freme a bordo campo gesticolando all’arbitro che il tempo è finito, la corsa impazzita di alcuni, l’inginocchiarsi commosso di altri, la cerimonia della coppa, We are the champions dei Queen, la festa con i tifosi e poi i gavettoni e i cori nello spogliatoio, spesso l’incursione di un gruppetto di giocatori nella conferenza stampa dell’allenatore. A rendere unico tutto questo agli occhi lucidi che incrocio, è che tutto questo sta succedendo a noi. «Ce la meritiamo», dice il signore accanto a me con lo sguardo vuoto, che a vederlo da fuori sembrerebbe stia parlando di una sventura. «Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta», urlano due fratelli qualche fila dietro di me, i volti sfigurati dalla gioia, mentre videochiamano i genitori. Nel breve documentario di DAZN sui festeggiamenti in campo si vedono Mourinho e Pellegrini abbracciarsi e pronunciare le stesse parole più o meno negli stessi minuti.

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Come si reagisce al fatto che ce l’abbiamo fatta? Quello che ho aspettato per una vita intera sta succedendo adesso, ed è un bella responsabilità a pensarci bene. Sta succedendo adesso quello che speravo quando, ai tempi della scuola elementare, il lunedì mattina dopo un posticipo serale correvo nel lettone dei miei a farmi fare da papà la cronaca delle azioni salienti della partita senza sapere il risultato. Sta succedendo adesso quello che speravo in quel Roma-Catania contro Baiocco, quello che speravo quando Tonetto ha sparato alle stelle il rigore di Roma-Arsenal nella Champions con la finale a Roma, quello che speravo quando è morto nonno il giorno prima di Roma-Sampdoria del 2010, e senza di me e papà allo stadio si è interrotto il sogno.

Sta succedendo adesso quello che speravo il 26 maggio e poi il 31 ottobre del 2013, che fu il giorno del mio primo bacio e della decima vittoria nelle prime dieci giornate della Roma di Garcia. Sta succedendo adesso quello che speravo ogni volta che abbiamo preso 6 o 7 gol, dal Manchester United o dal Bodø/Glimt, quello che speravo quando mi sono tinto i capelli di giallo dopo la rimonta contro il Barcellona, quello che speravo quando per guardare l’Europa League con i miei amici tornavo a casa incappucciato due ore dopo il coprifuoco. È un pensiero paralizzante: come si reagisce all’adesso del compimento?

Nella prima parte de L’ordine del tempo, Carlo Rovelli si dedica al racconto del percorso che ha portato la nozione di “tempo” a sfaldarsi man mano che i fisici hanno grattato nella comprensione della grammatica elementare del mondo. Dopo aver condotto il lettore in un'elegante spiegazione dei principi di base della teoria della relatività, lo lascia di fronte a una conclusione dirompente: «adesso» non significa più nulla. «Se potessi tener conto di tutti i dettagli, dello stato esatto, microscopico, del mondo, gli aspetti caratteristici del fluire del tempo sparirebbero? Sì. Se osservo lo stato microscopico delle cose, la differenza fra passato e futuro scompare. Il futuro del mondo, per esempio, è determinato dallo stato presente, né più né meno di come lo sia il passato».

In un mondo in cui non c’è il tempo, ma «solo processi che trasformano quantità fisiche le une nelle altre», alcune cose sembrano un po’ più chiare e questa vittoria fa un po’ meno paura. Il tempo dei cantieri di Tirana scorre in modo diverso dal tempo dei cantieri di Catania, come il tempo sul seggiolino dell’aeroporto Nënë Tereza scorre in modo diverso dal tempo sull’aereo per Forlì, dove faccio ritorno in un altro scalo assurdo. Il tempo della stazione di Bologna è addirittura fermo, il tempo alla stazione Tiburtina scorre troppo veloce mentre provo, invano, a raggiungere la festa al Circo Massimo.

Il tempo della speranza e il tempo del compimento, a guardarli da molto vicino, non hanno una direzione.

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