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Roberto Scarcella
Come suona una sconfitta a Belgrado
22 set 2022
22 set 2022
Reportage dal Marakàna, leggendario stadio della Stella Rossa.
(di)
Roberto Scarcella
(foto)
Srdjan Stevanovic/Getty Images
(foto) Srdjan Stevanovic/Getty Images
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Nei film d’azione c’è un momento clou che si ripete più o meno sempre nello stesso modo: l'inseguimento. Al volante c’è il protagonista - inseguito o inseguitore che sia - che guida a tutta velocità in mezzo al traffico. Accanto a lui c’è un passeggero che sbarra gli occhi, si guarda intorno preoccupato, controlla la cintura di sicurezza, si tiene nervosamente alla maniglia, implora di andare più piano. Ma niente da fare. Anzi, il guidatore - con aria compiaciuta e un sorriso che sa di beffarda e sadica soddisfazione - rilancia dicendo: “Ora tieniti forte che arriva il bello”. Aziona una specie di turbo, l’auto accelera all’improvviso e il passeggero si ritrova schiacciato contro lo schienale, incredulo e impotente.

Sebbene fossi in piedi, e non in un film né dentro un’auto, ma in uno stadio, ho avuto questa sensazione al quarto minuto di gioco di Stella Rossa Belgrado-Maccabi Haifa, preliminare di Champions League disputato alla fine di agosto, quando ai padroni di casa viene assegnato il primo calcio d’angolo, dalla bandierina più vicina a dove mi trovo seduto, nel settore est. Il volume della tifoseria, già altissimo, supera una qualche soglia del suono che mi fa sobbalzare, e così mi tiro istintivamente un po’ all’indietro, come davanti a un pericolo, come schiacciato da qualcosa più forte di me.

Fin da quando ero entrato, quasi un’ora prima della partita, avevo avuto l’impressione, forse amplificata dalla mitologia di questo stadio, il Marakàna, di trovarmi in un posto speciale - dove i cori vengono cantati all’unisono da tutto lo stadio, nessuno escluso - e allo stesso tempo vagamente fuori posto. Colpa della mia maglietta, nera, scelta apposta per sembrare il più neutro possibile nel tragitto verso lo stadio in una partita considerata altamente a rischio.

Dentro però - almeno all’inizio - sono l’unico nella mia zona a non indossare una maglia rossa. Al Marakàna funziona così, almeno in queste partite da tutto esaurito: chi va nelle due curve mette una maglia bianca, chi va nei settori laterali quella rossa, in modo da creare un effetto ottico che dia geometria, ordine e quindi compattezza: serve a galvanizzare i propri giocatori e a intimorire gli avversari, strategia che a giudicare dai primi minuti - in cui gli israeliani sembrano come storditi - sembra perfettamente riuscita.

Guardo meglio attorno a me, e nonostante le magliette rosse o biancorosse della Stella Rossa siano comunque la maggioranza, in tantissimi hanno t-shirt rosse con le scritte più improbabili: Tau Cerámica, Harvard, Pekara (che vuol dire panetteria), Gap, Just do it, Just do nothing, 3/4 Factotum, Detroit Fire Department. C’è anche uno con la maglia del Charlton Athletic. Sembra quasi che questi tifosi, come me, siano arrivati allo stadio con una maglia del colore sbagliato e abbiano recuperato quelle rosse da una grande cesta messa lì apposta per i più distratti: un po’ come quando entri in casa di qualcuno che all’ingresso ti fa togliere le scarpe e ti dice di sceglierti delle pattine tra quelle a disposizione.

Foto di Srdjan Stevanovic/Getty Images

Intanto, mentre cerco di decifrare le scritte più curiose, i tifosi hanno già intonato un coro - a me incomprensibile - con le parole Liga Championa, “Freed from Desire” e un sincopato “Fuck Maccabi” indirizzato ai pochi temerari che occupano il settore ospiti. Li avevo già visti nel pomeriggio, passeggiando per Belgrado, raggruppati in due grandi hotel pluristellati del centro: impossibile non notarli perché c’erano più poliziotti che tifosi.

Quelli del Maccabi, in quanto israeliani e quindi storici alleati degli Stati Uniti, non sono ben visti da queste parti, dove l’anti-americanismo non è solo forte, ma parte fondante dell’essere serbi. I rapporti, che in realtà originariamente non erano nemmeno così tesi, sono molto peggiorati dopo il riconoscimento del Kosovo da parte di Tel Aviv. Un'indipendenza mai accettata da una parte della società serba e che anche ultimamente ha creato tensioni tra i governi dei due Paesi per una questione di targhe automobilistiche alla frontiera. Solo l'ultima di una lunga storia di incomprensioni e minacce.

A due passi da uno degli hotel in cui alloggiano i tifosi del Maccabi c’è ancora quel che resta del Palazzo del Ministero della Difesa bombardato dalla Nato nel 1999 (in risposta agli attacchi serbi in Kosovo, dopo le guerra scatenate negli anni precedenti in Slovenia, Croazia e Bosnia), lasciato così com’era e mai più volutamente ricostruito, come memento. In tutta la città, e in formato extralarge, anche poco fuori dal Marakàna (il cui nome ufficiale dal 2014 è Rajko Mitíc, ex bandiera del club), ci sono grandi poster di Gazprom (sponsor della Stella Rossa) con la bandiera serba e quella russa che si attorcigliano in una sorta di fraterno e solenne abbraccio. Spuntano anche bandiere russe alle finestre, gadget pro-Putin nei negozi, qualche Z dell’invasione all’Ucraina sui muri.

Fare finta che calcio e politica siano due mondi lontani è sempre difficile e soprattutto illusorio, ed è praticamente impossibile a Belgrado, dove i segni delle guerre degli Anni Novanta non solo ci sono, ma vengono addirittura esibiti. La faccia più riprodotta sui muri attorno allo stadio non è quella di un calciatore, ma di Ratko Mladic, l’ex generale e comandante in capo dei serbi di Bosnia, colui che è considerato uno dei maggiori responsabili dell’assedio di Sarajevo e del genocidio di Srebrenica. Mladic, condannato dopo una lunga serie di fughe all’ergastolo solo un anno fa per una lista molto lunga di crimini internazionali (tra cui genocidio), è ancora un punto di riferimento per molti tifosi ultranazionalisti.

Il volto replicato all’infinito di Mladic fuori dallo stadio lo vedo già al mattino, quando alla partita mancano più di 10 ore: sono venuto al botteghino per prendere un biglietto che sembra sempre sfuggirmi. Due notti prima, quando mi ero fermato a dormire in Croazia, il sito della Stella Rossa diceva che non si potevano comprare biglietti con un IP estero (si temeva infatti che alcuni tifosi israeliani potessero infiltrarsi creando disordini). Quando finalmente arrivo a Belgrado, lo stesso sito spiega che i biglietti rimasti sono pochi e che bisogna andare a prenderli allo stadio, il mattino dopo.

I botteghini dovrebbero aprire alle 12, ma io questo ancora non lo so, e mi presento alle 10, stesso orario di apertura del negozio ufficiale. A pochi passi c’è anche quello dei tifosi, come spesso accade nei Balcani. Accanto al negozio c’è un carro armato, vero, con sopra dipinti i colori e gli stemmi della Stella Rossa. Pochi metri più in là c’è Darko Pancev (il bomber macedone della Stella Rossa che poi fallì clamorosamente all’Inter), o meglio un disegno che lo ritrae nella posa più cara ai tifosi belgradesi: con le braccia alzate dopo aver segnato il rigore decisivo nella finale di Coppa Campioni del 1991 giocata a Bari contro l’Olympique Marsiglia. Una delle più noiose della storia, ma questo è un dettaglio, soprattutto per chi l'ha vinta.

Quella posa inconfondibile la troverò stampata anche su cappellini e bicchieri in vendita nel negozio ufficiale, dove tutto è sponsorizzato Gazprom, compresa la maglia celebrativa di quello straordinario 1991. Entro in una specie di bar vip dello stadio, che la sera della partita è esclusivo, ma di giorno è aperto a tutti: è kitsch al limite del respingente, sembra una di quelle repliche dozzinali di un diner americano, ma ha grosse vetrate da cui posso vedere per la prima volta gli spalti e il campo.

Alle 12 i botteghini sono ancora chiusi: assieme a me, in una coda poco ordinata, c’è anche un francese che dice di essere arrivato direttamente dalla Romania con i due figli piccoli per vedere la partita. Il resto sono perlopiù uomini in tuta di ogni età che sembrano essersi appena svegliati. Piove, ma in modo leggero, quasi impercettibile. Alle 12.30 arrivano due addetti della biglietteria, ma non sono venuti per aprirla, sono venuti per mettere dei cartelli con scritto “tutto esaurito” in serbo. Ma non c’erano ancora dei biglietti in vendita? Come hanno fatto a finire senza che il botteghino aprisse? Qualcuno s’infuria, qualcun altro allarga le braccia.

Anche i bagarini che alle 10 si aggiravano come avvoltoi sembrano spariti tutti. Ne ricompare uno, con la tuta d’ordinanza, mi chiede 40 euro per un biglietto nella tribuna est, più del doppio del prezzo ufficiale: mentre provo a trattare mi fa segno di salire su un autobus con lui e un suo compare, ma non mi fido. Lui risalta giù e alla fine ci accordiamo per un prezzo di mezzo. Fino all’ingresso mi resterà il dubbio se il biglietto sia vero o falso. E il dubbio me lo devo tenere per otto lunghe ore. Quando la sera arrivo c’è una lunga fila per salire sul carro armato e farsi fotografare.

Una volta dentro trovo posto accanto a una ragazza con le stampelle; una fila più in basso un gruppo di tifosi mostra via cellulare l’interno dello stadio a un amico ricoverato in ospedale. I criminali di guerra, i carri armati, le stampelle, i ricoverati in videochiamata. C’è un legame con la sofferenza che è insito in ogni tifoseria, ma qui sembra innalzarsi a un altro livello. Tutto è eccessivo, compresi i fischi all’inno della Champions League. Uno accanto a me, con le dita infilate in bocca alla Trapattoni, diventa paonazzo. Sembra che per lui sia più importante allungare la vita di quel fischio che respirare.

Dal calcio d’inizio in poi si vedono i giocatori della Stella Rossa cercare degli uno contro uno che sembrano più dei corpo a corpo: li vincono praticamente tutti arrivando a quel calcio d’angolo al quarto minuto che sembra uscito da “Fast & Furious”. Il gol sembra inevitabile e infatti arriva, al 27’, con Pesic, rimettendo le cose a posto dopo la sconfitta per 3-2 dell’andata. La tifoseria aziona ancora il turbo, ma questa volta so cosa aspettarmi.

Al 43esimo raddoppia Ivanic, e sembra non ci sia motivo al mondo per cui le cose debbano andar male. Nemmeno un rigore fischiato nei minuti di recupero al Maccabi, dopo una chiamata del VAR per un fallo di mano, sembra poter evitare l’inevitabile. Attorno a me pregano quasi tutti: non ho mai visto così tanta gente farsi contemporaneamente il segno della croce al di fuori di una chiesa.

Borjan, il portiere, si tuffa e para. In quello stesso istante si rilassano sia i tifosi che i giocatori, che perdono due volte il pallone lasciando la possibilità a un difensore, lo svedese Sundgren, di calciare da lontanissimo. Sono passati pochi secondi dal rigore parato e molti tifosi sono ancora lì che festeggiano, nemmeno stanno guardando il campo. Non ci sono più segni della croce a sostenere Borjan, che si tuffa ancora, questa volta malissimo: la palla gli colpisce le braccia ed entra. Silenzio.

Si va negli spogliatoi sul 2-1: quindi in pareggio se si considera il 3-2 dell’andata per gli israeliani. Eppure la Stella Rossa rientra con una frenesia che le fa sbagliare appoggi semplici. E tutti, tutti i lanci; il numero 19, Milunovic, uno dei centrali, si specializza nel buttare il pallone altissimo e in fallo laterale sempre nella stessa porzione di campo; il migliore in campo fin lì, il numero 10 Katai, non ne azzecca più una. L’allenatore Dejan Stankovic si mette a fare il raccattapalle: tutti hanno fretta, ma nessuno ha un’idea di cosa metterci dentro. Quei corpo a corpo che esaltavano il pubblico diventano delle specie di incidenti in cui i serbi hanno sempre la peggio, e solo gli evidenti limiti tecnici del Maccabi salvano la Stella Rossa. Intanto, sugli spalti, la macchina che aveva messo il turbo nel primo tempo si è inceppata, balbetta: i cori non partono più all’unisono, i più anziani si siedono, anche il degente collegato via telefono sparisce.

Gli stadi sono ecosistemi strani, e fragili: ci sarebbe tutto il tempo con la tifoseria dalla tua parte, ma squadra e sostenitori si sono scollegati dopo quel bizzarro gol arrivato dopo un rigore parato. Il Maccabi inizia a risalire il campo e nella Stella Rossa regna il caos. Al 78esimo esce l’autore del primo gol, Pesic, ed entra il numero 9 Milan Pavkov, che ravviva almeno il pubblico, divertito dal coro che gli hanno dedicato sulle note di “Mambo italiano”: “Ehi Pavkov, skoci daj gol glavom” (“Ehi Pavkov, salta e facci un gol di testa”).

Il centravanti però sbaglia ogni pallone che tocca, finché al 90’ non accade l’irreparabile. Punizione dalla tre quarti per il Maccabi, Pavkov si mette a difendere sul secondo palo e - tutto solo - rinvia all’indietro con un intervento da spiaggia come il coro che gli hanno appena cantato. Autogol: 2-2.

Foto di Srdjan Stevanovic/Getty Images

La Stella Rossa ha ancora cinque minuti di tempo per segnare e portare la gara ai supplementari, ma probabilmente non basterebbero cinque ore: hanno persino un’occasione caotica, ma limpida, sbagliata proprio da Pavkov, che usa la gamba come una mazza da golf e nemmeno riesce a inquadrare la porta. Cinque giorni dopo verrà impacchettato e spedito il più lontano possibile, all’Al-Fayha in Arabia Saudita. Qualche giorno dopo, alla fine di un'esperienza durata quasi quattro anni, se n’è andato anche Stankovic, che si è dichiarato esausto, svuotato.

Forse è stata molto più di una sconfitta, quasi un Marakànazo.

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