Ho conosciuto Clemente Russo un paio di anni fa, quando è venuto nell’ufficio dell’agenzia di comunicazione per cui lavoro, per parlare di un progetto che poi non è andato in porto. Lo avevo visto dal vivo per la prima volta in un piovoso pomeriggio milanese. Era uno dei partecipanti a una tavola rotonda sullo sport business, io ero nel pubblico. Russo spiccava per la t-shirt colorata e attillata che indossava, che ne risaltava i muscoli scolpiti, e per la cresta bionda, in un contesto in cui gli altri relatori erano in giacca e cravatta. Anche questa volta il suo look era eccentrico, il fisico sempre scultoreo, la personalità dirompente. Russo si è rivelato un vulcano di idee, sembrava essersi completamente riconvertito in un esperto di marketing, dopo aver smesso i panni dell'atleta. D’altronde non è stato solo un pugile eccezionale ma anche un grande uomo di spettacolo.
Campione del mondo dei dilettanti prima a Chicago nel 2007 e dopo ad Almaty nel 2013, Russo si è aggiudicato due volte la medaglia d’argento ai Giochi Olimpici, a Pechino nel 2008 e a Londra nel 2012. Ma non solo: ha vinto anche gli Europei dei dilettanti, i Giochi del Mediterraneo, le World Series of Boxing e tanto altro. Ha preso parte a quattro edizioni delle Olimpiadi – l’unico italiano a farlo - sfiorando la quinta, a Tokyo nel 2021, che avrebbe segnato il record di partecipazioni per un pugile. Russo, però, in quel caso aveva dovuto ritirarsi dal torneo di qualificazione perché debilitato dal Covid, e non essendo potuto salire sul ring è stato eliminato automaticamente. Ha fatto ricorso al CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, per essere ammesso d’ufficio in virtù del suo palmarès e caratura, ma la risposta è stata negativa. Amareggiato, ha deciso di ritirarsi a 39 anni, diventando direttore tecnico del Gruppo sportivo Fiamme Azzurre del Corpo di Polizia Penitenziaria (di cui ha fatto parte anche da pugile dopo un inizio nelle Fiamme Oro della Polizia di Stato). Si è lasciato alle spalle 269 incontri disputati, di cui 214 vinti.
La vita del pugile di Marcianise è stata altrettanto intensa fuori dal ring tra film, programmi televisivi, reality show e libri. Oggi si gode la famiglia, la sua passione per i cavalli e diversi impegni lavorativi. L’ho chiamato una settimana fa per conoscere il suo punto di vista sulla boxe italiana e su molto altro.
Come giudichi lo stato di salute attuale del pugilato italiano?
La boxe dilettantistica è in forma smagliante considerati i risultati recenti e i pass strappati per le Olimpiadi che ci saranno a Parigi l’anno prossimo. Abbiamo già quattro atleti che si sono guadagnati la loro presenza ai Giochi: Aziz Abbes Mouhiidine nei 92 chili, Salvatore Cavallaro negli 80 chili, Irma Testa nei pesi leggeri e Giordana Sorrentino nei pesi mosca leggeri. Prossimamente ci saranno due tornei preolimpici con altri nove pass a disposizione: i nostri ragazzi e ragazze sono pronti a dare il massimo per conquistarli e vivere un sogno. Abbiamo anche nuovi innesti che stanno assicurando un ricambio generazionale, quindi sono ottimista per il futuro.
E a livello professionistico?
Vedo un pugilato in totale sofferenza, ma ormai è un problema radicato. È una questione trentennale, da quando sono finiti gli investimenti nel settore. Alla fine degli anni Novanta sono terminati i fondi e gli organizzatori di alto livello sono spariti. Da quel momento la boxe ha fatto fatica a rientrare di nuovo nelle case della gente, è stato il buio totale.
Cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione?
Mancano alcuni soggetti fondamentali: sponsor, media e persone che sappiano far crescere sia gli atleti che il movimento. Finché i pugili saranno obbligati a fare da PR e a vendere i biglietti dei propri incontri per guadagnarsi la borsa… È una storia bruttissima. Un atleta professionista deve pensare solo ad allenarsi. E allora mi chiedo: che fine hanno fatto i manager e gli organizzatori vecchio stampo?
In che modo è possibile coinvolgere sponsor e media?
Abbiamo diversi pugili che possono diventare dei personaggi, il problema è guadagnarsi il proprio spazio. Io ho dovuto fare a spallate per conquistarmelo, ma ho una personalità istrionica che mi ha permesso di impormi anche mediaticamente. È una questione di carattere. La visibilità attira sponsor che ti danno opportunità, così se vinci e convinci arrivi al grande pubblico, e se lo conquisti sei diventato un personaggio. Sono dinamiche in cui i manager sono fondamentali, serve qualcuno che gestisca i pugili da questo punto di vista. Ormai invece ci sono manager che si accontentano di prendersi la piazza, organizzare l’evento mettendosi quattro soldi in tasca senza neanche ricompensare a dovere gli atleti. È un comportamento miope.
Secondo te c’è del materiale umano promettente oppure siamo indietro anche dal punto di vista tecnico?
Dopo un periodo di stallo si stanno affermando dei nuovi talenti, per cui la materia prima c’è. Penso a Ivan Zucco (campione WBC International dei pesi supermedi) e a Vincenzo La Femina (campione europeo EBU dei pesi supergallo) ad esempio, ma ce ne sono tanti altri.
Tra l’altro, se si parla di media, tu sei stato un precursore: hai partecipato a diversi programmi televisivi e reality show, scelte per cui spesso sei stato aspramente criticato.
Me ne hanno dette di tutti i colori, ma tu oggi sei al telefono con me perché sono stato in grado di costruirmi un personaggio. Poi ci sono tante persone ignoranti, che hanno una visione ristretta. Non ho ascoltato nessuno, ho fatto le mie scelte, tra l’altro continuando a gonfie vele la mia carriera sul ring. In generale non ho mai rimpianto nulla nella mia vita, è facile parlare a posteriori. Si può sbagliare ed è giusto farlo, ma non è un motivo per pentirsi di averci provato.
Come hai gestito il ritiro dall'attività agonistica? Non è mai un momento facile per un atleta.
Sono stato fortunato perché gli ultimi anni da pugile li ho passati raschiando il fondo del barile delle energie rimaste, non vedevo l’ora di potermi riposare. Il mio ritiro è stato voluto e mi ci sono avviato piano piano, elaborandolo. Intanto ho iniziato a dedicarmi ad attività parallele che oggi sono diventate la mia quotidianità. È stato un processo graduale. E in palestra ero già diventato il mentore, il tutor dei miei compagni più giovani, quindi senza rendermene conto ho cambiato pelle e vita. Ho lasciato i guantoni indossando la tuta, ma resto sempre sul ring.
Quando partecipi a un’Olimpiade sai che ti giochi 4 anni di preparativi in pochi minuti. Come si gestisce mentalmente questo aspetto?
Cerchi di non pensarci, altrimenti la tensione ti mangia. Sali sul quadrato con una voglia feroce di vincere, senza contemplare la possibilità di perdere. Se succede è difficile da affrontare perché sul momento senti di aver buttato via 4 anni. Poi ci passi sopra e non vedi l’ora di rifarti.
A proposito, come hai vissuto la mancata partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo?
Sono stato sfortunato a non potermi giocare la qualificazione, mi aspettavo un via libera del CIO visto il mio curriculum, che però non è arrivato. Mi sono sentito tradito dopo una vita con i guantoni e i traguardi che ho raggiunto. Ci sono rimasto male, ci è voluto del tempo per metabolizzare perché ero molto deluso, ma ci si riprende sempre.
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Ti chiedo se è più grande la gioia per una vittoria o più cocente la delusione per una sconfitta.
La gioia di una vittoria: ti dà un’adrenalina indescrivibile, una consapevolezza di te stesso davvero potente, sensazioni fortissime che non ritrovi da nessun’altra parte e a cui non rinunceresti mai. Ti motiva ad andare avanti. La sconfitta invece… Per me un campione lo fa anche il modo in cui prende le sconfitte. Fanno male ma sono fondamentali per imparare e crescere, vanno analizzate.
Qual è stato il tuo successo più grande e la tua disfatta più dolorosa?
Ti direi rispettivamente la vittoria del Mondiale del 2007 a Chicago, il mio primo, grande titolo conquistato, che mi ha lanciato nel mondo dei giganti. Come sconfitta invece quella di Pechino del 2008, quando mi hanno rubato la finale in uno dei momenti migliori della mia carriera.
Hai combattuto contro Deontay Wilder alle Olimpiadi del 2008 (vincendo), contro Oleksandr Usyk nel 2008 (vincendo) e nel 2012 (perdendo). Cosa ricordi di quelle esperienze? Si intuiva che entrambi sarebbero stati destinati a un futuro brillante oppure erano ancora grezzi?
Con Wilder è stato un match facile, l’unica difficoltà erano i 20 centimetri di altezza di vantaggio che aveva rispetto a me, ma appena gli ho preso la distanza l’incontro è diventato semplice. Vederlo combattere da professionista non mi piace, è lento, non ha tecnica... È un pugile costruito, non sa fare la boxe. Invece di Usyk ho pensato subito, anche quando l’ho battuto, che fosse un fenomeno, uno dei pugili più completi che abbia mai visto. È tecnico, fa male, ha il footwork e la giusta mentalità.
Perché non sei mai passato a professionista?
Non ci sono mai state le condizioni, non c’è mai stata una proposta – soprattutto economica – per cui valesse la pena fare questo salto lasciando la mia vita da atleta. Tutto qua. Ne avevo parlato anche con Don King [celebre manager di boxe, nda] ma non abbiamo mai trovato un accordo. Sarebbe stata una bella esperienza, ma dato che non mi hanno concesso quello che volevo, sono stato felice di restare nel dilettantismo.
Oggi sapresti nominare un tuo erede?
Sicuramente Aziz Abbes Mouhiidine [italiano di origine marocchina che vanta già due argenti Mondiali, un oro Europeo e diverse altre medaglie conquistate, nda]. Fa la mia stessa categoria di peso, l’ho visto crescere, si è allenato con me sin da quando era bambino.
Il campione di boxe Tyson Fury ha combattuto contro la star delle MMA Francis Ngannou, mentre continua a spopolare l'influencer boxing. Cosa pensi di questa deriva? Credi che sia un'opportunità o un pericolo per la boxe?
[Russo mi ferma e mi chiede chiarimenti sul fenomeno dell’influencer boxing] Ci può essere un ritorno di immagine positivo, probabilmente sono occasioni che fanno conoscere la boxe a un pubblico altrimenti inaccessibile. Dipende però dal messaggio che questi eventi fanno passare, da chi combatte e da come si comporta. Nel caso degli influencer spero che gli organizzatori sappiano quello che stanno facendo e che ne siano consapevoli anche i ragazzi coinvolti. Ci vuole equilibrio, con la boxe non si scherza.