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Umberto Preite Martinez
Come sta andando il duello tra Pogacar e Vingegaard
18 lug 2023
18 lug 2023
Una rivalità che non si vedeva da tempo.
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Umberto Preite Martinez
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IMAGO / Panoramic International
(foto) IMAGO / Panoramic International
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In un anno ci sono 365 giorni, a volte 366. Nella stagione ciclistica ce ne sono un po’ meno ma poco cambia per il discorso generale. In circa 360 di quei giorni, Tadej Pogacar è il ciclista più forte del mondo, anche quando perde. Ma in quei 5 o 6 giorni che rimangono, che solitamente cadono verso la metà di luglio, Jonas Vingegaard gli tiene testa da ormai due anni. A tal punto che in quei pochi giorni, in quella brevissima finestra temporale, il più forte fra i due sembra essere proprio lui.La sfida fra i due è ancora fresca, dopotutto sono agli inizi delle rispettive carriere nonostante l’infinita lista di traguardi già raggiunti. Pogacar ha 24 anni, Vingegaard 26. Entrambi hanno già vinto almeno un Tour de France, entrambi l’hanno vinto con l’altro al secondo posto, sconfitto. E tanti altri, verosimilmente, ne vinceranno ancora. A partire da quello che si sta correndo proprio in questi giorni, un altro capitolo di un duello che consegnerà questi due ciclisti così simili eppure così diversi alla memoria collettiva degli appassionati e di conseguenza alla storia del ciclismo.

Del duello tra Pogacar e Vingegaard abbiamo parlato anche nel nostro podcast sull'attualità del ciclismo, Fuori Tempo Massimo.

2023Il Tour de France 2023 è da subito sembrato il terreno ideale per una provvisoria resa dei conti. Una sfida attesa da un anno, da quando Jonas Vingegaard era salito sul gradino più alto del podio di Parigi con la maglia gialla addosso. Pogacar, sconfitto, probabilmente già da allora aspettava la rivincita.Già nelle prime due tappe nei Paesi Baschi lo sloveno ha cercato di attaccare il rivale lungo i brevi muri che caratterizzano quel territorio di confine. Vingegaard però ha sempre risposto prontamente, senza mai separarsi dalla ruota di Pogacar neanche per un attimo e vanificando ogni sforzo. In quel momento il suo interesse era quello di controllare l’avversario, annullare i suoi attacchi spendendo il minimo indispensabile.Alla prima occasione disponibile, però, il danese della Jumbo-Visma si è difeso attaccando, spezzando la resistenza di Pogacar. Sulle rampe del Col de Marie Blanque, a una ventina di chilometri dal traguardo della quinta tappa a Laruns, Vingegaard ha dato mandato alla sua squadra di alzare il ritmo, sgretolando il gruppo degli uomini di classifica prima di andar via in prima persona. L’azione di Vingegaard è stata brutale e su un terreno che sulla carta si adattava meglio al suo rivale che a lui, eppure il danese è invece riuscito a ribaltare la situazione mettendo in difficoltà Tadej Pogacar. In pochi chilometri aveva guadagnato circa un minuto, incrementando poi il suo vantaggio in discesa e spingendo a tutta nella pianura verso il traguardo dove il distacco da Pogacar a quel punto segnava 1’04”.A quel punto la direzione di questo Tour de France sembrava chiara a tutti: come l’anno scorso, anche quest’anno il più forte fra i due sarebbe stato Jonas Vingegaard. La pedalata di Pogacar sembrava pesante in salita, impacciata in discesa, poco decisa in pianura. Mentalmente e fisicamente, lo sloveno appariva al termine della quinta tappa ormai alle corde, come un pugile in attesa dell’ultimo colpo per lasciarsi finalmente andare al tappeto e far terminare l’agonia.A quel punto Vingegaard viaggiava con un vantaggio di 53 secondi su Pogacar: aveva ribaltato i rapporti di forza fra i due, mostrandosi come il più in forma e cancellando in un colpo solo i secondi di vantaggio che lo sloveno aveva accumulato come una formichina nei primi giorni di Tour. Nella tappa successiva, sui Pirenei veri e propri con Aspin e Tourmalet a farla da padroni prima dell’ultima ascesa verso Cauterets-Cambasque, ci si aspettava quindi il colpo di grazia, il pugno che avrebbe steso Pogacar definitivamente mandando al macero tutte le residue speranze del rivale di conquistare la maglia gialla - e le nostre, da spettatori, di vivere un Tour de France combattuto e teso fino all’ultimo.Come da copione, la Jumbo-Visma ha sgretolato il gruppo sul Tourmalet fino a lasciare i due capitani isolati rispetto agli altri pretendenti alla classifica generale. L’ultimo a cedere, l’australiano Jai Hindley in maglia gialla, rimaneva aggrappato alle ruote dei due fenomeni per qualche centinaio di metri prima di capire di non poter seguire quel ritmo. O meglio: di poterlo fare, certo, ma rischiando di saltare per aria da un momento all’altro, naufragando inesorabilmente sulle rampe dei Pirenei.Vingegaard e Pogacar hanno proseguito lungo gli ultimi chilometri del Tourmalet con un ritmo folle, dando due minuti e oltre a tutti gli avversari, che ormai forse tali non sono già più visto il contesto e il distacco siderale accumulato in queste tappe. Il danese davanti, Pogacar nascosto alla sua ruota. Il copione è simile a quello dell’ormai celebre tappa del Col du Granon al Tour de France 2022: in quel caso fu Pogacar a portare a spasso Vingegaard per tutta la salita del Galibier; un anno fa, quel giorno, Pogacar era ancora l’uomo da battere, il più forte, apparentemente inattaccabile. Un anno dopo le parti sono ribaltate: Vingegaard ha il numero 1 sulla schiena, simbolo del vincitore uscente. È lui il re da buttare giù dalla torre, ed è sempre lui, di conseguenza, a farsi carico della responsabilità di scandire il passo sulla salita regina di giornata.Pogacar, dopo la batosta del giorno prima e la sconfitta del 2022, se ne sta a ruota, ben nascosto. Sembra concentrato soltanto a far durare il più a lungo possibile le sue energie mentre il capitano della Jumbo-Visma si esibisce in quella dimostrazione di forza. In cima alla salita trovano Wout Van Aert, che si era infilato nella fuga di giornata. Il belga fa ciò che in questi Tour de France gli riesce meglio: tira come un mulo, si mette anima e corpo a disposizione della sua squadra e spinge il suo capitano fin dove può, giù nel fondovalle e poi su lungo le prime rampe dell’ultima salita. Quando termina il suo lavoro, Vingegaard dovrebbe partire e dare il colpo di grazia al suo rivale ma invece qualcosa in quel meccanismo perfetto si inceppa. Il danese si volta a controllare la situazione, lo fa un paio di volte e poi una volta di troppo. Quel piccolo gesto - la testa che ruota con gli occhi che guardano all’indietro da sopra la spalla - è il segnale che scatena Pogacar.Lo sloveno attacca quando mancano 2,8 chilometri alla conclusione. Con lo scatto secco distanzia subito Vingegaard di qualche metro, pochi secondi che diventano cinque e poi dieci e poi quindici. Al traguardo saranno 24 i secondi di vantaggio conquistati da Tadej Pogacar nei confronti di un Vingegaard che comunque non dà l’impressione di aver ceduto, non è andato in crisi. Anzi, il danese ha tenuto il suo ritmo e ha limitato egregiamente i danni, tenendo sempre a distanza di sicurezza il suo avversario, salvo perdere un po’ negli ultimi metri.Sul Puy de Dome la situazione si ripete praticamente alla stessa maniera: Pogacar attacca, Vingegaard perde qualche metro ma lo tiene lì nel mirino. I due vanno su, da soli uno con l’altro, con qualche metro a separare le rispettive biciclette. Stavolta i secondi di distacco in cima sono soltanto 8 e la prima parte del Tour si chiude quindi con Vingegaard in testa con solo 17 secondi di vantaggio su un rinato Pogacar.IncertezzeLe tre tappe chiave di quella prima settimana di Tour de France, quindi, hanno mostrato due direzioni completamente opposte, sia in termini di cambiamenti repentini nei rapporti di forza sia ragionando su ciò che potevamo aspettarci sulla carta. A priori, era opinione comune che Pogacar avesse più chance di sopravanzare Vingegaard nelle tappe con salite più brevi ed esplosive, ad altitudini non troppo elevate; di contro, che Vingegaard fosse quindi superiore allo sloveno nelle salite più lunghe, in tappe in cui far valere la propria resistenza, le doti di fondo, magari ad alta quota dove era già riuscito a staccare Pogacar sia al Tour 2021 sia nel 2022.La realtà invece ci ha consegnato uno scenario totalmente ribaltato. Vingegaard ha dato un minuto a Pogacar in una tappa caratterizzata da salite più brevi a bassa quota, staccandolo sul Col de Marie Blanque, una salita di 7,7 chilometri al 8,6% di pendenza media con un’altitudine massima di 1035 metri. Pogacar, di contro, ha avuto la meglio su Vingegaard nella tappa in cui si affrontavano Aspin e Tourmalet (quest’ultimo in particolare un mostro sacro, con i suoi 17 chilometri che portano a quota 2115 metri di altezza sul livello del mare) prima di un’altra salita finale abbastanza lunga, pedalabile, dove far valere le doti sul passo e sul fondo più che l’esplosività che caratterizza le sue azioni più pirotecniche.«Contrariamente a quello che si può pensare», ha detto Pogacar dopo la vittoria nella sesta tappa «non ero morto ieri e credo di essere andato piuttosto bene. Solo che Jonas è stato migliore di me. Oggi pensavo che la Jumbo-Visma avrebbe fatto le fiamme sul Tourmalet e mi son detto che se fosse andata come il giorno prima sarei potuto tornare a casa. Ero a tutta ma sono riuscito a restare a ruota e a giocare tatticamente in modo molto intelligente».Non solo una questione di gambe, quindi, ma anche di tattica. Tattiche pianificate e saltate per aria («Avevamo un piano ieri e l’abbiamo completamente cannato. La stessa cosa è successa oggi ai Jumbo») ma anche eccessi di confidenza e di sicurezza nei propri mezzi. Pogacar, ad esempio, avrebbe voluto attaccare prima, ai 4 chilometri dal traguardo ma «mi hanno detto nell’auricolare di attendere un altro po’ e di correre con intelligenza».Dall’altra parte, invece, il piano era quello di far saltare Pogacar già sul Tourmalet e poi lanciare Vingegaard da solo con Van Aert giù per la discesa a scortarlo e aumentare il vantaggio. Però Pogacar ha tenuto botta vanificando gli sforzi del suo principale rivale che ha confessato che «probabilmente attaccare sul Tourmalet ci è costato dell’energia che ci è mancata nel finale».Dalle dichiarazioni dei due protagonisti emerge chiaro il fatto che entrambi, al termine di quelle due tappe pirenaiche, non avessero molte certezze sulla loro condizione e soprattutto sul loro livello rispetto all’avversario. Pogacar sapeva di stare bene, ma che Vingegaard poteva stare anche meglio. Il danese invece pensava di stare meglio e che Pogacar stesse peggio di come in realtà sono andate le cose.Se da dentro quindi gli stessi protagonisti non sanno bene come interpretare questa strana danza, per chi osserva da fuori è ancor più complesso cercare di fare previsioni che vadano più in là del proprio naso. L’unica soluzione, quindi, era attendere le Alpi e stare a guardare.Le AlpiFra il Grand Colombier e le due tappe alpine, più che una sfida diretta fra i due abbiamo assistito a un duello tattico fra le rispettive squadre. Nella tappa del Grand Colombier la UAE Emirates di Pogacar ha cercato di tenere chiusa la corsa non lasciando troppo spazio alla fuga di giornata per cercare di vincere la tappa. Nonostante questo spiegamento di forze, la fuga è arrivata ai piedi della salita con oltre tre minuti di vantaggio e il forcing operato dagli uomini di Pogacar (Marc Soler in primis, ma anche successivamente con Grossschartner le cose non sono migliorate tantissimo) non ha portato i frutti sperati. Sia rispetto alla fuga, rimasta a lungo con un vantaggio superiore ai due minuti e mezzo che ha poi consentito a Kwiatkowski di involarsi verso la vittoria solitaria, sia rispetto al gruppo maglia gialla che non è esploso come ci si aspettava. Anzi, in tanti hanno tenuto le ruote del trenino della UAE schierato in pompa magna per l’occasione. Almeno fino alla sparata negli ultimi 500 metri di Pogacar che ha acciuffato il terzo posto e una manciata di secondi su Vingegaard e tutti gli altri uomini di classifica.Il giorno dopo, nella prima vera tappa alpina, la Jumbo-Visma ha risposto tenendo sempre la fuga sotto controllo e poi sgretolando il gruppo alla prima accelerazione seria degli uomini in giallonero. Nei primi chilometri dell’ultima salita di giornata, però, mentre gli uomini della Jumbo procedevano con il loro canovaccio tattico, Rafal Majka è andato davanti a dare un allungo volto più a scombinare le carte degli uomini di Vingegaard che altro. La trenata di Majka ha fatto saltare Kelderman e Van Aert. Il belga però è poi ritornato subito sotto, scalzando di nuovo Majka dalla testa del gruppo e dando un’altra botta delle sue riportando ordine nel trenino Jumbo-Visma.

Quando poi Sepp Kuss ha iniziato il suo classico lavoro, il gruppo già sbrindellato è definitivamente esploso lasciando in testa solo Kuss con Vingegaard e Pogacar con Adam Yates. È stato proprio l’inglese della UAE, in un secondo momento, a dare l’ultima sferzata per tagliare le gambe a Sepp Kuss prima dell’attacco di Pogacar.Una strategia ben pensata da parte della UAE per isolare Vingegaard e costringerlo a chiudere in prima persona sugli attacchi di Pogacar senza poter contare su Sepp Kuss o altri compagni di squadra. Come fanno le squadre di calcio quando allargano il gioco per isolare l’ala nell’uno contro uno contro il terzino avversario, così la UAE ha isolato Pogacar lasciandolo a giocarsi il testa a testa contro Jonas Vingegaard. Per un attimo è sembrato che la tattica potesse funzionare: quando parte, Pogacar guadagna subito una decina di metri, pochi secondi, così come aveva fatto sui Pirenei. Ma stavolta Vingegaard rintuzza e gli torna sotto nel giro di poche centinaia di metri. È lì che Pogacar cerca una strategia alternativa: si ferma, aspettando in surplace che Vingegaard passi in prima posizione a fare l’andatura; poi, più vicini alla vetta, prova a partire secco. L’idea è buona e ha un doppio fine: prendere l’abbuono in cima al gran premio della montagna e provare a fare un buco da sfruttare in discesa.L’idea è buona e sorprendente, tanto che anche le moto dei fotografi davanti alla coppia di testa non si accorgono di ciò che sta accadendo, restano lì in mezzo alla strada e bloccano lo scatto di Pogacar sul nascere.

Il nervosismo di Pogacar a quel punto è palpabile anche a centinaia di chilometri di distanza, si può notare persino dallo schermo del televisore. Pochi secondi dopo è Vingegaard a scattare secco e a prendersi gli abbuoni al GPM, mentre da dietro rientra sui due anche Carlos Rodriguez che si tuffa in discesa a prendersi la vittoria di tappa.Nella tappa successiva, l’ultima di questo trittico che chiudeva la seconda settimana di Tour de France, la UAE mette in scena sull’ultima salita di giornata una tattica che è possibile comprendere pienamente solo a posteriori. Lì per lì, infatti, è stato molto complicato analizzare quello che stava accadendo con la necessaria lucidità. Quando Yates inizia la sua azione in testa al gruppo (o quel che rimaneva del gruppo) e rimangono alle sue spalle solo Pogacar e Vingegaard, lo sloveno in seconda posizione rallenta l’azione creando il buco per il suo compagno. Vingegaard rimane a ruota, forse non capendo cosa stesse facendo il suo avversario, forse pensando a un bluff di Pogacar. Yates guadagna terreno, mentre dietro continua questo gioco di sguardi fra i due favoriti: Pogacar sembra palesemente fingere di non avere gambe per attaccare, ma Vingegaard sa che sta bluffando e non si muove. Probabilmente teme a quel punto che un suo attacco verrebbe facilmente chiuso dallo sloveno che poi avrebbe la possibilità di ripartire in contropiede.La tattica della UAE, però, si spiega nel momento in cui Pogacar nel finale prova ad attaccare la maglia gialla e si riporta sotto ai suoi due compagni - Adam Yates e Marc Soler, che era nella fuga del mattino. A quel punto però è costretto a tirare dritto perché qualcosa non ha funzionato. L’idea era di sganciare Adam Yates che, aiutato da Soler, avrebbe dovuto avvantaggiarsi abbastanza da ammortizzare lo scatto di Pogacar. E poi, dopo lo scatto, aiutare il capitano a incrementare il vantaggio fino al traguardo.Memori delle ultime tappe di montagna in cui dopo lo scatto Pogacar non riusciva a incrementare il vantaggio, la UAE ha pensato di fargli trovare dei compagni che potessero aiutarlo, distanziando ulteriormente Vingegaard. Una tattica molto ben pianificata, anche interessante e innovativa nella modalità di esecuzione. Peccato che sia stata vanificata dal rientro di Carlos Rodriguez che - incurante del duello che si stava consumando - ha fatto la sua corsa proseguendo con un buon ritmo per distanziare i suoi avversari per il terzo posto (Hindley, in particolare, che aveva perso terreno, ma anche lo stesso Adam Yates, pericolosamente vicino in classifica generale). In questo modo il ciclista spagnolo ha però scoperto il bluff di Pogacar e ridotto il vantaggio di Yates rendendo di fatto inutile la sua posizione avanzata.Alla fine quindi Pogacar e Vingegaard sono arrivati insieme, appaiati, in cima alla salita che chiudeva il fine settimana sulle Alpi, con il danese ancora saldamente in maglia gialla ma con soli 10 secondi di vantaggio sul capitano della UAE Emirates.Ultimo tango verso ParigiA chi chiede attacchi scellerati, Pogacar risponde con una nuova maturità e con la consapevolezza che il Tour de France si vince rimanendo saldi per 21 tappe, senza possibili errori, senza possibili cali di prestazione. «È divertente vincere una tappa dopo un attacco in solitaria di 50 chilometri, ma al Tour de France bisogna reggere per tre settimane e ogni giorno puoi pagare il prezzo degli sforzi fatti il giorno prima. Bisogna usare la testa: non puoi solo fare il pazzo per un giorno. Forse sto diventando vecchio, dopotutto è il mio ultimo anno in maglia bianca» (che è la maglia della classifica Under 25, nda). Negli anni scorsi, Pogacar si divertiva a sbriciolare gli avversari anche con attacchi dalla lunga distanza, consapevole della sua superiorità sui rivali. Dalla sconfitta al Tour 2022 invece ha forse imparato a gestire meglio gli sforzi, concentrare le energie su azioni ben definite e ben pianificate. Perché davanti a sé ha incontrato un altro ciclista che sa andare forte tanto quanto lui e a volte anche più di lui.Si dice a volte di Vingegaard che sia un ciclista attendista, poco spettacolare. Forse paga la brutta fama della sua squadra - la Jumbo-Visma - colpevole agli occhi di molti di esercitare sulle corse un controllo ai limiti del maniacale. Se n’è tornato a parlare dopo la tappa di domenica sulle Alpi, quando la maglia gialla non è andato a vedere il bluff di Pogacar rischiando un attacco che interrompesse quello strano gioco al ribasso che aveva imbastito la UAE.Una scelta dettata in parte dalla confusione del momento - la mossa di Pogacar e della UAE era effettivamente strana e difficile da decifrare - e in parte forse dalla poca sicurezza nei propri mezzi dopo alcuni giorni in cui era stato inferiore allo sloveno in salita. Non che questo gli avesse creato chissà quali disagi: nelle varie tappe di montagna aveva sì perso terreno ma sempre con distacchi molto contenuti (24 secondi sui Pirenei, 8 secondi sul Puy de Dome) rispetto alla botta di oltre un minuto che era stato in grado di dare al rivale in una sola tappa sul Col de Marie Blanque. La sensazione dopo il Puy de Dome, però, era quella di un Pogacar in crescita in grado di mettere in difficoltà un Vingegaard che invece avrebbe fatto meglio a pensare a difendersi.Così è stato, almeno da parte di Vingegaard, che ha tenuto la maglia gialla pur con un vantaggio risicato, ma senza mai provare ad attaccare in prima persona. In ogni caso aver passato indenne le Alpi, per come si era messa una settimana fa, sembra per Vingegaard un discreto successo, condito in più dalla consapevolezza che Pogacar può sì staccarlo sullo scatto secco ma non è mai stato in grado di metterlo davvero in difficoltà sul passo. Una situazione che nella terza settimana - soprattutto nella tappa del Col de la Loze di mercoledì - potrebbe giocare a vantaggio del danese.

La tappa di mercoledì con il Col de la Loze nel finale. Una salita lunghissima (quasi 30 km), sopra i 2000 metri e con pendenze costantemente intorno al 10% nella seconda metà da Méribel fino alla vetta.

L’ultima battaglia fra Pogacar e Vingegaard si preannuncia quindi più aperta che mai. Se negli anni scorsi, infatti, a questo punto del Tour de France sapevamo in che direzione stava andando la corsa, quest’anno - complici i continui ribaltamenti - entrambi hanno le stesse possibilità di portare la maglia gialla a Parigi. A volte sono sembrati, è vero, due pugili un po’ suonati che si sferrano colpi poco ragionati, spesso col timore di prenderle più che con la voglia di darle. Ma rimane il fatto che ciò a cui stiamo assistendo in queste settimane di una Grande Boucle che sembra infinita è uno spettacolo che il mondo del ciclismo non era più abituato ad ammirare.Pogacar e Vingegaard sono due fenomeni generazionali, che segneranno quest’epoca ciclistica sui grandi giri (e non solo), scolpendo i loro nomi nella memoria storica di tutti gli appassionati presenti e futuri. Uno dei due, alla fine, mollerà la presa e dovrà rassegnarsi alla vittoria dell’altro, ma il dibattito su chi fosse più forte fra i due, su chi dei due fosse il più completo, il più bello da vedere, il più grande, quello non si fermerà dopo questa corsa, e nemmeno dopo il loro ritiro. Perché la cosa veramente grande che stanno facendo questi due ciclisti, oggi, è aver riportato il tifo - quello vero, quello che ama e odia, esulta e si arrabbia, elogia e disprezza - all’interno di un mondo che sembrava aver dimenticato che cosa significasse la passione.

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