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Remo Rapino
Come sono diventato un portiere
18 lug 2023
18 lug 2023
Un estratto da "Fubbàll", il nuovo libro di Remo Rapino.
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Remo Rapino
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IMAGO / United Archives International
(foto) IMAGO / United Archives International
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Pubblichiamo un estratto da "Fubbàll", il nuovo libro di Remo Rampino edito da Minimum fax. Potete acquistarlo cliccando qui.

Tutto quello che so della vita, l’ho imparato dal calcio.

Albert Camus

Mio nonno era socialista. Mio padre era socialista. A me sembrava ancora poco e presi la decisione di essere comunista. Comunista e basta. Per qualche tempo è durata. Una mattina, dopo una brutta mala dormita, i capelli arruffati come un gatto sotto il temporale, la barba lunga che mi ombrava la faccia, davanti allo specchio, l’unico di casa tra l’altro, gli occhi gonfi e grifagni, la testa ha fatto un giro di giostra per conto suo, dallo specchio che mi guardava storto venne fuori un pensiero che lì per lì sembrava che non c’entrasse niente, ma alla fine mi sono detto che con una faccia così, da sottotetto di Parigi, pure comunista era poca cosa, allora diventai anarchico e basta, perché mi piaceva stare da solo, senza troppe complicazioni. Ma prima c’era il gioco del calcio, da ragazzo all’inizio e poi, con gli anni, da uomo, sempre e solo quello. Non è stata tutta colpa mia, però. Il fatto è che, da quando gattonavo appena, mio padre già mi portava al campo sportivo come una busta della spesa, sapete, come quelle di carta che si vedono nei film americani che uno esce da un supermarket e dalla busta viene sempre qualcosa fuori, non so, un ciuffo di verdura, una bottiglia di gin, un piumino per togliere la polvere. Gli americani son fatti così, amano far vedere le loro robe. All’inizio mi piacevano i colori delle divise, solo quelle guardavo, specie dei calciatori più veloci che erano così veloci che i colori delle maglie era come se restavano indietro a fare strisce nell’aria. Non m’interessava chi vinceva o chi perdeva, ero ancora innocente allora. Mio padre guardava le partite sempre da dietro la porta, in modo da poter incitare il portiere della sua squadra o dirne di terribili da far arrossire il più scafato dei camionisti. A me dispiaceva un poco, ché io pure avevo una mamma e una sorella, però mio padre mi diceva che così si doveva fare e mi diceva di farlo anch’io, perché una cosa era essere sportivo e un’altra tifoso, che gli sportivi, diceva, sono come i preti, danno ragione a tutti e tutti perdonano. Il tifoso no, il tifoso è un lupo che azzanna, diceva. E io, per non deluderlo, così facevo e non ho più smesso. Così è cominciata la storia. Da subito mi è piaciuto fare il portiere per vendicare tutti i portieri del mondo. Gli altri giocatori corrono, sono lontani, sentono e non sentono, ma il portiere no. Il portiere è lì, solo tra mille voci contro, sente – eccome se sente! – quando gli urlano, Oh portiere, portiere paperino, mentre tu pari tua madre fa un pompino, e non può farci niente, neanche farsi venire nuvole storte in testa né lacrime agli occhi, che poi rischierebbe di non vedere bene il pallone che arriva, di non calcolare giustamente le distanze, la sua voce gli serve per urlare indicazioni ai compagni che sbandano, mica per rispondere con gli interessi ai lupi che gli azzannano l’anima dalle curve. Il portiere è indifeso, solo nello spazio e nel tempo. Così a me sembrava che il ruolo del portiere fosse la scelta più coerente con quella dell’anarchia. Che a quelle cazzate che si vince o si perde sempre in undici o all’altra stronzata del pubblico come dodicesimo uomo in campo, io non ci ho mai creduto. Se vincevo io sentivo solo mia la vittoria, se perdevo uguale, solo mia la sconfitta, ero come uno di quei cristiani nel circo con di fronte un leone che ti viene addosso per sbranarti, non puoi star lì a dar retta al- la gente che seduta comoda in tribuna parla e sparla e dice e giudica e tutto lei sa, tu a mani nude devi salvarti le palle, mors tua vita mea, una cosa semplice, niente di più niente di meno per continuare a vivere. Quando decisi che avrei fatto il portiere – però famoso, tanto per addolcire la pillola – e lo dissi a casa, aspettando per sicurezza la fine della cena, mio padre ci rimase un po’ male, mia madre, dopo aver capito che non parlavo di portineria d’albergo o di condominio, che per lei già era meglio, disse solo, Ma che lavoro è!? Mio padre si spiegò la scelta con la mia pigrizia, in parte era pure vero, ma la mattina dopo mi fece trovare sul letto un paio di guanti nuovi numero dodici, ché avevo le mani già grandi, il dorso nero e il palmo rosso, un biglietto con sopra scritto, Con quelle mani potevi fare solo il portiere o il carpentiere. Meglio il portiere, in bocca al lupo, papà. Avevo diciotto anni allora, già mi ero messo in mostra facendo tutta la trafila delle giovanili, ma nessuno sapeva dell’altra mia decisione, che avrei giocato solo con le squadre dalle maglie rossonere. Rosso e nero come la bandiera dell’anarchia. Ero pronto. Milo, il portiere e basta. Cominciai come secondo nella squadra della mia città, una quarta serie ben messa, campionato a salire di categoria, colori rossoneri naturalmente. Mio padre m’incoraggiò alla sua, Tutto ’sto casino per fare la riserva! Ma come non ci prendeva mai mi portò a suo modo fortuna. A metà campionato, in un derby molto sentito contro una squadra vicina, il nostro portiere fece una papera colossale. Una fialetta di tiro da lontano, la palla gli passò tra le mani e le gambe, perdemmo uno a zero. Negli spogliatoi per il nervoso avvertì gli sguardi dei compagni che lo trafiggevano in un silenzio pieno di bestemmie da scurire il cielo, allora, come per partecipare a quella condanna muta, dette un pugno sul muro, mano fratturata di brutto, e io, mettendo da parte tutte le mie anarchie pensai, Dio c’è. La conferma di una probabile presenza divina nel mondo venne la settimana dopo. Ultimo minuto. Tempo da stare in casa vicino al caminetto, bruciacchiando salsicce e calando vino rosso nella tazza. Sulla terra scendeva tutta l’acqua dell’universo, nuvole basse color prugna stanziavano sul campo nonostante soffiasse un vento di scirocco da scuotere barche e marinai sul largo alto del mare. Eravamo a un punto dalla capolista, uno squadrone di ricconi, che avevano tanti milioni per quanto erano coglioni. Con una vittoria si saliva di categoria e le cose stavano andando per il verso giusto fino a un minuto dalla fine, quando l’arbitro carogna va a inventarsi un rigore che non ci stava manco con tutta la fantasia del mondo, un miraggio o mazzetta sotto banco. Il loro centravanti, e capitano, era un tizio che sapeva il fatto suo, avendo giocato a buon livello in altre stagioni. È lui che va sul dischetto, pulisce il pallone dal fango, mi guarda con un sorrisetto da primo della classe, ha compassione per i miei anni, pensa che io stia tremando dentro come un passero senza nido. Lo guardo, ha una cicatrice tra mento e labbro, di certo una pedata presa da qualche stopper assassino, di quelli che non chiedono scusa, fingono un pentimento inesistente, poi si avvicinano alla vittima a terra e gli sussurrano all’orecchio, prima di allontanarsi ridendo, E che volevi un mazzo di fiori? Bella gente da starci alla larga ma il campo è quello che è, mica puoi uscire dai suoi confini. Sarebbe come uscire dalla vita. Quello spaccamele mi smircia da lontano, in undici metri tutto può succedere. Io dovevo ancora farmi le mie cicatrici, il mio volto era ancora liscio, qualche ombra di barba qua e là. Lui guarda un angolo della porta, alla mia destra, pensa che io pensi che tirerà verso il lato opposto, io invece penso il contrario, che tirerà proprio dove ha gettato lo sguardo. Trucco e contro trucco. È stato allora che l’ho fissato negli occhi e mi sono accorto di un tremolio sul mio labbro. Quando il tempo delle finzioni finì gli sguardi si mossero a specchio, l’uno nell’altro, fissi, come nell’ultima sfida di un film di Sergio Leone. Per un pugno di dollari, per un pugno di metri: quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto. Io avevo la pistola, ma ero anche Josey Wales, il texano dagli occhi di ghiaccio. Non è mai una perdita di tempo andare al cinema, può servire, nella vita. La pelle del mio nemico era olivastra, baffi neri che facevano tanto messicano, occhi neri, cattivi, non un lampo di dubbio; io occhi chiari, immobili, sarei stato un perfetto Clint Eastwood con un sigaretto tra le labbra. Mancava solo una tromba a far da colonna sonora. Tutta la vita era ancora in piedi, ancora la vita, quella che ti tocca, quella che viene e passa, un istante, un soffio, proprio come prima di un calcio di rigore, quando già tutto sembra finito mentre la festa finale è lì, bella, a un passo appena. Certo della sua esperienza, il vecchio marpione calciò forte a mezz’altezza, alla mia destra, il pianeta di cuoio, che puntava al mio cuore con una traiettoria ubriaca. Un silenzio che sapeva d’inverno tacitava l’aria e gli spalti del Campo delle Rose, ogni cosa restava nell’aria sospesa, chiusa nel giro ultimo dell’orologio, cuori compresi. Mentre mi tuffavo mi sembrò tutto possibile sotto il cielo, anche un mondo più giusto e più buono. Quando presi tra le mani forti quella faccia di luna bell’infangata mille cappelli volarono in alto, fino alle rondini, fino alle nuvole, un vento incredulo di voci lanciò in paradiso il mio nome con felicità rabbiosa. Milo divenne il nome di un angelo per caso disceso sulla terra. Io cercavo il volto di mio padre dietro la porta, lo intravidi per un attimo in un’accozzaglia di corpi felici, piangeva, ne sono ancora oggi sicuro, ma lui l’ha sempre negato. I ragazzi del quartiere vecchio, chissà perché detto «Cinese», impazzirono sull’erba come farfalle rosse e nere, videro con occhi stupiti l’esperto delantero scompigliarmi, con un tocco rapido, i capelli, a dirmi in un fiato di voce, per non farsi sentire, Bravo portiere. Mille volte, negli anni – che palle! – fra i tavoli di bar e cantine raccontarono quella storia, ogni volta con parole nuove, non si sapeva più, alla fine, se fosse stato solo mio quel volo magico o dell’universo intero. Qualcuno cominciò a chiamarmi il Gatto. A me non dispiaceva come soprannome, il gatto l’ho sempre immaginato un animale dall’indole anarchica, e poi un felino ben si addice al ruolo di portiere. Fu cammino in discesa da allora. Di rossonero in rossonero scorrazzavo su e giù per la penisola come un cavallo senza stalla e senza corda al collo. Come da bambino raccoglievo figurine, ma sull’album attaccavo solo le squadre con i miei colori, su quelli misuravo i miei passi. Neanche li consideravo i colori delle altre divise. Fissato davvero, tanto che sul comodino tenevo sempre una copia di Il rosso e il nero di Stendhal, lo leggevo e rileggevo ogni volta che potevo, lo portavo con me nei ritiri, nella borsa, lo sapevo che non c’entrava niente, ma io mi sentivo anche Julien Sorel, credevo che in quei colori ci fosse tutto il mistero del vivere, il rosso del sangue sulle ginocchia sbucciate, il rosso della passione, che mi cresceva sempre di più nel cuore, pure il colore giusto dell’amore, e poi il nero che ti salta allo sguardo dopo un gol preso, il nero del dolore e della morte, che è la fine di tutto, anche di tutti i colori del mondo. Anni belli comunque, anni che fanno memoria, diavolerie da portarsi appresso in ogni trasloco. Stagione fantastica quella del boemo, da toccare il cielo con un dito. Stagione da farsi il mazzo per tutta la settimana, attento a ogni particolare, ma la domenica tornavo ragazzo e mi divertivo, solo questo, mi divertivo come un pazzo fuori dal manicomio. Non so gli altri, non m’importava più di tanto. Io ero Milo, il Gatto.

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