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Nicola Sbetti
Come lo sport aiutò l'Italia a uscire dalla Seconda Guerra Mondiale
22 set 2020
22 set 2020
Estratto del libro "Giochi Diplomatici" di Nicola Sbetti.
(di)
Nicola Sbetti
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Nel contesto della quarantena silenziosa subita dall’Italia in campo sportivo ci fu un solo Paese che si adoperò immediatamente per la ripresa dei rapporti bilaterali: la Svizzera. Rimasta neutrale e quindi immune dalle devastazioni belliche, durante la guerra non aveva rotto le relazioni diplomatiche e alla sua fine fu il primo Paese con cui il governo italiano stipulò un accordo commerciale dopo la Liberazione.


 

I contatti con la Svizzera consentirono all’Italia di percepire in maniera meno dura l’iniziale esclusione dalla ripresa sportiva internazionale. Il primo invito giunse già ai primi di luglio 1945. Nel quadro di una serie di manifestazioni sportive internazionali per celebrare il suo cinquantenario, la ASFA (la Association Suisse de Football et d’Athlétisme) aveva organizzato a Berna una riunione atletica internazionale alla quale oltre a svedesi, francesi e belgi erano stati invitati anche alcuni atleti italiani. La FIDAL (Federazione Italia di Atletica Leggera) assicurò immediatamente la presenza dell’astista Romeo e del discobolo Consolini, ma all’ultimo momento la loro partecipazione saltò per la mancata autorizzazione all’espatrio da parte del AMG (Allied Military Government). Così il 22 luglio 1945 l’unico italiano presente alla riunione fu il velocista Carlo Monti, che si trovava già in Svizzera in quanto internato. La mancata concessione dei passaporti agli atleti italiani da parte del AMG fece saltare anche un incontro di calcio, che era stato organizzato fra la Svizzera e una rappresentativa torinese e uno di pallacanestro Svizzera-Italia, previsto per il 16 settembre a Ginevra.


 

Carlo Monti, che si era rifugiato in Svizzera dopo l’8 settembre dove poté studiare e riprendere ad allenarsi, non fu l’unico “internato” a coprirsi di gloria in terra elvetica. Il pugile Ascenzo Botta, che grazie a un passaporto spagnolo era riuscito a rifugiarsi in Svizzera dopo aver patito il carcere e le torture repubblichine, vi disputò quattro incontri. Grande eco ebbe anche la squadra degli italiani internati, composta da calciatori professionisti di discreto livello. Disputò una trentina di partite con squadre svizzere, vincendone 19, pareggiandone 5 e perdendone 6. Il loro ottimo gioco nonché l’impeccabile comportamento tenuto sui campi contribuì a rafforzare i sentimenti di amicizia sportiva fra le due nazioni confinanti e ad aumentare il desiderio degli svizzeri di veder giocare al più presto le squadre professionistiche italiane.


 

Nei mesi successivi alla fine del conflitto furono molti gli atleti, prigionieri di guerra, che fecero ritorno in Italia dopo aver praticato sport all’estero. Tra questi possiamo citare il pugile Giacomo Giusto, il calciatore Mario Pagotto e la squadra di calcio di prigionieri militari che nell’estate del 1945 disputò imbattuta diversi tornei in Francia. Più lento fu invece il ritorno per quei soldati deportati nell’Impero britannico o dei suoi Dominions. Tuttavia proprio durante i lunghi mesi di prigionia lo sport rappresentò una componente molto impor- tante della loro vita. Venne creato anche un Comitato Assistenza Sportivi Invalidi Reduci dai Campi Prigionia in Germania, che con il sostegno del «Corriere dello Sport» aprì una sottoscrizione popolare e organizzò spettacoli sportivi di beneficenza. Con 40.000 sterline vi parteciparono pure i militari britannici e il gesto di generosità si trasformò, per il quotidiano romano, in un’occasione per ricordare amaramente il fatto che le relazioni sportive ufficiali fra i due Paesi non fossero ancora riallacciate: «Verrà il giorno in cui le relazioni sportive italo-britanniche saranno riprese in pieno ed in cui le bandiere dei due Paesi sventoleranno sugli spalti di uno stadio a significare che gli atleti sono impegnati in una leale e cavalleresca contesa». Oltre ai prigionieri di guerra la ripresa sportiva italiana all’estero fu garantita anche dagli italiani emigrati, i quali, pur venendo generalmente considerati dai giornali sportivi nazionali come degli “italiani di serie B”, di fronte alla quarantena sportiva imposta all’Italia tornavano ad essere “italiani a tutti gli effetti”, in quanto erano i soli atleti a poter in qualche modo rappresentare l’Italia in Paesi in cui gli sportivi azzurri non erano bene accetti.


 

La Svizzera fu anche la prima ad inviare in Italia i propri sportivi “civili”. Gli innumerevoli incontri che si erano tenuti in Italia dalla Liberazione si erano fin lì caratterizzati dalla presenza di atleti stranieri facenti parte esclusivamente degli eserciti alleati. Ciò venne meno, per la prima volta, in occasione delle regate veliche di Stresa nell’agosto 1945 e poi in quelle di Menaggio nelle quali, seppur a titolo individuale, imbarcazioni svizzere gareggiarono accanto a quelle italiane e dei militari alleati. Oltre a inviare i propri atleti Oltralpe, gli svizzeri ed in particolare i ticinesi avevano il desiderio di ospitare i campioni italiani. Dopo i diversi tentativi andati a vuoto i primi sportivi azzurri a varcare la frontiera furono cinque ciclisti dilettanti: Baito, Moneta, Motta, Sforacchi e Zanazzi, che il 9 settembre 1945 presero parte al Circuito di Mendrisio, lungo il quale ricevettero un’accoglienza calorosa. Dopo i ciclisti fu la volta della squadra di calcio del Torino che vinse per 3-1 un’amichevole con l’F.C. Lausanne. «La Gazzetta dello Sport» commentò: «La venuta del Torino ha suscitato un vivo interesse tra gli sportivi losannati che sono accorsi in massa alla Pontaise nonostante la giornata feriale. All’arrivo la squadra granata è stata accolta festosamente dai dirigenti del Losanna dal dott. Chiari del Consolato italiano dai dirigenti della società italiana Ambrosiana di Losanna e da molti sportivi».


 

Questi due episodi fecero da apripista all’evento che, dal punto di vista simbolico, rappresentò a tutti gli effetti la piena ripresa sportiva delle relazioni sportive italiane: la partecipazione di Bartali, Coppi, Leoni, Ortelli e Ricci, al circuito di Lugano, che si corse il 30 settembre 1945. Fin dalla vigilia della gara il significato non solo sportivo della corsa fu evidenziato con forza dalla stampa sportiva italiana. «La Gazzetta dello Sport» scrisse: «È questo un altro passo importante [...] sulla via della ripresa dei rapporti con i Paesi d’Europa; è un nuovo balzo in avanti verso la normalità internazionale». Ancor più esplicitamente il «Corriere dello Sport» sosteneva: «C’è un compito più importante che incombe sui nostri cinque atleti. Un compito morale. Essi devono soprattutto essere gli ambasciatori degli sportivi italiani; devono riallacciare quei legami di sincera amicizia che hanno caratterizzato le relazioni internazionali sportive. È una cosa che per noi in questo momento vale più di cento vittorie».


 

Dal punto di vista meramente sportivo la corsa si concluse con il successo finale di Fausto Coppi e la dimostrazione della superiorità dei ciclisti italiani su quelli svizzeri, francesi e belgi. La vittoria della delegazione italiana fu però più ampia: i corridori italiani ricevettero dal pubblico entusiastiche ovazioni, diversi organizzatori o direttori di velodromi abbordarono gli azzurri per ottenere la loro partecipazione alle prossime manifestazioni, mentre alcuni ciclisti svizzeri espressero il desiderio di correre le grandi classiche italiane. A metà settembre la Federazione Italiana di Ciclismo (FCI), a seguito di un referendum fra le federazioni sportive nazionali dell’UCI (l’Unione Ciclistica Internazionale), ricevette al pari della consorella tedesca l’annuncio di una sospensione per aver asportato gli archivi dell’UCI da Parigi all’epoca dell’invasione tedesca della Francia. Nonostante il reggente della FCI, On. Baldassarre, avesse già in precedenza assicurato che gli archivi fossero ben conservati e a completa disposizione, il 23 settembre il Comitato direttivo dell’UCI ratificò la sospensione dell’Italia. Il provvedimento tuttavia non venne immediatamente notificato alle altre FSN; venivano inoltre stabilite tre condizioni per la futura riammissione dell’Italia ovvero: «rinviare a Parigi l’archivio dell’UCI affidato a suo tempo ad essa [...], dodici medaglie del Campionato dell’UCI e la somma di 90.000 franchi francesi, risultato del fondo del Campionato mondiale sospeso nel 1939». La FCI ebbe dunque il tempo materiale per cercare di evitare questa sospensione, ma emersero conflitti sulle modalità di azione. La posizione più oltranzista di Baldassarre portò a un comunicato nel quale si affermava che, «a titolo di rappresaglia per la decisione dell’UCI, nessun tesserato della FCI avrebbe potuto partecipare a gare all’estero». A seguito delle proteste dei corridori, questa linea venne mitigata da quella diplomaticamente più accorta del reggente del nord, Rodoni, il quale autorizzò in via eccezionale la trasferta a Lugano. Li accompagnava Luigi Bertolino, figura assai conosciuta all’estero essendo stato anche Vicepresidente dell’UCI, il cui compito di natura esclusi- vamente diplomatica era quello di chiarire la posizione dell’Italia a Max Burgi, il delegato svizzero presso l’UCI. Fedele della propria neutralità la Svizzera si era astenuta dal voto in occasione del predetto referendum, ma di fronte al grande successo riscosso dagli atleti italiani molti dirigenti ed organizzatori elvetici videro nel reintegro dell’Italia una grande opportunità economica. Tutti i progetti di collaborazione ciclistica sviluppati dopo il circuito di Lugano, che avevano già portato alla partecipazione degli svizzeri Zimmermann, Wagner e dell’italiano di Zurigo, Cappelli, al Giro di Lombardia o alla scritturazione di corridori italiani per diverse corse ciclistiche da novembre a Zurigo, si dovettero però interrompere a partire dal 25 ottobre. In quella data infatti giunse alla federazione svizzera una lettera del bureau dell’UCI in cui veniva ufficializzata la sospensione delle FSN di Germania e Italia «fino a quando non saranno chiarite le posizioni delle stesse al congresso», segnalando che i loro corridori non avrebbero potuto «partecipare a gare e manifestazioni all’estero se non in possesso di una speciale licenza internazionale rilasciata dall’Unione Ciclistica Internazionale». Lo stesso Zimmermann, che si trovava ancora in Italia per partecipare al Giro di Legnano, fu costretto a rientrare in patria per evitare sanzioni. Si dovette attendere la riammissione dell’Italia in seno all’UCI nel febbraio 1946 e l’arrivo della bella stagione perché le relazioni ciclistiche italo-elvetiche potessero rapidamente riprendere l’intensità dell’anteguerra. Fra le tante gare e kermesse a cui parteciparono i ciclisti italiani è impossibile non citare la partecipazione italiana nel luglio 1946 alla prima grande gara a tappe pienamente internazionale del dopoguerra: il Giro della Svizzera vinto da Gino Bartali.


 

La sospensione imposta dall’UCI alle relazioni ciclistiche italo-svizzere nell’autunno del 1945 non impedì comunque la ripresa in altri sport. Nell’ottobre del 1945 il Varese vinse il torneo di Lugano di pallacanestro, nell’atletica il lombardo Pietro Mazza partecipò ai Campionati svizzeri di marcia, ma soprattutto a novembre riprese il suo cammino anche la Nazionale “azzurra” di calcio. Fin dall’autunno del 1945 la FIGC e la ASFA avevano intrapreso delle trattative. Poiché il fitto calendario elvetico impediva un rapido incontro fra le due nazionali maggiori, ci si stava avviando verso la conclusione di una sfida fra Svizzera B e Alta Italia da disputarsi l’11 novembre 1945 a Locarno, preceduta dalle trasferte del 31 ottobre in cui il Torino e il Genoa avrebbero allenato rispettivamente le nazionali A e B della Svizzera. L’inatteso forfait della Spagna, con cui la Nazionale elvetica avrebbe dovuto giocare proprio l’11 novembre, stravolse questi piani. Per sostituire gli iberici infatti l’ASFA invitò proprio gli azzurri; un’opportunità che la FIGC non si fece scappare, nonostante i dubbi dell’allenatore Vittorio Pozzo: «Mi recai subito a Milano e feci senz’altro le obiezioni che era il caso di fare: era impossibile dopo tre anni e mezzo di riposo, ricostruire di colpo la squadra, non sapevo nemmeno in quali condizioni si trovassero i giuocatori, e per parecchi esisteva anche la difficoltà di reperirli. Eppoi non si aveva il tempo per una preparazione nemmeno sommaria. I soli uomini su cui fossi in qualche modo informato e documentato, erano quelli del Torino e della Juventus, che io vedevo qualche volta all’opera. «Ve n’è a sufficienza», fu la risposta che io ricevetti. D’altronde non si trattava di fare le cose in grande stile. L’offerta ci era arrivata fra capo e collo all’improvviso, perché la Svizzera si era vista disdire di punto in bianco un impegno che essa aveva con una rappresentante di un altro Paese. Aveva la data libera, ed aveva pensato a noi, convinta di renderci un grande servizio perché erano parecchi i delegati dei Paesi che in quel particolare momento tramavano per metterci all’indice, avendo per motivazione il nostro contegno nella prima parte della guerra. Ci si voleva “boicottare”, escludere per qualche anno dalle competizioni internazionali. Si trattava secondo gli svizzeri, di mettere gli interessati davanti al fatto compiuto, giuocando prima che una decisione contraria fosse presa. Si trattava di prendere o lasciare. Avevo torto io».


 

Pozzo si mise dunque al lavoro per allestire una squadra competitiva e cercò di adeguarsi alla nuova mentalità della FIGC, il cui obiettivo non era più il raggiungimento della vittoria ad ogni costo per dimostrare la superiorità del fascismo e della “razza italica”, bensì quello di cogliere ogni opportunità per rientrare nel consesso internazionale: «L’incontro con la Svizzera ha e deve avere ora per noi una sola importanza: morale. L’amica Svizzera ci tende una mano e questa mano assolutamente non dobbiamo rifiutare per alcuna preoccupazione tecnica. Oggi la Svizzera è uno dei Paesi calcisticamente più forti. Non vedo chi potrebbe battere i rossocrociati in questo momento [...]. Cercheremo di farci onore, questo sì, di non essere almeno indegni del nostro passato. Ma per noi importa riprendere adesso. Null’altro».


 

Fin dal suo annuncio l’incontro assunse un’importanza centrale anche perché proprio nei giorni della partita il Comitato esecutivo della FIFA avrebbe discusso della permanenza dell’Italia. L’editoriale de «La Gazzetta dello Sport» sembra ben sintetizzare i sentimenti del mondo sportivo italiano in quei giorni: «Sono passati sei mesi [...] dalla fine della guerra, tutto scabroso e ambiguo sul piano dei nostri rapporti internazionali, c’è chi ci vuole e c’è chi non ci vuole, c’è chi ci ama e chi dice semplicemente di amarci. [...] Un’inerme e festosa truppa di giovanotti valica il confine e va all’estero. [...] Fanno gli ambasciatori, e non già per equivoca virtù della dilatazione parodistica di un termine proprio della diplomazia. Ambasciatori di gioventù e buon costume, sono, in definitiva ambasciatori senza feluca e dossier di un Paese onesto che, nonostante gli errori e le sventure, sa d’essere degno di universale rispetto, e di onore. [...] Diciamo grazie in piedi, a voi amici svizzeri. Voi intendete questo ringraziamento da sportivi e la vigorosa vostra stretta di mano ha il valore delicatissimo d’una intuizione che ci commuove e vi onora. A voi diciamo anche questo amici svizzeri. L’ultima cosa che ci preoccupa per domani a Zurigo e a Locarno è il risultato delle due partite. [...] Amici svizzeri: col vostro invito ci avete donato questo alto privilegio ch’è d’amore, di civiltà, di vita. Noi sportivi italiani non lo dimenticheremo».


 

Anche al di là delle Alpi c’era comunque molta attesa. «Di tutti gli incontri internazionali quelli che le folle sportive della Confederazione amano vedere di più sono questi contro gli azzurri: non solo nella Svizzera italiana [...] ma in tutta la Svizzera», scriveva il corrispondente de «La Gazzetta dello Sport», e i fatti gli davano ragione poiché i biglietti dello stadio a dieci giorni dall’incontro erano già esauriti, mentre ad accogliere le due squadre sul campo si presentò addirittura un membro del Consiglio federale. A Zurigo gli azzurri pareggiarono per 4-4, mentre a Locarno la selezione Alta Italia vinse per 4-1, ma il successo italiano in terra elvetica andò ben oltre al mero risultato sportivo; in quello stesso giorno infatti i dirigenti italiani erano riusciti a non farsi escludere dalla FIFA. Il giornalista Della Pergola ricordò così quella doppia vittoria: «Il calcio italiano [...] ha ripreso il suo cammino grazie alla mano tesagli dalla Svizzera, proprio quando nella stessa Zurigo si addensavano sulle nostre spalle le nubi di una nuova tempesta. Parlavano quelli della FIFA di non ammettere più i calciatori italiani alle gare internazionali, ma gli svizzeri già avevano deciso col loro buon senso sportivo e così il calcio italiano si è ripresentato alla ribalta a raccogliere i cordiali e affettuosi applausi che da tempo più non conosceva».


 

L’importanza del gesto d’amicizia della Svizzera anche in funzione della permanenza della FIGC in seno alla FIFA fu sottolineata ulteriormente dal «Corriere dello Sport»: «C’è però da pensare che se la nostra Federazione non avesse accettato di giocare contro la Svizzera, per un pezzo avrebbe corso il rischio di non giocare partite internazionali. Per questo anche la gara di Zurigo deve considerarsi alla stregua di una vittoria».

 

 

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