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NBA Nicolò Ciuppani 9 gennaio 2019 11'

Come James Harden ha salvato gli Houston Rockets

Houston aveva costruito una Suicide Squad per andare a battere Golden State, ma è servito un Barba spaventoso per salvare la loro stagione.

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Gli Houston Rockets sembravano non trovare pace. Dopo che l’anno scorso erano quasi riusciti nella loro folle impresa di battere i Golden State Warriors, sprecando due match point senza poter contare su Chris Paul, la banda di Mike D’Antoni non è riuscita a rimanere coesa in estate, perdendo Trevor Ariza e Luc Richard Mbah a Moute seppur rifirmando CP3 e Clint Capela a cifre stellari.

 

L’inizio di stagione dei Rockets però è stato quantomeno deludente, con una difesa e un attacco non più a livello delle loro potenzialità. In più, una Western Conference iper-competitiva li aveva messi nelle condizioni di chiudere una stagione da sole 36 vittorie, che dopo le 65 dello scorso scorso sarebbe stata la recessione più grande di sempre per una squadra dopo i Chicago Bulls post-Jordan e i Cleveland Cavs post-primo LeBron.

 

Nell’ultimo mese però le speranze hanno cominciato a crescere quando l’MVP in carica, James Harden, ha indossato il mantello da supereroe caricandosi la squadra sulle spalle ed erompendo in alcune prestazioni irreali, riportando di peso la squadra nella lotta ai playoff. Ciò nonostante la notizia dell’ennesimo infortunio al bicipite femorale per Chris Paul, aveva riportato nuovamente in discussione la stagione che si prospettava in Texas. E la stagione sulle montagne russe emotive che i Rockets è ricominciata più forte che mai.

 

Il declino

Il problema principale del rendimento deludente dei Rockets, specie nella prima parte di stagione, è stato prima di tutto dovuto a un roster non al livello di quello precedente. Le priorità del General Manager Daryl Morey in estate erano quelle di rifirmare Paul e Capela a qualunque costo, quindi le perdite di Ariza e Mbah a Moute, seppur dolorose, erano un prezzo ragionevole da pagare.

 

Houston ha sì perso due gregari, ma il loro valore in quel sistema era di gran lunga maggiore rispetto al loro talento cestistico. I rincalzi fin qui usati per ovviare a quelle mancanze non sono stati all’altezza: i minuti che erano destinati a loro due sono stati distribuiti fin qui a personale troppo inesperto come Gary Clark e Danuel House, o dei carneadi come James Ennis III e la peggior versione di sempre di Carmelo Anthony. Houston ha preso le decisioni giuste in estate – rinunciare a due giocatori di ruolo ultra-trentenni reduci dalla loro miglior stagione in carriera, uno dei quali anche con un passato clinico non immacolato – ma comunque non ha un roster al livello del precedente. Qualcuno direbbe che c’est la vie en NBA.

 

Il problema, come detto, è che i  loro rincalzi non sono stati in grado di fornire il contributo difensivo che gli ex riuscivano a portare, sia sui cambi sistematici che in marcatura singola. Houston ha pure richiamato il precedente guru difensivo Jeff Bzdelik, che si era ritirato a poche settimane dal training camp prendendoli di sorpresa, ma senza ottenere grandi risultati. Questa carenza di personale adeguato ha quindi reso troppo fragile la trama difensiva, che si è sfilacciata ormai troppe volte nel corso della stagione.

 

L’approccio dei Rockets alla fase difensiva non è mutato rispetto allo scorso anno, e questo si è rivelato un problema. Houston è la squadra che più di ogni altra cambia sui blocchi: ci sono azioni in cui i Rockets non provano nemmeno a restare con il proprio uomo, ma si chiamano lo switch vicendevolmente proponendo all’avversario sempre un nuovo marcatore. L’anno scorso la tattica era stata vincente lasciando che Harden morisse sul primo blocco e non concedendo mai veri e propri mismatch, con P.J. Tucker, Ariza e Mbah a Moute in grado di marcare anche cinque posizioni, Chris Paul in grado di contenere giocatori molto più grossi in post basso e Capela abile a contenere quanto possibile le penetrazioni dei piccoli.

 

L’approccio dei Rockets è stato comunque micro-analizzato da parte di tutti gli avversari, che ormai sanno cosa aspettarsi e hanno preparato delle contro-mosse. Da questa stagione infatti i ruoli sembrano essersi ribaltati: sono gli avversari a usare la difesa di Houston per scegliere il mismatch favorevole da aggredire, e se a colpi di isolamento Houston l’anno scorso aveva annichilito il resto della lega, quest’anno sono gli avversari a passarli a filo della stessa spada. Houston si ritrova a difendere quasi un quinto dei propri possessi in isolamento, il dato di gran lunga più alto delle passate due stagioni in una macabra legge del contrappasso.

 

I Rockets trovano spesso così i propri lunghi – Capela, Isaiah Hartenstein o la salma di Nené – a fronteggiare i portatori di palla, il tutto dopo che gli avversari hanno portato un blocco sul portatore solo per attrarre la preda designata al centro dell’azione. E visto che ad Harden viene sistematicamente impedito di andare dove l’azione si sta sviluppando (che a nessuno sembra il caso di stancarlo troppo, visto quanto deve fare in attacco), tocca ai lunghi trovarsi a difendere un quarto dell’area di gioco mentre gli altri avversari formano una tribuna con tanto di popcorn sul lato opposto.
 

 

 

Taj Gibson deve solo accennare di dover portare un blocco ad Harden che lo switch avviene, Taj esce di scena come le comparse a teatro portandosi con sé il barba,  e Capela si ritrova in punta a marcare Teague, con due corridoi sgombri al canestro che gli si aprono di fianco.

 

Alternativamente, se gli avversari hanno dei lunghi abili in post basso, il blocco sul portatore viene fatto portare da guardia e centro per mettere il loro lungo su un piccolo non all’altezza, lasciando ai Rockets la scelta se morire in post o chiudere le linee di passaggio interne lasciando Harden in isolamento dall’altra parte del campo.

 

 

La cosa vale anche lontano dalla palla. In basso nel video Jevon Carter porta un blocco cieco su Clint Capela che immediatamente effettua lo switch senza nemmeno controllare come avvenga il mismatch. Un attimo dopo la palla finisce a Marc Gasol, che può banchettare in post contro Chris Paul, che è più basso di 33 cm.

 

Gli avversari hanno ormai messo in mostra le debolezze del gioco dei Rockets, e non sorprendetevi se i lunghi avversari effettuano lo slip sul blocco, sia esso sulla palla o lontano da essa, sapendo che lo switch arriverà anche senza che avvenga del contatto fisico (una tattica già utilizzata con discreto profitto dagli Utah Jazz lo scorso anno ai playoff). Tutti questi possessi con il lungo avversario nei pressi del canestro finiscono in un fallo o un rimbalzo offensivo concesso, cose per cui Houston è nelle ultime tre posizioni della lega.

 

Non sarebbe tuttavia rispettoso per le altre squadre raccontare che si sono accorte di come i Rockets giocavano in difesa solo dopo un anno di distanza: ovviamente questo modo di giocare era noto alle altre squadre da molto più tempo, ma come detto prima il personale a disposizione di Houston nella passata stagione era notolmente diverso da quello attuale. Houston era (ed è) solita, quando avviene uno cambio non favorevole sulla palla, ad effettuare un doppio cambio difensivo lontano da essa – il cosiddetto scram switch.

 

 

Ad esempio: se gli avversari giocano un pick and roll tra 1 e 5 con cambio difensivo effettuato, il 5 prova a ritardare la penetrazione del piccolo mentre l’1 e il 3 di Houston cambiano marcatura difensiva. In questo modo si ha una situazione dove il mismatch, seppur favorevole agli avversari, non è così favorevole come prima.

 

Ma la copertura in post che offrono Ennis o House non è paragonabile a quella dei due role player perduti. Houston quindi si stava ostinando a giocare esattamente come l’anno scorso senza poterselo più permettere.

 

Harden e CP3

Le numerose partite che l’anno scorso finivano rapidamente in un blowout hanno permesso a Houston di far riposare le loro stelle per gran parte della stagione, in particolar modo CP3. Quest’anno invece ogni partita non è più scontata e ogni sera i Rockets sembrano dover strappare la vittoria con le unghie. Questo ovviamente comporta un dispendio di energie anche e soprattutto fisico: il quintetto con Harden, Paul ed Eric Gordon stava giocando molto più di quanto non facesse la scorsa stagione (dove prevalentemente vi era una divisione del minutaggio delle due stelle). Tucker e Capela, complice il solito flirt di D’Antoni con le rotazioni cortissime, stanno giocando circa 7 minuti in più di media a partita, che sarebbe una stagione di circa 12 partite più lunga rispetto alla scorsa.

 

Ma maggiore è il tempo che questi quintetti restano in campo, minore è il guadagno che arriva per ogni singolo minuto: gli avversari possono studiare meglio le chiamate dei Rockets e le tendenze dei singoli quintetti, adattandosi di conseguenza e facendosi trovare sempre più pronti.

 

Il problema maggiore, in ogni caso, è il prezzo da pagare per ogni singolo minuto extra che Paul deve stare in campo. Gli infortuni che l’anno scorso hanno colpito sia Harden che CP3 non sono stati solamente un brutto scherzo del destino, ma anche la conseguenza del logorio fisico che l’enorme mole di lavoro che i due devono sobbarcarsi per far funzionare la squadra. Ma mentre Harden è nel suo prime fisico, Paul è una guardia sottodimensionata con una cartella clinica ricca di infortuni che si trova, volontariamente, a marcare spesso giocatori più grossi e fisici di lui. Houston si trova nella situazione di dover far giocare Paul il più a lungo possibile per vincere le partite, ma anche di farlo riposare il più a lungo possibile per scongiurare infortuni, che sono già venuti a richiedere il loro annuale tributo. Prima dell’infortunio Paul stava giocando più minuti e prendendosi più tiri della passata stagione, seppur con uno usage in linea con lo scorso – sebbene l’anno scorso fosse impegnato molto più spesso in quintetti senza Harden, quindi quest’anno sarebbe dovuto essere più basso. No bueno!

 

Ma nonostante i problemi di risultati di inizio stagione e il peggioramento evidente rispetto al recente passato, i Rockets sono comunque in rapida risalita e stanno braccando velocemente le primissime posizioni della Western Conference, e il merito è quasi esclusivamente del MVP in carica: James Harden.

Così come il merito di questa vittoria in casa dei campioni in carica è sempre e solo merito del Barba, che la vince con la sua fatality preferita.

 

So perfettamente che il gioco di Harden alla lunga risulta fastidioso per chi guarda, perché una dozzina di step back a partita senza aver effettuato neanche un passaggio e una serie infinita di penetrazioni al ferro solo per andare a pesca di tiri liberi alla lunga stancano. E so bene che quello step-back contro Utah era chiaramente un’infrazione di passi che non è stata fischiata. Ma a livello di efficienza e risultati, Harden è in una galassia a parte. È il miglior marcatore della lega con oltre 33 punti a partita (massimo in carriera) e un 38.6% da 3 punti che risulta incredibile considerati i 12.4 tentativi a partita (!!!). L’unico altro giocatore nella storia con uno Usage a quota 35 e una percentuale reale del 60% è lo stesso Harden, la scorsa stagione quando ha vinto il MVP.

 

Con Gordon e Paul alle prese con uno slump al tiro, i Rockets si sono aggrappati ad Harden e il Barba ha risposto presente con una serie di prestazioni mostruose. Dopo una tripla doppia da 50 punti (la quarta della sua carriera, nessuno come lui nella storia della NBA), nelle ultime partite 15 partite viaggia a 39 punti, 6 rimbalzi e 9 assist di media con il 40% da 3 punti e il 90% ai liberi, tentandone rispettivamente 14 e 13 a sera. Se il record di Houston migliorasse ancora e Harden mantenesse lo stesso livello dovrebbe seriamente essere di nuovo in testa per vincere il MVP anche quest’anno.

 

Harden non sta semplicemente dominando in attacco: sta riscrivendo le regole del gioco. Ha già realizzato 100 triple in step back in stagione con il secondo in classifica – Luka Doncic – fermo a quota 28. E non è nemmeno troppo importante che la sua percentuale da tre nelle situazioni non sia stellare: il solo fatto che è in grado di generare un volume in attacco così consistente senza dover costruire nulla permette al suo gioco e di conseguenza a quello dei Rockets di aprirsi e affondare. Harden e Capela giocano una sorta di pick and roll telepatico, senza che vi sia necessità di portare un blocco. I marcatori di Harden sono sempre sulle punte per paura che con un balzo il Barba riappaia dietro la linea da 3 dopo un qualunque numero di palleggi, ma questa loro necessaria propositività difensiva apre le porte alle sue penetrazioni a canestro: aspettarlo sotto al ferro significa quasi sicuramente fare fallo, andargli incontro apre la pista ai lob per Capela. E la ripetitività estenuante del suo gioco rischia di nasconderci la sua caratteristica esteticamente migliore: la capacità di servire i compagni con una precisione e un tempismo forse senza pari. Non c’è mai la sensazione che Harden passi la palla per cercare aiuto nei compagni, ogni volta che parte dalle sue mani è per generare punti. Harden non è solo il miglior marcatore della lega, è il miglior “attaccante” a tutto tondo, a un livello e un volume tale che neppure gli altri mammasantissima del gioco sono stati in grado di toccare.

 

Ma anche per lui, seppur in misura minore, vale la stessa cosa che per CP3: i Rockets hanno estremamente bisogno di lui, ma anche di farlo riposare il più possibile. Se Harden dovesse subire un infortunio, la stagione di Houston diventerebbe rapidamente un disastro. La versione attuale dei Rockets è molto più Harden-centrica rispetto al passato, e se l’inizio di stagione di CP3 non fosse stato un semplice brutto periodo di passaggio nemmeno la sua presenza riuscirebbe a garantire una lunga sopravvivenza tra le prime otto della Conference se i Rockets dovessero temporaneamente perdere il loro leader.

 

Daryl Morey – A Christmas Carol

I fantasmi della free agency passata e della trade deadline futura sembrano essersi tutti presentati a Morey negli ultimi giorni di festa. Non è un mistero che questo roster fosse molto lontano dall’essere competitivo, e le mosse fin qui fatte o quelle che speravano di fare hanno quel retrogusto della disperazione che compare dopo qualche boccone.

 

Houston ha estremo bisogno di giocatori in grado di segnare sulla testa dei piccoli avversari: la verità è che tutto il personale in grado di crearsi un tiro è sottodimensionato. Carmelo Anthony sembrava dover sopperire a questa mancanza, ma i risultati sono stati ridicoli. Dopo aver tentato innumerevoli scommesse in estate con Anthony e Michael Carter-Williams (perdendole entrambe) e aver provato a scambiare quattro prime scelte per Jimmy Butler (senza riuscirci), Morey ha messo sotto contratto Austin Rivers, perché di sicuro non saranno due fallimenti a fermare la ricerca di un corpo in grado di fare la rotazione. Finora la scelta di Austin Rivers si sta rivelando la scommessa migliore: il figlio di Doc sta garantendo cifre di tutto rispetto marcando costantemente la miglior guardia avversaria, passando da Curry a Westbrook a Lillard nel giro di pochissimi giorni. Con la mancanza di Paul la sua presenza è diventata fondamentale per ridare solidità alla trama difensiva dei Rockets, anche se ovviamente occorre attendere un campione di partite più ampio per tirare delle somme.

 

I Rockets 2018-19 sono nel bel mezzo di una corsa contro il tempo. Paul sta già pagando a caro prezzo il peso dell’età ed è solo al primo anno di un contratto che gli garantirà 44 milioni quando avrà 36 anni. Le soluzioni per uscire da questa situazione non sono ottimali e Morey dovrà continuare a commettere errori su giocatori marginali fino a trovare una scommessa vincente, perché se anche in qualche modo i Rockets dovessero mettere le mani su un’altra stella cedendo gran parte dei loro giocatori, il loro monte salari schizzerebbe a quota 120 milioni per soli quattro giocatori (questa presunta acquisizione insieme a Harden, Paul e Capela) rendendo praticamente impossibile costruire un roster profondo. Contemporaneamente, il nuovo proprietario ha fatto sapere che non gradirebbe restare in repeater tax per molto tempo se la squadra non fosse competitiva. La sedia di Morey, per quanto sembra impossibile a pensare oggi, potrebbe scaldarsi prima di quanto chiunque si aspetti se i risultati dovessero improvvisamente tornare su quelli di inizio stagione.

 

L’anno scorso i Rockets avevano costruito la Suicide Squad per annientare i Warriors con Kevin Durant, e sono andati più vicini di chiunque altro dal riuscirci. Ma ora che il primo assalto è fallito, ciò che resta di una missione suicida fallita è, tristemente, molto poco. E non è chiaro dove il solo Harden, seppur nella miglior forma della sua carriera, possa riuscire a trascinare la propria squadra.

 

 

Tags : chris pauldaryl moreyhouston rocketsjames harden

Nicolò Ciuppani: parla di basket su Ball Don't Lie, ne scrive sul Buzzer Beater Blog e programma analytics per Chartside.

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