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Gian Marco Porcellini
Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il beach volley
22 ott 2021
22 ott 2021
Cosa vuol dire buttarsi in un nuovo sport dopo i 30 anni.
(di)
Gian Marco Porcellini
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Il colpo di fulmine, me lo ricordo come fosse ieri, è scattato alla fine del 2008. Era un uggioso sabato pomeriggio invernale e per far compagnia a una cugina mi ritrovai a vedere una partita di B2 nel riminese. Fu un’epifania: la pallavolo poteva essere uno sport divertente e spettacolare, lontanissimo dalla versione che propinano nelle scuole, un riempitivo tra un’ora di latino e una di una qualche altra materia che non riusciva a incuriosirmi in alcun modo.

 

Da quel giorno la passione è cresciuta fino a trasformarsi in malattia durante i Mondiali del 2010. Più passavano i giorni, più partite vedevo: dalle competizioni tra Nazionali, all’A1 maschile e femminile fino ai campionati locali. Ma non bastava: macinavo video su YouTube per imparare a conoscere i più grandi campioni (il brasiliano Giba il primo amore) e altri più informativi sui fondamentali e principi di questo sport, per provare ad avere una comprensione più globale del gioco. Eppure, nonostante tutta questa passione, mi dicevo che – a 20 anni suonati - era tardi per

a pallavolo. Come in una forma di rituale preferivo andare al tempio - il PalaPanini di Modena, luogo per eccellenza dove vedere il meglio di questo sport – che non praticarlo in prima persona.

 

Un anno fa, però, ho cambiato idea. Negli ultimi quattro anni avevo praticato solo la palestra, rinunciando anche al calcetto con gli amici. Ogni volta che ci giocavo, finivo per pensare che sarebbe stata l’ultima, visto che più passava il tempo meno confidenza avevo col pallone, finendo spesso per limitarmi quando giocavo. Inoltre qualche mese prima della pandemia avevo subito un trauma che aveva all’improvviso portato a galla una serie di problemi che non mi ero mai deciso ad affrontare. Questo mi aveva fatto sprofondare in uno stato depressivo: vivevo come in una coltre di nebbia che mi inquinava la mente e che mi stava lentamente prosciugando. A volte mi sembrava che questa nebbia fosse

sopra la mia testa e mi impedisse di alzarla.

 

Su indicazioni di alcuni amici e di una psicologa mi sono quindi deciso a iscrivermi a un corso di beach volley, con l’idea di spostare il focus su nuove attività e cercare un nuovo contesto in cui calarmi. Era una specie di salto nel buio, visto che la mia esperienza fino a quel momento si limitava a una decina di partite (tutt’altro che memorabili) giocate con gli amici al mare, dove il più delle volte non serviva neanche schiacciare per fare punto. Avendo poi una conoscenza limitata di questo sport, pensavo fosse una versione più abbordabile della pallavolo, una specie di versione ridotta che non richiedeva lo stesso impegno o la necessità di tesserarsi per una squadra, per poi dover disputare un campionato lungo un anno magari in orari o giorni scomodi. Inoltre non avevo una grande voglia di entrare in uno “spogliatoio”, un ambiente cameratesco che non ho mai amato particolarmente.

 

Il corso di beach volley che avevo scelto era puramente didattico, nel senso che ci si allena e si gioca con lo scopo di imparare, svincolati dalla competizione, al di là di qualche torneino estivo. E soprattutto, abitando a pochi chilometri dal mare, potevo usarlo per fare bella figura in estate con gli amici: in fondo per giocare bastano quattro persone, una palla e un campo – presente in ogni stabilimento balneare lungo la riviera romagnola - per giocare.

 

Ovviamente iniziare uno sport da zero a 30 anni ha i suoi pro e i suoi contro. Da una parte hai una maggiore consapevolezza dei tuoi mezzi e una buona relazione col tuo corpo nello spazio, dall’altro – banalmente - non hai il fisico dei 20 anni. Capisci presto di non essere più un ragazzino quando inizi a sentire i primi acciacchi, che ti costringono a dosare le forze. Io, per esempio, mi sono trovato a convivere con un problema al nervo sciatico, che avvertivo soprattutto dopo gli allenamenti e che mi ha causato dei risvegli poco simpatici e mi ha fatto saltare alcuni allenamenti.

 

Il bello di provare uno sport nuovo, però, è quello di nuovo che ti mostra. Abituato a giocare a calcio, con il beach volley mi sono accorto presto che, essendo obbligato a giocare a un tocco, la coordinazione e la stabilità sono fondamentali. A calcio hai la possibilità con un controllo di rallentare il ritmo dell’azione, ritrovare l’equilibrio o mascherare un errore tecnico, in questo sport invece non ci sono margini. Purtroppo ho avuto la conferma di quanto la mia scarsa coordinazione mi penalizzasse nell’esecuzione del gesto tecnico: se non sei ben orientato col corpo o non hai abbastanza stabilità negli appoggi, la palla schizza da tutte le parti. Banalmente, se corri all’indietro e provi un bagher, è più facile che la palla ti segua e ti rimanga nelle mani, anziché riuscire spingerla in avanti. Ti rendi conto di quanto la postura sia decisiva (e in particolare la posizione dei piedi e delle spalle) nel determinare la qualità di un fondamentale.

 

https://youtu.be/pOAxvRS-wPo?t=385

Esempio tratto dal volley: questo è il miglior libero del mondo, Jenia Grebennikov, che in questa azione si tuffa per difendere un attacco. Un comune mortale non avrebbe la forza e la tecnica per spingere la palla in avanti, proprio perché segue la traiettoria del corpo (che saltando cade all’indietro). Invece il francese riesce con un intervento anticonvezionale a tenerla alta e portarla nei 3-4 metri.


 

Praticare uno sport così simile nei fondamentali a quello che seguivo con passione da una decina d’anni mi ha fatto apprezzare ancora di più l’eccezionalità di giocatori come Grebennikov, capace di toccare un livello tecnico assurdo nonostante in campo si muova come una trottola e teoricamente dovrebbe avere un equilibrio (e quindi una precisione) più precari. Allo stesso modo ho capito meglio l’eccezionalità di uno dei giocatori più decisivi del decennio in Superlega, l’ormai ex opposto di Perugia Alexsandar Atanasijevic, negli anni sempre più completo e disposto a giocare in funzione anche del muro difesa avversario.

 

https://youtu.be/dYciZQetHao?t=574

Questa è la “palla Atanasijevic”, una diagonale stretta nei 3-4 metri che hanno solo lui e pochi altri opposti al mondo.


 

Quando ho imparato che la maggior parte dei ragazzi che usa il braccio destro preferisce giocare a sinistra perché può anticipare l’attacco - a destra invece la palla ti deve sfilare davanti prima di poterla colpire - ho preferito stare a destra, un po’ come gli opposti nell’indoor. Da una parte avrei avuto meno concorrenza, dall’altra la rincorsa da quel lato mi riusciva meglio, ma soprattutto perché i video dell’opposto serbo su YouTube mi hanno fomentato così tanto che ho iniziato a giocare a destra per provare a tirare le sue diagonali e cercare gli angoli dei suoi attacchi. Con risultati ovviamente rivedibili.

 



La cosa più frustrante, però, è stata traslare dalla teoria alla pratica dei gesti che ho visto in televisione per anni e che la mia mente aveva interiorizzato ma il mio corpo tuttora ha problemi a digerire. La rincorsa per l’attacco è stato il movimento più difficile da imparare all’inizio, perché con quei tre passi prepari la schiacciata. In altre parole, devi fare una cosa (la rincorsa) mentre con la testa pensi già alla giocata successiva, l’attacco. Immaginatela come le prime volte in cui avete dovuto scalare le marce, concentrandovi quindi sulla frizione e sul cambio, dovendo però stare attenti alla strada, magari mettere la freccia e iniziare a preparare la svolta. Allo stesso modo mentre eseguo la rincorsa non riesco sempre ad aprire la spalla e attaccare adeguatamente, o al contrario penso a schiacciare la palla trascurando la rincorsa e la cicco in rete perché non salto abbastanza. Anche se il vero problema nella rincorsa rimane capire il tempo, visto che tendo sempre ad anticiparla per paura di arrivare in ritardo all’impatto.



Il fondamentale che però, anche dopo un anno e mezzo, continua a darmi più problemi è l’alzata. Se in difesa, in ricezione e in attacco bene o male è possibile arrabattarsi, la sensibilità richiesta nel secondo tocco dei tre, quello appunto propedeutico alla schiacciata, è davvero difficile da interiorizzare. Quando si può privilegiare la potenza a scapito della precisione – come nella schiacciata – anche un novizio è in grado di tirare fuori una giocata efficace, nell’alzata invece si tratta di

il tocco, che sia in bagher o, ancora peggio, in palleggio.

 

C’è un allenatore che ci ripete sempre che è il colpo più importante, quello che determina la pericolosità di un attacco: un pessimo alzatore può ridimensionare anche il miglior attaccante, perché lo costringe a modificare la rincorsa e inseguire la palla pur di tirarla nell’altra metà campo. È il gesto meno istintivo e più costruito del gioco, quello in cui devi razionalizzare il movimento per capire innanzitutto come posizionarti per andare “sotto alla palla”, poi trovare la giusta intesa con il compagno (ai livelli più basici, l’attaccante chiama soltanto un’alzata vicina all’alzatore o una più aperta verso l’asticella). Basta avere il baricentro appena arretrato o non accompagnare le braccia simultaneamente verso l’alto durante il colpo per rovinare tutto. Ma, insomma, iniziare un nuovo sport è anche imparare ad accettare i propri limiti.

 



Si dice spesso che il tennis è lo sport che più ti spinge a “conoscere te stesso”. Facile capire il perché: sei solo in campo e devi imparare a contare sulle tue forze per battere l’avversario. Questo ti costringe a trovare un controllo sul proprio corpo e la propria mente diversa da altri sport, dove si può sempre contare sull’aiuto di un compagno. Ci sono altri sport individuali per cui, immagino, valga lo stesso discorso anche se pochissimi ti mettono proprio così

contro l’avversario. Da piccolo ho fatto nuoto, un altro sport che richiede una applicazione quasi marziale verso il proprio io, ma ho smesso presto e ricordo solo l’odore nauseabondo del cloro e la stanchezza a fine allenamento, come se l’acqua mi spolpasse della linfa vitale e riuscissi a stento a tornare al parcheggio sulle mie gambe.

 

Ricordo invece molto bene tutta la mia parabola da calciatore: l’ansia mista a tensione negli anni dell’adolescenza prima delle partite, in cui mi trascinavo anche in campo le mie insicurezze e il mio senso di inadeguatezza, specialmente quando dovevo marcare un giocatore più rapido o più grosso. Considerate le mie doti di palleggio e di lettura insufficienti, avevo capito presto che l’unico modo per ingannare la mia ansia e vincere quel duello era inclinare il confronto proprio sul piano dell’agonismo e dell’aggressività. Fingermi cioè un difensore di temperamento per nascondere i limiti fisici e tecnici: perché se poi indovinavo i primi due o tre interventi, mi caricavo e la gara si faceva meno difficile. Per questo negli anni sono arrivato a considerarmi un lottatore, uno disposto a “non tirare mai indietro la gamba”.

 

A beach volley invece ho realizzato di essere molto meno agonista di quanto credessi. Perché in un gioco che si pratica due contro due, affronti

l’avversario: non puoi contare su altri 10 compagni che possono sopperire ai tuoi difetti o coprire un tuo errore. In qualche modo il calciatore si può “nascondere”, o comunque specializzarsi in fasi specifiche del gioco. Alla fine è solo uno dei 22. Diversamente nel beach volley giochi con un’altra persona e contro altre due. L’influenza del singolo sulla partita è molto più grande, perché banalmente si toccano molti più palloni (è difficile non toccarlo per più di due scambi consecutivi) e la capacità di incidere sulla stessa dipende in misura maggiore dalle qualità e dalla volontà del singolo. In questo, pensavo, fosse molto simile al tennis.

 

Una sera però, durante una cena con il gruppo d’allenamento, ho scoperto che una ragazza che dopo aver sempre praticato tennis era passata al beach volley, riteneva che il passaggio da uno sport individuale a uno di squadra le avesse permesso di sentire meno la pressione e la responsabilità del risultato, proprio perché c’era un’altra persona con cui dividere questo peso e confrontarsi. In pratica eravamo arrivati allo stesso punto del percorso, ma partendo da posizioni diverse e dunque traendo conclusioni ancora più divergenti.

 

https://www.youtube.com/watch?v=BmA-9foBtLc&ab_channel=BeachVolleyballWorld

Intermezzo: alcune giocate di Adrian Carambula, uno dei beacher più estrosi del circuito.


 

Sulla sabbia ho scoperto di essere poco volitivo perché molto meno preposto alla difesa rispetto al calcio – a livello tecnico parliamo di fondamentali agli antipodi, ma il concetto di fondo sarebbe il medesimo, impedire all’avversario di fare punto – meno preposto a lottare per il singolo punto. Perché arrivare a fine azione stremato dopo aver realizzato ad esempio l’attacco del 4-3 e pensare come il Wario di turno “ho vinto, ma a quale costo?”. Inoltre mi faccio condizionare negativamente se gioco con un compagno poco coinvolgente, o ancora un giocatore che mi sopporta anziché supportarmi. Anche lo stesso andamento del match mi condiziona, soprattutto a fine set con un punteggio equilibrato avverto non tanto la tensione del risultato, quanto il peso di dover completare per l’ennesima volta il cambio palla e di dover quasi “mettere in discussione” la prestazione.

 

In questo senso pesa il mio approccio “distruttivo” al calcio – contrastare-temporeggiare-rinviare la palla-stop – che mi ha obbligato a ridefinire il mio

e abbracciare finalmente una dimensione più propositiva e creativa dello sport, in cui sei tu stesso a costruire l’azione e portare a casa i punti, senza delegare agli altri. Anche se, va detto, a livelli più bassi spesso si vince limitando gli errori, più che con gli attacchi vincenti o gli ace.

 

I primi tempi mi raccontavo di privilegiare la prestazione e l’esecuzione del gesto a scapito del risultato – anche per inibire quella componente agonistica che in passato mi ha fatto scadere in un nervosismo tossico - in realtà scrivendo queste righe comprendo che, non essendomi mai addentrato prima dei 30 anni in uno sport ad alto punteggio, caratterizzato da continue variazioni di risultato, sono stato plagiato da uno sport a basso punteggio come il calcio, in cui puoi gestire per lunghe fasi pure un vantaggio minimo.

 

Forse perché mi riporta a un’idea più ludica che competitiva dello sport, forse per la sabbia che per quattro mesi diventa sinonimo di estate e mare, fatto sta che in questo anno e mezzo il beach volley è diventato quasi per caso una parte imprescindibile della mia vita. A posteriori rimpiango di non essermi buttato prima, perché avrei avuto più ore e più energie da dedicargli, in più avrei impiegato meno tempo a imparare ogni singolo gesto.

 

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