Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Gian Marco Porcellini
Come il Rimini ha vinto la Serie D
06 giu 2022
06 giu 2022
Raccontato dalle parole dell'allenatore Marco Gaburro.
(di)
Gian Marco Porcellini
(foto)
Dark mode
(ON)

Parlare di Rimini, specie a ridosso dell’estate, significa parlare di turismo balneare e industria del divertimento. Dagli anni ’80-’90, la

delle discoteche per la provincia, il fenomeno della vita notturna in realtà si è ridimensionato, o meglio si è trasferito sul mare, dove i vari chiringuito in spiaggia e pub sul lungomare pompano la musica già dal tardo pomeriggio. Chi segue il calcio a Rimini si è sempre illuso che lo sport potesse rappresentare un volano per l’economia di una città che vive in funzione della stagione estiva e che, grazie a una squadra vincente, al di là della ricaduta in termini di visibilità, avrebbe potuto portare presenze sul territorio anche nei mesi invernali.

 

La storia però ci dice che l’imprenditoria locale non ha mai guardato alla Rimini Calcio come a un asset strategico, forse perché lo spazio mediatico della squadra viene compresso proprio dai tanti eventi che scandiscono i mesi estivi, o più presumibilmente per un seguito risibile attorno al club biancorosso: prima dello scoppio della pandemia, la società romagnola viaggiava su una media di 2.500 spettatori scarsi per le gare casalinghe. Non un brutto dato per una formazione di Lega Pro sull’orlo della retrocessione, ma se rapportato a quasi 350.000 abitanti della provincia, diventa un’espressione molto meno significativa. Oltretutto Rimini è il quarto capoluogo più grande in Italia a non aver mai militato in Serie A, dietro a Taranto, Siracusa e Ravenna.

 

Lo stesso inno del club, “Rimini Vai”, inciso nel 1973 (forse il tratto più distintivo di questa squadra, assieme alla maglia a scacchi biancorossa), fa riferimento alla B (“la Serie B ci aspetta, tentiamo l’avventura”) come al grande obiettivo da raggiungere. In quel momento storico in effetti i romagnoli lottavano per la promozione nella seconda serie, ma guardando i 110 anni di vita del Rimini e vivendo l’ambiente, ci si rende conto come la A rappresenti una dimensione semplicemente inimmaginabile. Solo nel 2007 gli adriatici sono riusciti a competere per la massima serie: era l’anno di Juventus, Napoli e Genoa in una Serie B che assomigliava quasi a un’A2 per davvero. La stagione del celeberrimo gol della leggenda biancorossa Adrian Ricchiuti ai bianconeri alla prima giornata – la cui telecronaca di Fabio Caressa si è trasformata nella suoneria di tanti tifosi – in cui la squadra di Leo Acori ha chiuso il 2006 davanti a tutti, salvo poi scivolare al quinto posto finale, con una rosa densa di campioni che si sarebbero imposti anche al piano superiore: oltre a Ricchiuti, i vari Handanovic, Vitiello, Cascione, Moscardelli, Matri e Jeda.

 

https://www.youtube.com/watch?v=gYmQGg6EbHQ&ab_channel=icaroplay

Contro la Juventus il gol più famoso, ma quello più bello Ricchiuti l’ha segnato nella Serie D 2014/15 a un’altra Juve, i toscani della Fortis Juventus, grazie a un arcobaleno di sinistro (il suo piede debole) dai 40 metri. 


 

Per i biancorossi si trattava del terzo giro sulla giostra della B, dopo 5 campionati tra gli anni ’70 e ’80, intervallati da una retrocessione nel 1979, seguiti da una nuova promozione nel 2005. L’esperienza in cadetteria è terminata con un’incredibile retrocessione ai play-out nel 2009, dopo che la squadra aveva terminato il girone d’andata in zona play-off. Gli ultimi 13 anni hanno preso la forma di un’altalena, quella tra la C e la D, inaugurata dalla mancata iscrizione alla 1a Divisione nel 2010 nonostante la proprietà uscente, la Cocif, protagonista della scalata dalla C2 alla B, non avesse contratto debiti. Da quel momento la città ha assistito ad altri tre cambi di proprietà, un fallimento nel 2016 con l’allora direttore artistico del Cocoricò Fabrizio De Meis – quella è stata la sinergia più concreta tra calcio e vita notturna – e conseguente ripartenza dall’Eccellenza. Il Rimini in due anni è tornato nei professionisti, ma dopo la sospensione dei campionati a marzo 2020 è stato retrocesso d’ufficio in quanto si trovava all’ultimo posto. Una decisione cervellotica, determinata dalla classifica avulsa: i romagnoli avevano gli stessi punti, gol fatti e gol subiti del Fano (contro cui all’andata avevano pareggiato 0-0), ma una vittoria in meno dei marchigiani, a cui invece è stata concessa la possibilità di giocarsi i play-out.

 



In quell’estate la società è stata rilevata da Alfredo Rota, che dopo la quinta posizione nel 2021, quest’anno ha vinto una Serie D comandata per 36 giornate su 38, piegando due antagoniste come Ravenna e Lentigione, capaci di superare gli 80 punti. Nella mediocrità degli ultimi anni, caratterizzata da 6 campionati tra i professionisti e altrettanti nei dilettanti, il Rimini almeno ha sempre avuto il merito di risalire subito di categoria: questa è la quarta promozione in Lega Pro in 5 anni di D.

 

Per chi non ha dimestichezza con le serie inferiori, la D rappresenta un modo a sé stante. Perché pur essendo la massima divisione dilettantistica, spesso comprende nei vari gironi società che per struttura vanno considerate come professionistiche – come lo stesso Rimini 2021/22 – ma soprattutto per il suo format unico: salgono in Lega Pro le vincitrici dei 9 gironi, un successo ai play-off garantisce al massimo un diritto al ripescaggio, dietro a un versamento a fondo perduto, nel caso in cui saltino dei club professionistici e occorra quindi completare i gironi di C. In altre parole, o arrivi primo o probabilmente sei condannato alla permanenza tra i dilettanti.

 

Altra peculiarità della D è l’utilizzo obbligatorio di 4 giovani, i cosiddetti Under, per l’intera durata della partita. In questa stagione ad esempio dovevano scendere in campo obbligatoriamente un nato nel 2000 (o più giovane), un 2001, un 2002 e un 2003. Un regolamento che determina la composizione delle rose, solitamente formate da 10-12 under e altrettanti over. Un mondo conservatore come quello del calcio, tende poi a inserire questi giovani, spesso alla prima esperienza in prima squadra, in posizione laterale o in ruoli che vengono percepiti come secondari: per questo portieri, esterni alti e bassi diventano carne da macello, che alla scadenza dello status di Under rischiano di sprofondare nelle serie inferiori. Ma per lo stesso motivo l’adagio “la Serie D si vince con i giovani” è banale quanto vero: i romagnoli in alcune gare hanno giocato addirittura con 5 under, a riprova della qualità del lavoro del direttore sportivo Andrea Maniero, che della rosa della precedente annata aveva confermato solo tre elementi, i riminesi Pari, Pecci e Arlotti, che però hanno avuto un ruolo marginale. Anche se tra i dilettanti, dove i contratti hanno validità annuale e la regola degli under impone ad ogni stagione l’inserimento di annate diverse, non è così raro stravolgere l’organico. Specie se da un anno all’altro cambiano direttore generale, direttore sportivo e allenatore.

 

La cosa più sorprendente di questa squadra, oltre alla qualità diffusa in tutte le zone del campo, è stata l’organizzazione in entrambe le fasi. Fin dalla prima giornata di campionato si è potuta ammirare una struttura ben riconoscibile, una sorta di 433 asimmetrico in fase offensiva, con l’esterno sinistro che rimane aperto, il terzino di parte pronto a dettare la sovrapposizione, l’esterno destro che viene dentro al campo e si avvicina alla mezzala sinistra, che si alza a sua volta nel mezzo spazio, mentre l’interno destro si allarga per compensare l’accentramento del compagno.

 


La struttura posizionale offensiva del Rimini: qui Panelli, il difensore centrale di sinistra, supera addirittura il cerchio del centrocampo e verticalizza per Tonelli, la mezzala sinistra. Da notare anche i 4 giocatori aperti sulle fasce.


 

«Più della metà del lavoro lo fai in estate con le scelte dei giocatori» mi racconta l’allenatore del Rimini Marco Gaburro con cui ho parlato tra la fine della regular season e l'inizio della poule scudetto, il torneo riservato alle vincitrici dei 9 gironi di D, in cui il Rimini è uscito al primo turno dopo i due pareggi con San Donato Tavernelle e Recanatese «qual è il problema quando alleni in queste piazze dove devi vincere e far bene fin da subito? La velocità di assemblamento della squadra. Negli anni ho visto che è difficile partire male e riprendersi in questo tipo di realtà».

 

Quando ha partecipato a tornei dilettantistici, l’obiettivo del Rimini nella storia recente è sempre stato quello di tornare in Lega Pro, ma in un campionato dove sale solo la prima, sbagliare le prime 7-8 giornate può compromettere l’intera stagione. Invece questa squadra già nelle primissime settimane aveva dimostrato di aver introiettato i concetti di gioco del suo tecnico, vincendo 8 delle prime 9 sfide in maniera spesso perentoria. «Io sono partito con l’idea del 433, sia perché ho avuto l’avvallo dal direttore sportivo, sia perché è il modulo che ho usato di più negli ultimi anni. Non sono un integralista, ma mi dava delle garanzie proprio per quel discorso di velocità di trasmissione del mio lavoro. Altre situazioni sarebbero diventate quasi sperimentali anche per me e ci avrei messo più tempo».

 

Il Rimini 2021/22 si è rivelato una squadra estremamente offensiva, capace di imporre il proprio contesto in quasi tutte le partite attraverso il controllo della palla e di schiacciare l’avversario nel primo terzo di campo sfruttando in particolare la densità di uomini che si formava sul lato sinistro del campo. Una qualità nelle connessioni tra giocatori incredibile per una formazione dilettantistica, che l’ha resa una delle più spettacolari e divertenti della storia recente del club, in grado di creare un volume di gioco e di occasioni davvero elevato. Secondo i dati Wyscout, ha prodotto 1,77 xG a partita e segnato “solo” 72 gol, forse perché è mancato un finalizzatore puro (il cannoniere, la punta Mencagli, si è fermata a 14 reti).

 

https://youtu.be/1UYlh5kinnw?t=1

 

Eppure il cardine di questo Rimini si è rivelata la fase difensiva. Gli uomini di Gaburro hanno ottenuto 22 clean sheet in 38 giornate, concedendo appena 8,39 tiri p90’, di cui appena il 30,5% in porta e 0,7 xG sempre per 90’. Una forza meno visibile perché i biancorossi non si difendono in maniera posizionale, ma preferiscono riaggredire a palla persa e più in generale sanno operare delle transizioni difensive eccellenti, in cui riescono a coprire la palla e schermare la linea difensiva. Anche quando abbassano l’altezza del recupero palla, gli uomini di Gaburro si difendono con un blocco ad altezza media per ridurre lo spazio tra le linee ed evitare di portarsi l’avversario in area, considerato che non avrebbero la fisicità necessaria per difendersi in campo corto e sul gioco aereo. Non è affatto scontato raggiungere un simile livello di efficienza per una formazione che in fase offensiva modifica in maniera profonda la propria struttura di partenza.

 


In fase difensiva è stato fondamentale il ruolo del mediano Tanasa. Il centrocampista romeno, per letture senza, intercetti e contrasti, si è rivelato l’equilibratore del Rimini. Qui ad esempio è bravo a scivolare in fascia e schermare la linea di passaggio verso l’attaccante dell’Aglianese.


 

«A me sembra normale difendere così, ma parlando coi giocatori mi sono reso conto che non è la normalità questo tipo di comportamento preventivo dei centrocampisti. Nel senso che io insisto molto su questa cosa: se ha la palla Tonelli, io continuo a parlare con Andreis e Tanasa perché poi devi saper occupare gli spazi se la perdi. Se poi hai 4 under sulla linea difensiva, è difficile che tu sia così più forte solo con i difensori, devi proteggere la porta in un certo modo».

 

Anche Gaburro parla della D come di una categoria a sé stante, tanto da coniare la massima «Esci dalla Serie D solo quando riesci a entrare nella mentalità della Serie D». Un pensiero apparentemente banale e applicabile a ogni divisione, ma che in una trasmissione locale pochi giorni fa ha argomentato meglio. «Ogni anno i gironi sono diversi, ma c’è una cosa che contraddistingue la D: la differenza di campi. Per vincere questo campionato devi fare bene sia su campi piccoli che su campi molto grandi, su campi sintetici come su quelli pieni di buche. Se sali di categoria questa componente non c’è. Per cui in D devi essere più elastico e questo vale sia nella costruzione della squadra sia ovviamente nella preparazione delle partite».

 

Ma al di là delle peculiarità, ne riconosce la progressiva evoluzione della proposta di gioco. «Negli ultimi 5 anni è cambiata, perché tante squadre adesso provano a pressare alto. Ma per me è un vantaggio: ho più difficoltà ad andare al tiro con una squadra che fa densità centrale nella sua metà campo che contro una che ad esempio accetta gli uno contro uno a tutto campo. Perché se io ho individualità superiori vado per forza meglio. Poi magari subisci qualche tiro in più, ma gli altri ti concedono degli spazi che paghi. Anche lo stesso Ravenna al ritorno contro di noi si è difeso basso, perché aveva capito che non gli conveniva giocarsela a viso aperto. In generale se non difendi in 11, se non rimani compatto e non pressi, non puoi vincere questi campionati. In una squadra così offensiva, con 3 punte, una mezzala come Tonelli che ha sempre giocato come trequartista o esterno alto, la chiave è diventata Tanasa».

 



Nella seconda metà della stagione la brillantezza della fase offensiva è calata leggermente. Gaburro negli ultimi mesi ha saputo sfruttare la profondità della rosa, cambiando sistema e principi di gioco, anche a gara in corsa, a riprova del fatto che questo Rimini fosse in grado di maneggiare più strumenti e registri per portare a casa le partite, ad esempio passando al doppio centravanti per avere un gioco più diretto. Nonostante si dimostri molto legato alla cura della fase difensiva, il tecnico non si è fatto problemi a schierare anche 4 o 5 attaccanti puri contemporaneamente. «Devi avere una variazione importante, anche solo per rompere le partite quando gli altri l’hanno studiata bene. Non avevo mai fatto il 3412, è nato su questa rosa. Se non avessi avuto tre centravanti, probabilmente non l’avrei mai provato. Anche perché mi è servito per coinvolgerli tutti e tre, specie dopo l’infortunio di uno di loro, Tomassini. Se Gabbianelli non avesse avuto un ruolo così determinante, magari non l’avrei neanche accentrato a gara in corsa. Poi chiaramente se hai tanta qualità in campo e in panchina puoi provare diverse soluzioni».

 


Contro il Mezzolara ha vinto con un gol nel finale anche grazie al passaggio al 3412 con 5 attaccanti, che hanno permesso alla squadra di rompere la pressione degli emiliani.


 

Tra gli addetti ai lavori si è parlato spesso delle individualità della squadra, anche se alla fine, oltre all’ex Roma Piscitella, una punta di 35 anni come Germinale impiegata soprattutto come subentrante, la mezzala Greselin, titolare nella parte centrale del campionato e il regista offensivo Gabbianelli, con alle spalle però altri 3 campionati di D, la rosa non annovera giocatori con una buona carriera tra i professionisti. «Quando devo allenare una D a vincere, sono più preoccupato se ho tanti ex professionisti che scendono di categoria. Non ho la presunzione di parlare della C, già a Lecco dopo che abbiamo vinto il campionato mi sono esposto su certe conferme e l’ho pagata. La D invece l’ho fatta diverse volte e mi esprimo perché penso di sapere cosa serva per vincere. Ho visto tante partite di Lega Pro, ma guardarle da fuori non è come viverle da dentro. A Lecco ho proprio avvertito questa differenza di passo e impatto fisico. Le categorie non sono tante e lo stacco tra una e l’altra si sente, specialmente da quando hanno tolto la C2. Man mano che ti avvicini alla punta, la piramide si snellisce e la differenza sale».

 

Il tecnico veronese ha vinto il quarto campionato della sua carriera in Serie D, il terzo negli ultimi 5 anni. Il 23 giugno compirà 49 anni e gli chiedo se considera questo il momento decisivo della carriera, in cui può provare a imporsi anche in categoria superiore, o se al contrario c’è il rischio che possa essere etichettato come uno specialista della Serie D. «In realtà avevo pensato la stessa cosa anche a Lecco. Quando hai delle idee di gioco puoi fare calcio in tutte le categorie, il problema è sempre il contesto in cui ti trovi e con quali persone lavori. Anche chi fa categorie superiori mi conferma che si portano avanti idee simili o che magari si evolvono negli anni, la differenza vera è avere la possibilità di esprimersi. Questo dipende dal contesto. Rimini in questo momento ha una situazione totalmente diversa rispetto a quelle che ho vissuto nell’ultimo periodo».

 



Marco Gaburro è un personaggio singolare, con un percorso inconsueto per un allenatore, almeno in Italia: non ha mai giocato in prima squadra, si è laureato all’Isef di Verona e ha iniziato ad allenare prima dei 20 anni, nelle giovanili del Pescantina, la sua città natale. Nel 2002, ad appena 29 anni, ha vinto il primo campionato di D con la Poggese, che ha guidato pure in C2. Successivamente è passato nelle giovanili dell’Albinoleffe, salvo poi tornare in prima squadra, sorbendosi tanta D, in mezzo a qualche apparizione in Lega Pro.

 

In un ambiente che oscilla tra il diplomatico e l’ipocrita, Gaburro è un pesce fuor d’acqua, dotato di una cultura e una forma mentis sopra la media, che ha tanta voglia di raccontare e confrontarsi con la stampa. Quest’anno ho avuto l’impressione che a volte si annoiasse a rispondere alle solite domande precotte pre e post gara, e che magari avrebbe preferito parlare di situazioni di gioco, ciò nonostante ha sempre mantenuto il suo aplomb, rendendosi disponibile con tutti.

 


Sempre tecnico e preciso nelle sue analisi.


 

«Ma il mio è un percorso alternativo, che non può essere paragonato a quello degli altri allenatori. Non avendo giocato e avendo studiato scienze motorie è inevitabile che abbia delle peculiarità diverse».

 

La sua voglia di comunicare è sfociata nella passione per la scrittura: ha un sito biografico, marcogaburro.com, che aggiorna sporadicamente,

in cui condivide interviste e immagini, ma soprattutto ha pubblicato sette libri. Non solo dei manuali legati alla metodologia dell’allenamento, ma anche due racconti e un romanzo di narrativa,

, che tratta “la storia di tre giovani calciatori provenienti da diversi continenti che intrecciano i loro percorsi in parabole contrapposte, in quella che vuole essere una riflessione sulla crisi di valori del mondo contemporaneo” per riprendere le parole con cui lui stesso l’ha riassunto sul sito.

 

«Ma adesso non ho più tempo – taglia corto, quasi a volersi smarcare dal suo passato - l’unico romanzo che ho scritto l’ho fatto quando sono venuto via dall’Albinoleffe e sono rimasto senza squadra. Ho passato 6 mesi a casa e mi sono messo sotto, ma per farlo devi avere la testa per dedicarti a quello. Un po’ di tempo per fortuna nel nostro lavoro ce l’abbiamo, ma se decidi di fare un libro ti devi applicare da quando ti alzi a quando vai a dormire. Non è che puoi concentrarti sulla squadra e poi aprire il computer e metterti a scrivere. La pubblicazione di Lecco è avvenuta di getto a due settimane dalla vittoria del campionato, gli altri libri invece risalgono al 2003 e al 2004, quando venendo da scienze motorie riuscivo a fare più cose perché avevo in piedi più cose».

 

A questo punto mi sono chiesto se un ambiente tradizionalmente machista come quello dello spogliatoio, possa aver frainteso o peggio ancora dileggiato la sua sensibilità artistica e la voglia di esprimere se stesso attraverso la scrittura. «In passato posso averla pagata. Col tempo si limano questi aspetti e si cerca di essere più sobri, ma d’altro canto bisogna pure rimanere se stessi senza snaturarsi. Perché alla fine il sistema trova comunque un motivo più o meno fondato per smontarti».

 

Sempre rimanendo in tema di ostacoli, gli ho domandato quanto sia stato penalizzante l’inserimento in un mondo chiuso e autoreferenziale come quello del calcio per chi come lui non ha un passato da calciatore alle spalle. «Ma difatti penso di essermi inserito abbastanza gradulmente e non per meriti acquisiti – commenta ridendo – magari se non avessi vinto il primo campionato non sarei arrivato a Coverciano e non avrei partecipato al corso di seconda, in più sono passati diversi anni prima che potessi tornare ad allenare squadre in grado di vincere. Ho giocato spesso per salvarmi in realtà piccole e questo mi ha lasciato qualcosa. Il discorso della compattezza e il mantenimento delle distanze in fase difensiva credo che provenga da quei campionati a lottare per non retrocedere. Dall’Albinoleffe invece mi porto dietro la parte legata alla fase di possesso. L’allenatore bravo non è solo quello che trasmette, ma quello che sa anche portare via dai giocatori che incontra».

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura