
Cas Mudde è uno dei maggiori studiosi internazionali di estrema destra e populismo, ben prima che questi fenomeni si affermassero a livello globale. Oltre ad aver scritto vari saggi influenti sul tema, tradotti in decine di lingue, Mudde collabora come editorialista per il Guardian e insegna presso l’Università della Georgia negli Stati Uniti nel dipartimento di Relazioni Internazionali.
Grande appassionato di calcio, da un paio d’anni Mudde tiene un corso universitario intitolato Soccer and Politics, in cui esplora in modo originale il legame tra calcio, neoliberismo, questioni di genere e di classe. Ultimo Uomo ha avuto una conversazione a tutto campo con lui: si è partiti dai temi della sua più recente attività accademica per arrivare fino al ricordo della sua esperienza più significativa in uno stadio italiano.
Studia l’estrema destra da decenni, da quando ancora era un fenomeno marginale. La sua ascesa può essere analizzata anche attraverso il calcio?
Il calcio moderno rispecchia i cambiamenti nella società, quindi è naturale trovarvi tracce di molti fenomeni politici ed economici contemporanei, dalla globalizzazione neoliberista all’ascesa di regimi autoritari. Poiché il discorso pubblico è diventato più di destra, in particolare più nativista, anche il discorso di molti ultras ha seguito questa direzione, malgrado negli anni ‘70, quando la scena ultras nacque in Italia, molti gruppi di tifo organizzato fossero di sinistra.
Da cosa nasce il legame attuale tra estrema destra e ultras?
L'estrema destra è molto popolare nella sottocultura dei giovani maschi che compongono le curve perché è in linea con l’immagine che questi giovani vogliono proiettare, quella di persone virili, appartenenti alla classe operaia e native del proprio paese. Anche se in realtà l’elettorato dei partiti di estrema destra e gran parte delle scene ultras sono molto più eterogenei in termini di classe e, sempre più, anche di etnia.
Il legame tra ultras ed estrema destra è più sfumato di quanto si creda?
Decisamente. È un caso simile a quello della sottocultura skinhead, anch’essa vista in toto come di estrema destra. Ma la maggioranza degli skinhead e degli ultras è e si considera apolitica, per loro conta il cameratismo, l’appartenenza a una sottocultura, la musica o il calcio. Se c’è qualcosa che motiva i gruppi di tifo organizzato più radicali è semmai una posizione anti-autoritaria e in particolare anti-polizia, sintetizzata dallo slogan ACAB. Inoltre esistono anche molte tifoserie di sinistra, i Gaviões da Fiel del Corinthians in Brasile, i Bukaneros del Rayo Vallecano in Spagna e la Timbers Army di Portland negli USA, solo per citarne alcune. Persino club che non vengono percepiti come progressisti, per esempio il Bayern Monaco in Germania, hanno gruppi ultras di sinistra, come la Schickeria.
Anche per questo motivo nel mio corso non mi concentro molto sul rapporto tra estrema destra e calcio. In parte perché c’è già un’attenzione sproporzionata e sensazionalistica su questo legame, usata dalle autorità politiche e calcistiche per giustificare misure securitarie, in parte perché è un aspetto marginale del rapporto tra calcio e politica.
La sua ricerca accademica attuale si concentra soprattutto sul legame tra il calcio e la società civile, che lei vede minacciato dal neoliberismo. Mi spiega cosa intende?
La società civile è lo spazio tra lo Stato e la famiglia, e include praticamente tutte le attività collettive. La maggior parte delle persone non è attiva in Amnesty International o Greenpeace, ma in forme di associazionismo apparentemente meno politiche ma decisamente più comuni. I club sportivi sono una tra le più diffuse, questo vale sia per i club amatoriali in cui si gioca o si fa volontariato, sia per i club professionistici che supportiamo da tifosi.
Il neoliberismo minaccia la società civile del calcio in modi simili a quelli in cui lo fa nella società in generale. Sempre più decisioni importanti vengono prese al di fuori del controllo democratico e a causa della privatizzazione molte squadre, che erano precedentemente di proprietà dei tifosi, sono ora nelle mani di un piccolo gruppo di milionari, con poca o nessuna responsabilità verso i supporter. Ciò è particolarmente evidente nella nella Premier League, dove i prezzi ormai inaccessibili per intere categorie di fan stanno portando a una gentrificazione degli stadi. Nel momento in cui certe squadre diventano brand globali l’interesse si sposta dagli abbonati locali al pubblico televisivo mondiale, di conseguenza gli stadi diventano un prodotto da rendere appetibile per il più ampio gruppo di consumatori. Attualmente gli stadi sono uno degli spazi pubblici più regolamentati, con regole su cosa si può o non si può bere, dire, cantare o indossare. E questo non riguarda solo le espressioni vietate, che sarebbero logiche, ma anche espressioni perfettamente legali al di fuori degli impianti sportivi. Nella MLS (La Serie A statunitense) alcuni club hanno vietato e rimosso striscioni antifascisti e temporaneamente bandito dallo stadio persone che li avevano comunque portati, ma hanno anche espulso un tifoso per aver indossato un cappellino Make America Great Again. Si tratta di gravi violazioni della libertà di parola e di espressione.

Il PSV si allena nei boschi nel 1977. Foto IMAGO / Horstmüller.
Critica la crescente influenza nel calcio da parte di regimi autoritari del Golfo, fondi d’investimento e modelli imprenditoriali come quello di Red Bull. Eppure è un tifoso del PSV Eindhoven, storicamente legato a Philips. Qual è la differenza tra quel vecchio modello di proprietà aziendale e le versioni attuali?
Ci sono molti fattori che portano a tifare una squadra, la maggior parte dei quali sono fuori dal nostro controllo. Tifo PSV perché mio padre tifava PSV e ho vissuto a Eindhoven nei miei primi anni. Per inciso, il PSV fu fondato dai dipendenti della Philips, con il sostegno dei proprietari dell’azienda, e non è di proprietà dell’azienda ma di due fondazioni. Ma il confronto tra club come il PSV in Olanda e il Bayer Leverkusen in Germania, e il Manchester City o il Red Bull Salisburgo è interessante, perché riflette la trasformazione da un’economia industriale a una post-industriale. Le economie industriali erano più radicate perché le fabbriche richiedevano investimenti massicci e non venivano spostate facilmente. Per questo diventavano una parte fondamentale della città, non solo dal punto di vista economico ma anche in termini di identità e comunità. Questo vale pienamente per Philips ed Eindhoven. Ovviamente, Philips fa parte del sistema capitalistico e si è trasformata in un marchio globale, ma nei primi decenni di vita era un’azienda locale e investiva nei propri dipendenti e nella comunità. E Philips ha avuto, e ha tuttora, un legame unico con il PSV.
Esistono narrazioni contrastanti attorno al calcio: il calcio come forza di cambiamento positivo, se ne parlò tanto quando il team multiculturale della Francia vinse il mondiale del 1998, ma anche quella opposta, il calcio come strumento di consenso nelle mani di leader populisti. Ne vede una dominante rispetto all’altra?
Lo studioso canadese Tamir Bar-On distingue tra tre discorsi calcistici. Il calcio come guerra, che crea o peggiora le divisioni; il calcio come pace, che unisce persone e paesi; Il terzo, che lui chiama discorso gramsciano, secondo cui il calcio può essere entrambe le cose. Ovviamente sono d’accordo con il terzo. Il calcio è politicamente neutro, proprio come la tecnologia. Può essere usato per il bene o per il male, dal potere o contro il potere. Ma dato che il potere dispone di più risorse, questo uso del calcio tende generalmente a prevalere.
Una delle letture del suo corso universitario è il saggio del giornalista Simon Kuper Football against the Enemy. Kuper sostiene che il calcio è una lente per capire il mondo, ma non uno strumento per cambiarlo. È d’accordo?
Il calcio può produrre cambiamenti importanti nella vita delle persone, ad esempio, aiutando gli immigrati a integrarsi nella nuova società. Ma la maggior parte di questi progetti è locale, non cambia davvero la natura del calcio e non ha un impatto significativo sulla società. Trovo esagerato l’ottimismo di chi crede nella forza positiva del calcio. In larga misura il calcio riflette la società più di quanto la modelli.
Va detto che il calcio è uno strumento molto utile per insegnare la politica o capire il mondo, visto che permette di raggiungere persone che normalmente non raggiungeresti con scritti più apertamente politici, e offre esempi comprensibili a tutti. Molte persone trovano concetti come la globalizzazione troppo astratti, ma sono ben consapevoli dell’afflusso di giocatori stranieri nel loro campionato nazionale. Puoi usare quell’esempio per spiegare il processo più ampio di globalizzazione e come questo influisca non solo sul calcio ma sulla società nel suo complesso.
Si definisce un nostalgico del calcio degli anni '70. Cosa le manca di più?
Quando avevo 6 anni vivevo a Eindhoven e capitava spesso di vedere un giocatore del PSV passare in bicicletta nel quartiere. Qualche anno dopo, quando vivevo vicino ad Arnhem, compravo le figurine Panini nel tabacchino di un giocatore locale del Vitesse. I calciatori non guadagnavano ancora cifre folli ed erano parte integrante della società locale. E lo erano anche le persone allo stadio, in gran parte gente del posto proveniente da diverse classi sociali.
Esiste un momento storico in cui quel tipo di calcio ha iniziato a svanire?
Il calcio è da tempo parte del capitalismo, ma man mano che il capitalismo è cambiato, diventando più estremo e globale, anche il calcio lo ha fatto. La maggior parte degli studiosi individua un cambiamento storico nel 1992 con la fondazione della Premier League: fu in parte una conseguenza della risposta thatcheriana al fenomeno del tifo violento negli anni ’80, che portò non solo a una repressione autoritaria degli hooligan, ma anche alla gentrificazione degli stadi. Oggi, soprattutto nei grandi club europei, la classe operaia è stata esclusa dagli stadi, e ci si ritrova circondati da turisti che sono appena interessati al calcio, figuriamoci alla comunità.
Certe caratteristiche che rimpiange si possono ritrovare oggi nel calcio femminile?
Ci ho riflettuto molto ultimamente. Dipende, negli Stati Uniti molti club della NWSL (la serie A femminile) giocano nello stesso stadio del club locale della MLS. Anche se sono club separati, spesso appartengono agli stessi gruppi di miliardari. Di conseguenza, l’ambiente risulta piuttosto corporate. Ma in Svezia, dove sono stato a una partita dell’IFK Malmö, ho davvero avuto la sensazione di essere tornato sugli spalti del Vitesse Arnhem nei primi anni ’80: tribune in legno accoglienti, gente del posto che veniva per il club e per la comunità, non per le stelle o il successo. Tuttavia, devo ammettere con un po’ di vergogna che ho ignorato il calcio femminile per troppo tempo e ho iniziato a seguire le partite solo negli ultimi dieci anni.
Il calcio femminile riuscirà a crescere, diventare più popolare e offrire maggiori opportunità per le giocatrici, senza perdere ciò che lo rende più autentico?
Credo che questa sia una delle sfide più grandi che il calcio femminile professionistico si trovi ad affrontare, e che venga discussa troppo poco. Inevitabilmente maggiore attenzione mediatica, soldi e sponsor finiranno per omologare anche il calcio femminile. Già si vedono donne che vanno a giocare o ad allenare in Arabia Saudita. Ma, allo stesso tempo, si vede anche una reazione contraria al crescente ruolo dell’Arabia Saudita nel calcio femminile, anche da parte di giocatrici di primo piano come l’internazionale statunitense Alex Morgan. Finché il legame tra calcio e mascolinità sarà così forte, il calcio femminile avrà un che di trasgressivo e anche per questo sarà particolarmente attraente e accogliente per giocatrici e tifose appartenenti alla comunità LGBTQ. Questo significa che resterà almeno in parte distinto e più apertamente politico rispetto al calcio maschile. Il che non è poi così difficile.
Nonostante la società in generale si sia evoluta sui diritti LGBTQ, pochissimi calciatori uomini hanno fatto coming out pubblicamente. La serie A ha visto il suo primo giocatore dichiaratamente gay, Jakub Jankto del Cagliari, solo nel 2024. Perché gli atteggiamenti omofobi nel calcio restano così radicati?
Per due ragioni principali, che stanno entrambe cambiando, ma molto lentamente. Il calcio è legato alle interpretazioni tradizionali della mascolinità, il che significa che a essere trasgressive non sono solo le donne che giocano a calcio, ma anche gli “uomini non virili”, inclusi gli uomini gay. Secondo, per molte persone, in particolare uomini, lo stadio rappresenta una sorta di ultimo spazio libero, dove si può fare ciò che si vuole perché si è tra i propri simili. Questo significa che gli omofobi possono esprimere apertamente la loro omofobia sugli spalti, senza temere l’esclusione sociale che invece rischierebbero a casa o sul lavoro. Ma significa anche che persone non particolarmente omofobe finiscano per esprimere atteggiamenti omofobi mentre mettono in scena il loro tifo, convinte che queste espressioni omofobe (ma anche antisemite e razziste) facciano parte dell’autentica esperienza da stadio.
Eppure in un numero crescente di stadi si vede anche un fenomeno opposto: quando certi atteggiamenti razzisti sugli spalti non vengono più accettati, sono i razzisti ad adeguarsi e a mettere in scena un tifo non razzista. Credo che lo stesso accadrà anche con l’omofobia, soprattutto quando le generazioni di tifosi più omofobe verranno sostituite da altre più progressiste.

La Bundesliga viene spesso lodata per il forte ruolo dei tifosi nelle decisioni del club. Qual è la sua opinione sulla regola del 50+1 in Germania? È una soluzione alla mercificazione del calcio moderno?
Confesso di essere un germanofilo, sono sempre stato un grandissimo appassionato di calcio tedesco. Non ho dubbi che il calcio sia più vivo e autentico in Germania, dove gli stadi sono pieni e l’atmosfera è fantastica. Una delle ragioni è proprio la regola del 50+1, che dà ai tifosi la maggioranza nelle decisioni del club. Questo significa che i prezzi dei biglietti sono relativamente bassi, così come le concessioni all’interno della maggior parte degli stadi, e i tifosi sentono ancora che si tratta del loro club, piuttosto che del giocattolo di un magnate o di una multinazionale, a parte le eccezioni dell’Hoffenheim o del Red Bull Lipsia. Non è un caso che i club tedeschi stiano vivendo un boom di iscrizioni, con 8 club che superano i 100.000 soci, inclusi alcuni della 2. Bundesliga (la serie B tedesca).
Detto ciò, il calcio tedesco fa ancora pienamente parte del calcio moderno, spinto da una crescente mercificazione e dal branding dei club. Molti club hanno o hanno avuto sponsor illiberali o discutibili, pensa al Ruanda del Bayern Monaco o, fino a poco tempo fa Gazprom dello Schalke 04, per non parlare di società di scommesse o aziende crypto. Lo definirei un calcio moderno dal volto umano, piuttosto che un calcio diverso.
C’è qualcosa nel calcio odierno che considera migliore rispetto al passato?
Sì, assolutamente. C’è molta più consapevolezza sugli eccessi negativi della cultura dei tifosi, come omofobia, razzismo, sessismo e violenza, perlomeno in un numero crescente di club e paesi. Anche se gli stadi europei restano dominati da uomini bianchi, molti stadi sono oggi molto più accoglienti e sicuri per minoranze e donne. Inoltre il calcio femminile sta finalmente ricevendo un po’ di sostegno. La situazione è ben lontana dall’essere ideale ma le calciatrici hanno a disposizione strutture più professionali, e un numero sempre maggiore di loro diventa professionista a tempo pieno, pur rimanendo scandalosamente sottopagate rispetto ai loro colleghi uomini. Infine, almeno ai margini del calcio moderno, esiste un movimento progressista che vede lo sport e i club come strumenti per creare una comunità migliore, per esempio il Bohemian FC di Dublino o il Wiener Sport-Club di Vienna, due club che sostengo.
Tifa qualche squadra italiana?
Ammetto di non essere un gran fan del calcio italiano. Ho scarso interesse per i grandi club come Milan o Inter. So che l'AS Livorno ha una tifoseria molto di sinistra, ma non sono molto interessato alla celebrazione di Stalin o della Repubblica del Donbass.
Quando viaggia cerca sempre di vedere delle partite locali. Mi racconta una sua esperienza in Italia?
Finora sono stato in sei stadi italiani, in quelli dei grandi team l’esperienza è stata quasi sempre deludente. Né il Milan né l'Inter avevano un’atmosfera degna di nota, anche se ho visto l'Inter giocare contro il Barcellona in uno stadio Meazza tutto esaurito. Ho apprezzato una partita del Parma nel 2005, ricordo una scena locale e comunitaria molto piacevole e condizioni al minimo indispensabile, inclusa una tribuna improvvisata. Quest'estate ho visto un match casalingo dell’Atalanta e sono rimasto positivamente sorpreso dall’ambiente all’interno dello stadio. Una bella esperienza, se non fosse per una multa per divieto di sosta ricevuta da un poliziotto locale.