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Come il mercato ha cambiato la Eastern Conference
27 nov 2020
27 nov 2020
Le prime sette squadre a Est sembrano nettamente superiori alle altre otto.
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A una prima occhiata, la Eastern Conference sembra essere cristallizzata rispetto a come l’avevamo lasciata. Almeno sette delle otto squadre che hanno fatto i playoff nella bolla di Disney World sono ampiamente favorite per confermarsi, con l’unica eccezione degli Orlando Magic attesi a giocarsela fino all’ultimo nel torneo play-in.

Ma i rapporti di forza potrebbero cambiare molto, visto che alcune squadre sembrano avere una traiettoria ascendente mentre altre sono uscite indebolite dal mercato. Ma pur non avendo lo star power della Western Conference, a est rimane tutto molto aperto — e la rapida chicane tra Draft e free agency ha riconsegnato una conference senza una gerarchia consolidata.

Sono però molte le squadre interessanti di cui parlare, perciò passiamo in rassegna come si presentano le franchigie ai blocchi di partenza di una stagione da 72 partite che comincia praticamente dopodomani, vista la off-season più corta nella storia dello sport professionistico statunitense.

Milwaukee è ancora la favorita?

La squadra che doveva approcciare il mercato con il maggior senso di “urgenza” erano certamente i Milwaukee Bucks, chiamati neanche troppo velatamente da Giannis Antetokounmpo a costruirgli una squadra migliore attorno per convincerlo a firmare il supermax da 228 milioni di dollari in cinque anni. Se ci siano riusciti davvero oppure no è una risposta che scopriremo solo ai playoff: guardandolo nel complesso, i Bucks sembrano avere un roster meno profondo ma più talentuoso rispetto allo scorso anno, con Jrue Holiday a guidare il reparto delle guardie sopperendo contemporaneamente a Eric Bledsoe e George Hill, a cui si aggiungono un paio di tiratori dal palleggio come DJ Augustin e Bryn Forbes, oltre a quello che possono produrre gli occhi spiritati di Bobby Portis sotto canestro al posto di Robin Lopez. Se Nicolas Batum dovesse liberarsi da Charlotte con un buyout, provare ad aggiungerlo in ala aggiungerebbe un po’ di profondità alle spalle di Middleton e Giannis, visto che al momento ci sono solo Torrey Craig e Thanasis Antetokounmpo nei ruoli di 3/4.

Milwaukee ha dimostrato negli ultimi due anni di avere un sistema di gioco a prova di bomba per la regular season, ma è evidente che non basta più — e per questo anche il posto di lavoro di coach Mike Budenholzer deve essere considerato a rischio. Questo roster sembra più adatto a performare nei playoff non fosse altro perché ci sono tre giocatori dei quali potersi fidare in Giannis, Middleton e Holiday a differenza dei due (uno?) dello scorso anno. Ma la mancata firma di un “quarto” come Bogdan Bogdanovic — corteggiato in prima persona da Antetokounmpo e fallito per tampering — toglie un trattatore di palla che avrebbe potuto fare la differenza, perché poche squadre possono contare su quattro difensori in grado di tenere dal palleggio tutti quei giocatori perimetrali.

La dirigenza dei Bucks ha poi combinato un casino con il contratto di Pat Connaugthon — inizialmente biennale, poi diventato triennale a cifre più alte perché non poteva essere firmati nei termini previsti, mandando al manicomio buona parte degli esperti di salary cap della Twittersfera — e, soprattutto, non ha ancora ricevuto la conferma definitiva da Antetokounmpo sull’estensione del proprio contratto che, adesso, è l’unica cosa che davvero conta. Il due volte MVP ha tempo fino al 21 dicembre, e anche se in Wisconsin continuano a professarsi ottimisti su una sua permanenza, ancora non possono stappare la bottiglia di quello buono che tengono da parte da mesi. Potrebbe volerci una stagione intera, perché ragionevolmente anche Giannis potrebbe non essere convinto che questa squadra valga un impegno lungo un lustro.

Le finaliste dello scorso anno vogliono ripetersi

Milwaukee può contare sul giocatore più forte della conference, ma è andata ben lontana dal tornare anche solo alle finali di conference, vista l’eliminazione per 4-1 subita da Miami. Le due finaliste, in compenso, hanno vissuto un’estate conservativa: sia gli Heat che i Boston Celtics si ripresentano sostanzialmente con lo stesso roster dello scorso anno, seppur con assenze che potrebbero rivelarsi più pesanti di come appaiano ora.

Il grande movimento della Eastern Conference è stato il passaggio di Gordon Hayward da Boston a Charlotte, dopo che per lungo tempo sembrava destinato a tornare a casa a Indiana. Lo scambio con i Pacers, a quanto pare, è saltato perché Boston — per acconsentire a una sign-and-trade su un giocatore di cui non controllava il destino — chiedeva più di quanto offerto dai Pacers, cioè Myles Turner, un giocatore di rotazione (probabilmente Doug McDermott) e una prima scelta al Draft. La decisione di Danny Ainge di non puntare su un giocatore “divisivo” come Turner, proprietario di un contratto da 18 milioni all’anno per le prossime tre stagioni e apparso stagnante nel suo sviluppo tecnico, può essere anche condivisibile, ma ha portato i Celtics a perdere Hayward “a zero” ricavandone giusto la Mid-Level Exception utilizzata per Tristan Thompson, il quale però non rappresenta un upgrade rispetto a Daniel Theis e nemmeno un’alternativa tattica nelle mani di Brad Stevens.

La partenza di Hayward toglie versatilità al roster dei Celtics, che ora deve sperare non solo in un passo in avanti di uno dei giocatori presi al Draft (da Romeo Langford a Aaron Nesmith fino a Payton Pritchard), ma anche in un salto di qualità di Jaylen Brown e Jayson Tatum in termini di playmaking e creazione di gioco per i compagni. In più la firma di Jeff Teague non ha risolto il fatto che Kemba Walker è un giocatore difficile da nascondere difensivamente ai livelli più alti dei playoff: in un ipotetico quintetto che vuole cambiare su tutti i blocchi, chi è il quinto insieme a Smart, Brown, Tatum e Grant Williams?

Miami ha meno dubbi sulla sua rotazione, potendo riproporre praticamente in blocco quella che li ha portati a due vittorie dal titolo NBA. Se ne è andato Jae Crowder, ritenuto non meritevole della Mid-Level Exception utilizzata (un po’ a sorpresa) per Meyers Leonard, e sostituito con Maurice Harkless a un prezzo contenuto. In più è arrivato Avery Bradley per dare un’opzione che mancava nella marcatura delle point guard avversarie, e Precius Achiuwa dal Draft per alzare il livello di attività e per modellare nel tempo un mini-clone di Bam Adebayo.

Adebayo è il fulcro tecnico ed emozionale di Miami e la dirigenza ha preferito premiarlo subito piuttosto che creare ulteriore spazio salariale.

Proprio l’estensione del lungo da Kentucky è forse la mossa più interessante e sorprendente dell’estate degli Heat. Se avessero aspettato a estendere il suo contratto, avrebbero potuto avere fino a 35 milioni di dollari di spazio salariale nella prossima estate — abbastanza per farci rientrare i 34 previsti dal primo anno del contratto di Giannis Antetokounmpo, obiettivo dichiarato ormai da tantissimo tempo. Invece Miami ha deciso di pagare subito il suo All-Star, limitandosi a 22 milioni di spazio per la prossima estate e a una serie di macchinazioni al momento imponderabili per far rientrare un max contract. Un gesto di lealtà nei confronti del numero 13 (che così si mette al riparo dal rischio di un infortunio), ma ripetere quanto fatto nella bolla non è scontato — per quanto sicuramente nelle corde di questa squadra.

La profondità della Eastern Conference

Si dice spesso che la Eastern Conference sia quella “minore”, ma in realtà è semplicemente spaccata in due tra quelle che provano a vincere e quelle di cui non si vede la fine della ricostruzione. A formare la parte centrale delle squadre da playoff a Est è il terzetto formato da Toronto, Indiana e Philadelphia, anche se le prime due sembrano in traiettoria discendente e i terzi (di nuovo) in ascendente.

I Raptors hanno raggiunto l’obiettivo più importante della loro off-season rifirmando Fred VanVleet con un quadriennale da 85 milioni, ma hanno perso sia Serge Ibaka che Marc Gasol rispetto alla squadra del titolo 2019, che piano piano sta scomparendo sullo sfondo. I Raptors rimangono una squadra solidissima, difensivamente versatile e difficile da affrontare, ma non ha sopperito a quella mancanza di talento che si è resa evidente a un certo punto dei playoff. Pascal Siakam non sarà la versione sbiadita vista nei playoff, ma gli arrivi di Aron Baynes e Alex Len non spostano più di tanto le prospettive della squadra.

Anche gli Indiana Pacers, nonostante le tante voci soprattutto su Victor Oladipo, sono rimasti uguali allo scorso anno — solidi specialmente in regular season, ma non abbastanza talentuosi per superare il primo turno. La scelta di affidare la panchina a un debuttante come Nate Bjorkgren fa intuire come la squadra sembri intenzionata a intraprendere un percorso sul lungo termine piuttosto che a competere subito, ma ci sono troppi buoni giocatori nel roster per pensare a un tracollo di una franchigia che ha mancato i playoff solo una volta negli ultimi dieci anni — ma non vince una serie ormai dal 2014.

In questo terzetto ci sono i Philadelphia 76ers, che dopo una stagione tragica come quella passata vogliono rilanciarsi sotto la guida di Doc Rivers in panchina e Daryl Morey nella dirigenza. Il mercato non ha portato alla — attesa? auspicata? sovra-analizzata? — separazione tra Ben Simmons e Joel Embiid, ma a un lavoro ai margini che ha dato più senso al roster attorno a loro due, specialmente con la cessione di Al Horford e l’arrivo di due tiratori come Seth Curry e Danny Green, che tolgono molto in termini di stazza fisica (specie per l’addio a Josh Richardson) ma aggiungono spaziature quanto mai necessarie in un attacco che ha bisogno di aria, anche per aiutare Tobias Harris — che rimane il punto di domanda di questa squadra, ma che ha un contratto troppo pesante per essere ceduto subito. Dal Draft l’aggiunta di Tyrese Maxey aggiunge pepe nel ruolo di point guard, mentre sugli esterni Matisse Thybulle è atteso a fare qualcosa in più con un oggetto sferico in mano rispetto agli splendidi e interessantissimi video del suo canale YouTube. Per il resto, conviene incrociare le dita che Dwight Howard continui sulla via imboccata lo scorso anno.

Tyrese Maxey potrebbe portare ulteriore tiro e playmaking ad una squadra che sta cercando di trovare nuove spaziature attorno a Simmons ed Embiid.

In più rispetto allo scorso anno ci sono ovviamente i Nets, che si presentano con un volto quasi interamente rinnovato. L’arrivo di Steve Nash in panchina (con uno staff tecnico di altissimo profilo) e quello sostanziale di Kyrie Irving e Kevin Durant in campo mette fine all’annata di transizione vissuta nel lunghissimo 2019-20, ma innalza anche enormemente le aspettative su una franchigia che deve ancora dimostrare di avere le spalle abbastanza larghe per poterle sostenere, specie con due superstar così volubili.

Per farsi un’idea completa bisognerebbe però sapere se davvero l’intenzione di prendere James Harden —professata forse più dal Barba che non dalla franchigia — si concretizzerà oppure no. Perché un conto è immaginarsi una rotazione costruita sui nuovi Big Three e un’altra quella che deve richiedere un contributo da gregari a Spencer Dinwiddie, Caris LeVert e Jarrett Allen, candidati principali a essere inseriti in un eventuale scambio per Harden insieme a una serie di scelte interminabile. I Nets rimangono quindi ancora nel limbo, almeno fino a quando non decideranno se perseguire la strada dello “star power” o quello della profondità: in ogni caso rimangono la mina vagante della conference, con abbastanza talento per puntare al primo seed e abbastanza dubbi per non muoversi nemmeno dal settimo.

Le candidate al torneo play-in e quelle che possono solo sognarlo

Per come si presenta ora, c’è un chiaro salto tra le prime sette della conference e quelle che con ogni probabilità si giocheranno il torneo play-in che coinvolge le squadre dalla settima alla decima posizione. In questo “tier” ci sono quattro squadre per tre posti: gli Atlanta Hawks sono certamente quelli che hanno fatto più rumore firmando contratti pesanti in free agency, dal quadriennale da 72 milioni di Bogdan Bogdanovic al triennale da 61 di Danilo Gallinari fino ai biennali di Rajon Rondo e Kris Dunn. Quattro giocatori che ingolfano una rotazione già bella piena di giocatori scelti al Draft (Cam Reddish, De’Andre Hunter, Kevin Huerter e Onyeka Okongwu) insieme ai supposti giocatori franchigia in Trae Young e John Collins, oltre a Clint Capela arrivato a febbraio e mai visto in campo. La rotazione è lunghissima e Gallinari uscirà dalla panchina: per coach Lloyd Pierce (sommessamente su una panchina in bilico) non sarà semplice gestirli tutti quanti.

Tra le squadre che quantomeno cominciano la stagione con la volontà di giocarsela ci sono gli Washington Wizards, che con un John Wall anche solo all’80% di quello che era, hanno abbastanza talento per competere con le altre squadre di questo gruppetto; gli Orlando Magic, condannati a un anno di transizione dopo il grave infortunio di Jonathan Isaac e la player option esercitata da Evan Fournier; e i Chicago Bulls, che hanno probabilmente avuto l’upgrade più grande di tutta la NBA in termini di panchina passando da Jim Boylen a Billy Donovan, ma che hanno un’identità di squadra ancora tutta da definire al di là dell’accumulo di buoni giocatori.

La differenza principale tra la Eastern e la Western Conference è che ci sono più squadre che sembrano davvero non avere speranze di competere per i playoff. Poi come ogni anno ci sarà una squadra che performa molto meglio rispetto a come ci si aspettava (anche perché alcune franchigie potranno contare su una presenza — anche minima — di tifosi sugli spalti, mentre altre no), ma per come appare adesso ci sono quattro squadre che potrebbero pensare più alla prossima stagione e alla prossima off-season che non a quella che sta per cominciare.

Il comportamento sul mercato dei Cleveland Cavaliers, ad esempio, fa ampiamente intendere che anche per quest’anno di vittorie se ne vedranno poche. Non è stato firmato neanche un free agent di rilievo per sopperire ai chiari limiti difensivi di questo roster, e il solo arrivo di Isaac Okoro con la numero 5 al Draft non può tappare i buchi di una squadra che ha falle da tutte le parti.

Charlotte ha investito più di tutti con il quadriennale da 120 milioni dato a Gordon Hayward — il contratto non-estensione più remunerativo di questa off-season — e ha ricevuto un’iniezione di talento con LaMelo Ball dal Draft, ma ha ancora troppi pochi giocatori NBA, specialmente sotto canestro, per una regular season intera.

Un mercato piccolo come quello di Charlotte deve pagare di più i free agent per convincerli a firmare per la propria squadra ma era Gordon Hayward il giocatore giusto sul quale spenderli?

I New York Knicks hanno sorpreso tutti rimanendo perfettamente immobili sul mercato dei free agent, senza utilizzare i 43 milioni di spazio salariale a disposizione su un contratto pluriennale. Inevitabile pensare che questa sia soprattutto una stagione di valutazione sia per la dirigenza guidata da Leon Rose che per l’allenatore Tom Thibodeau, per capire su quali giocatori puntare per il futuro e quali invece possono essere salutati. Se non altro, l’ingorgo nel ruolo di 4 è stato risolto, per quanto sia difficile immaginare la coesistenza di Julius Randle e Obi Toppin.

Infine la squadra più incomprensibile di questa free agency, i tragicomici Detroit Pistons. Magari tra qualche mese il piano del GM Troy Weaver ci apparirà in tutta la sua chiarezza, ma ora come ora non c’è una mossa sul mercato dei free agent che abbia un senso (dopo un Draft che invece, al netto di quanto è stata pagata la scelta per prendere Saddiq Bey — quattro seconde —, ha avuto voti positivi). I Pistons hanno dato 20 milioni all’anno a Jerami Grant quando nel suo posto hanno già Blake Griffin e al Draft dello scorso è stato scelto un giocatore simile per dimensioni come Sekou Doumboya; sono stati presi due centri come Mason Plumlee e Jahlil Okafor quando con la 16^ scelta è arrivato un lungo come Isaiah Stewart; e Delon Wright, arrivato da Dallas, dove voleva fare il titolare ma non poteva, insieme a Derrick Rose, che potrebbe togliere spazio prezioso a Killian Hayes. In tutto c’è una rotazione occlusa e mediamente poco talentuosa su entrambi i lati del campo: a Dwane Casey l’arduo compito di tirare fuori qualcosa di sensato da questo roster.

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