Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Gian Marco Porcellini
Come giocava il Valencia di Hector Cuper
12 lug 2022
12 lug 2022
Una squadra incredibilmente moderna.
(di)
Gian Marco Porcellini
(foto)
Dark mode
(ON)

Nel 2000 avevo 10 anni e seguivo il calcio in maniera compulsiva da almeno tre, principalmente tramite giornali e notiziari sportivi. Le partite vere e proprie sarebbero arrivate solo dopo. A casa non avevamo la pay tv e l’unica occasione per vedere il calcio internazionale in chiaro era l’anticipo della Liga spagnola del sabato sera su TMC o la partita di Champions League su Rete 4 del martedì sera.


 

Il 2 maggio di quell'anno il Valencia di Cuper giocava la prima semifinale di Champions League della sua storia, in casa contro un’altra spagnola, il Barcellona di van Gaal. Quella sera avevo la febbre e, in preda ai deliri, ero convinto di vedere i giocatori in maglia bianconera imperversare da ogni parte del campo come un'onda che si abbatte sulla costa. Il Valencia vinse quella partita 4-1, anche se riguardandola a distanza di 22 anni con un briciolo di lucidità in più mi sono reso conto che le cose non erano andate esattamente come le avevo immaginate al tempo. Ma ormai il "danno" era fatto. Quella partita ormai mi aveva fatto appassionare a quei colori, per cui ho continuato a simpatizzare nel corso del tempo.


 

Del resto a 10 anni era molto facile innamorarsi di quella che era tutti gli effetti la squadra sorpresa di quell'edizione della Champions League, capace di stupire l’Europa e arrivare a giocarsi la finale contro il grande Real Madrid. Ma oltre a celebrare quel risultato impronosticabile, oggi è interessante ripercorrere quel torneo per riscoprire la freschezza e la modernità della proposta di gioco degli uomini di Hector Cuper.


 

Stupire l’Europa


L’allenatore argentino, arrivato a Valencia nell’estate del 1999, dopo aver trascinato il piccolo Maiorca alla finale di Coppa delle Coppe, persa con la Lazio, e al terzo posto in Liga, davanti proprio ai "murcielagos", cioè ai "pipistrelli", era nella piena fase ascendente della sua carriera. Oltre all’hombre vertical, che prende il posto di Claudio Ranieri, la società con meno di 7 milioni si assicura tre giocatori cardine in quel 1999/00, e anche negli anni a venire: il centrale difensivo Mauricio Pellegrino, l’ala sinistra Kily Gonzalez e l’attaccante Juan Sanchez. Per il resto, viene confermato in larga parte la squadra del campionato precedente.


 

I bianconeri nei preliminari superano con un doppio 2-0 l’Hapoel Haifa, e approdano alla fase finale per la seconda volta nella loro storia, dopo una comparsata nel 1972. L’Europa si accorge degli spagnoli alla terza giornata della prima fase a gironi, quando gli uomini di Cuper vanno in casa del Bayern Monaco vice campione, se la giocano alla pari ed escono dall’Allianz con un 1-1 su cui hanno protestato a lungo, dopo che l’arbitro Graziano Cesari ha fischiato la fine dell’incontro proprio mentre Albelda da centrocampo stava mandando in porta Claudio Lopez.


 

Al di là di questo episodio, i bianconeri hanno offerto un saggio dei loro concetti di gioco: mentre il calcio europeo prova a superare l’egemonia del 442 di matrice sacchiana avanzando un uomo sulle trequarti con l’obiettivo di giocare tra le linee, Cuper è già una mossa avanti. Il suo Valencia di base parte da un 442, ma in fase offensiva si trasforma in una sorta di 4312, dove un centrale di centrocampo, Gerard, si alza alle spalle della mediana avversaria, i due esterni alti stringono la posizione (Kily Gonzalez a sinistra e in particolare Mendieta a destra), mentre le due punte rimangono parallele. Quando si distende, il Valencia porta nella metà campo avversaria non uno, ma tre uomini nei mezzi spazi e al centro della trequarti.


 

Rispetto alla maggior parte delle squadre dell’epoca, il Valencia è meno diretto nella gestione palla nel secondo terzo di campo, anzi vuole imporsi attraverso il controllo del possesso. E lo fa avvicinando i centrocampisti, i quali cercano di creare superiorità posizionale, per poi andare in verticale sulla punta. Quest'ultima alterna movimenti ad abbassarsi ad altri per attaccare il lato corto dell’area di rigore.


 

[gallery ids="82336,82335"]

La densità del Valencia in zona palla: Gerard, il centrale di centrocampo votato a sganciarsi sulla trequarti, riceve da Mendieta (che poi attacca la fascia) e scarica su Albelda, il quale può servire Ilie, cioè la punta che viene incontro per consolidare il possesso. Nella seconda immagine, tratta proprio dalla trasferta contro il Bayern, le due ali stringono contemporaneamente, Ilie si abbassa, compensato dall’inserimento di Gerard, mentre Lopez rimane sul secondo palo. Un attacco posizionale in cui si forma un rombo alto, dove il giocatore in possesso ha tre riferimenti tra le linee sulla trequarti.


 

Il Valencia impatta bene la partita, ma Elber dopo soli 5 minuti porta in vantaggio il Bayern. I tedeschi riescono a tirare fuori posizione i difensori e giocare sugli scatti in profondità delle tre punte, approfittando del momento di smarrimento dei bianconeri. Gli uomini di Cuper perdono le distanze tra difesa e centrocampo, ma dopo una ventina di minuti tornano a controllare la palla con più continuità, grazie a una manovra cadenzata dagli appoggi corti con cui gli spagnoli progrediscono sul campo. È un calcio in cui i giocatori sono poco ancorati alle posizioni: il rombo di centrocampo si può formare con l’arretramento di un attaccante o, perché no, l’accentramento dell’ex capitano della Roma Amedeo Carboni, sulla carta terzino sinistro, che in fase offensiva può diventare mezzala aggiunta. L’obiettivo è sempre lo stesso: moltiplicare le linee di passaggio per dare sostegno al portatore e giocare alle spalle delle linee avversarie.


 


Kily rimane aperto, Carboni invece si accentra e verticalizza per il “piojo” Lopez, che impegna Kahn.


 

Il pareggio arriva a 10 minuti dal termine con un’azione da 17 passaggi consecutivi, che condensa i principi di gioco di quella formazione: i quattro difensori che muovono il pallone da un lato all’altro, l’abbassamento di una punta per consolidare il possesso e portare fuori un difensore, lo scarico su Albelda e il conseguente scatto in avanti da parte di Gerard, che attacca lo spazio liberato da Ilie e Claudio Lopez, il quale raccoglie il lancio diagonale di Kily (bravo a ricevere nel mezzo spazio di sinistra) e di testa spalanca la porta al numero 14, che segna il primo dei suoi 8 gol stagionali.


 

Cresciuto nel vivaio del Barcellona, Gerard Lopez a 21 anni si consacra per le sue capacità di accompagnare l’azione e attaccare l’area. Dopo il prestito all’Alaves (7 reti in 26 presenze da titolare), si conferma anche in Europa, tanto che gli stessi i blaugrana pagheranno quasi 50 miliardi per riportarlo in Catalogna. Ma al Barca non si ripeterà, quel 1999/00 rimarrà la sua one season wonder.


 

Il vero motore di quel Valencia però si chiama Gaizka Mendieta, al tempo stesso esterno e mezzala destra nel 442 di Cuper. Il basco è il giocatore che più di tutti influenza la fase offensiva in varie zone del campo: può abbassarsi al fianco dei mediani per facilitare l’uscita del pallone, può prendere il fondo ma soprattutto sa portare palla nello spazio interno di destra e gestire i ritmi dell’azione, accelerando o dando la pausa. Anche per lui si tratta della miglior annata della carriera, con 18 gol e addirittura l’ottavo posto nella classifica del pallone d’oro 2000, davanti al campione d’Europa Raul e Beckham. A 26 anni sembra il prototipo del numero 8 per fisicità, corsa, comprensione del gioco e varietà nella finalizzazione: ha un tiro da fuori fragoroso, ma è capace pure di giocate da beach soccer, o ancora rallentare per guadagnare spazio per la conclusione. Le sue prestazioni convincono la Lazio nell’estate del 2001 a spendere 89 miliardi per lui, chiamato all’arduo compito di sostituire Nedved. Sarà uno dei flop più fragorosi della storia recente del campionato italiano.


 

Allargare il campo per passare dal centro


I bianconeri chiudono il gruppo D al primo posto e si qualificano al secondo girone con Bordeaux, Fiorentina e i campioni in carica del Manchester United. Dopo un 3-0 alla prima giornata al Mestalla contro i francesi, le due sconfitte esterne con i "red devils" e la "viola" rischiano di compromettere il passaggio del turno. All’Old Trafford Hector Cuper, condizionato dalle assenze di Kily Gonzalez e Gerard, propone un 541 pensato in funzione del crossing game degli inglesi. L’obiettivo non è tanto coprire l’ampiezza, quanto fare densità in area, anche se poi prenderà due reti a cavallo dei due tempi proprio su due azioni laterali.


 

Al di là delle defezioni e di una diversa struttura posizionale, l’idea rimane quella di controllare il pallone attraverso i 4 centrocampisti che si scaglionano su più altezze. Il possesso può diventare un’arma difensiva, anche se poi in quella gara mancherà un terminale offensivo, visto che il fuorigioco sistematico applicato dai padroni di casa toglie dalla partita Claudio Lopez. Le cose migliori verranno prodotte dal lato destro, con la connessione tra Angloma e Mendieta: il francese può andare sul fondo per crossare, ma anche rientrare per calciare col piede debole. Dopo i 90 minuti, però, il Valencia esce sconfitto con uno 0-3 severo ma anche con la convinzione di poter imporre il suo contesto su ogni campo.


 

A quel punto la sfida interna con i ragazzi di Trapattoni, primi dopo tre turni con 7 punti, assume un peso decisivo. Sarà una partita in cui il Valencia dominerà più di quanto non dica il 2-0 finale e che conferma la centralità dei terzini nella creazione del volume di gioco come nell’attacco dell’ampiezza. I centrali difensivi, in linea con gli standard degli anni 2000, non sono preposti a giocare il pallone e, se non possono appoggiarsi a un centrocampista (Farinos o Mendieta), la allontanano invitando la squadra a salire e attaccare la seconda palla. Per avviare un’azione più ordinata, i bianconeri devono necessariamente far uscire la palla da sinistra, il lato di Carboni. Il terzino italiano è il difensore più tecnico, a suo agio sia in conduzione che nel gioco lungo. Ha come primo riferimento il mediano, ma a volte lancia anche sulla punta di parte, che si apre sulla fascia. La coppia di attaccanti (due tra Claudio Lopez, Juan Sanchez, Ilie e Angulo) infatti è fondamentale nel creare quell’ampiezza che verrà attaccata dall’ala o dallo stesso terzino.


 


Carboni porta palla, mentre Angulo si apre e Kily si accentra. Da notare anche lo scaglionamento dei due centrali di centrocampo: Farinos si avvicina al terzino e Gerard inizia a prendere campo.


 

A possesso consolidato, gli spagnoli riescono a risalire il campo centralmente proprio perché, occupando l’intero campo in larghezza, dilatano la fase difensiva avversaria: se ad esempio le ali stringono, sale il difensore sul lato forte ad attaccare l’ampiezza ed eventualmente proporsi per il cross.


 

[gallery ids="82340,82341"]

Un paio di situazioni dalla sfida contro la Fiorentina in cui la squadra di Cuper coinvolge i laterali bassi. Nella prima immagine i padroni di casa muovono palla centralmente: da Farinos a Kily, passando per Gerard. L’ala argentina entra dentro il campo e libera lo spazio alla discesa di Carboni. Nella seconda immagine invece, è il terzino destro Angloma a salire lungo la fascia, dove Lopez (che si inverte di posizione con Mendieta) si apre per tirare fuori un difensore e fornire un appoggio al difensore francese.   


 

Nei momenti di massima brillantezza, il Valencia esprime una fluidità posizionale che quasi anticipa il trend del decennio successivo. Questi frequenti scambi di posizione non coinvolgono solo i centrocampisti e terzini, ma anche e soprattutto i due attaccanti, a cui viene richiesto un lavoro lontano dalla porta estremamente probante: oltre ad abbassarsi per dettare l’ampiezza, le punte devono associarsi con le ali e partecipare alla costruzione della manovra, giocando di sponda per poi andare nello spazio. Non avendo un centravanti fisico, Cuper chiedeva ai suoi centravanti di svuotare l’area e liberare lo spazio per l’inserimento di un compagno, o in alternativa di correre nello spazio tra centrale e terzino, in modo che ricevessero sul lato corto dell’area, per poter puntare la porta, rifinire l’azione o ancora giocarsi l'uno contro uno in zone meno congestionate.


 

A parte "il piojo" Lopez, che arriverà a 18 reti come Mendieta, il tecnico argentino non può contare su attaccanti particolarmente estrosi o precisi nella finalizzazione, eppure i suoi uomini offensivi per dinamismo e intensità sono perfetti per le sue richieste tattiche. Un po’ per il tipo di gioco dispendioso, un po’ perché sostanzialmente si equivalgono, Cuper alternerà i vari Juan Sanchez, Ilie e Angulo a fianco di Lopez. Tra l’altro questi tre giocatori segneranno praticamente gli stessi gol: 9 il primo e 8 gli altri due.


 

Pregi e difetti della fase offensiva


Dopo il 2-0 alla Fiorentina, il Valencia vince in maniera ben più episodica in casa del Bordeaux 4-1. Gli spagnoli sbloccano la partita al 41’ con Djukic sugli sviluppi di un angolo, al termine però di un primo tempo in cui avevano concesso diverse conclusioni da distanza ravvicinata ai francesi. A quel punto basta un pareggio per ottenere la qualificazione matematica, che arriva puntuale nell’ultimo turno (0-0 contro lo United primo nel girone).


 

Nella fase a eliminazione diretta, invece, il Valencia alza ulteriormente il livello delle sue prestazioni, rendendo di fatto superflua la gara di ritorno sia nei quarti che in semifinale. Il 5 aprile del 2000 arrivano al Mestalla i futuri campioni d’Italia della Lazio dei vari Veron, Nedved e Simeone. Una delle squadre più forti del momento in Italia e forse anche nel panorama internazionale, che verrà tramortita con un roboante 5-2. Dopo quattro minuti i biancocelesti sono già sotto di due reti e per recuperare sono costretti a sbilanciarsi. Ma così facendo perdono le distanze e si espongono alle folate dei padroni di casa, che quando riescono a occupare la metà campo avversaria in maniera ordinata offrono un saggio della propria modernità. Sembra quasi una partita tra squadre di epoche differenti, in cui gli spagnoli creano sistematicamente superiorità posizionale praticamente in ogni zona del campo, scaglionandosi per dare sempre più di una linea di passaggio al portatore di palla, anche sul lungo.


 


Carboni e Juan Sanchez forniscono l’ampiezza necessaria per allargare le maglie della difesa della Lazio e per giocare centralmente, dove si forma un incredibile tre contro uno. Gerard avvia e chiude una combinazione con Farinos e Kily, per poi servire in fascia l’accorrente Carboni. La Lazio viene presa nel mezzo e non sa bene come comportarsi: Pancaro ad esempio si fa tirare fuori da Sanchez, Stankovic rimane a metà strada tra Kily e Carboni, Gottardi invece si schiaccia a fianco dei centrali difensivi e lascia il serbo in inferiorità numerica.


 

Nonostante una gara in apnea, la Lazio all’87’ segna il gol del 2-4 che darebbe un senso al ritorno. Ma nel recupero Lopez (che già prima di quella sfida era stato acquistato proprio dai biancocelesti per quasi 35 miliardi) firma il 5-2 che suona come una sentenza. L’argentino sarà uno dei pochi a confermarsi su buoni livelli anche lontano dal Mestalla (40 gol in 4 anni a Roma), anche se a posteriori l’impressione è che anche lui il suo prime lo abbia raggiunto al Valencia, aiutato da un sistema che ne esaltava la mobilità e l’astuzia.


 

Il soprannome el piojo, il pidocchio, rende l’idea di quanto fosse fastidioso per gli avversari: tocca tantissimi palloni fuori area, anche per nascondere i suoi limiti nel resistere alla pressione spalle alla porta, mentre in area invece si nasconde sotto le foglie. Ci mette un attimo ad apparire all’improvviso con uno scatto in profondità e chiudere l’azione in 1-2 tocchi con il sinistro (era praticamente monopiede). In altre parole, Lopez è il classico attaccante estemporaneo che ti entra sotto pelle senza neanche rendertene conto.


 

Se ha spazio e tempo per ragionare, quel Valencia sembra quasi divertirsi col pallone. Il problema è che capace di abbagliare lo spettatore con la stessa intensità e la stessa durata delle luminarie di Natale: in un attimo si accende, ma altrettanto improvvisamente si potrebbe spegnere. In quel periodo storico, oltre alla costruzione bassa, non era ancora stato sviluppato il concetto del gegenpressing, in più i bianconeri non potevano contare neppure sull’opzione del lancio lungo sulle punte per risalire rapidamente il campo. Va da sé quindi che il consolidamento del possesso fosse determinato più che altro dalle contingenze o da iniziative inidividuali, specialmente dei due centrocampisti centrali.


 

L’altro paradosso di una manovra a tratti sofisticata e armoniosa è che non è seguito da una rifinitura altrettanto efficiente: nell’ultimo terzo di campo è come se la razionalità e la pazienza nel muovere la palla lasciassero lo spazio alla frenesia di arrivare a concludere il più velocemente possibile. A volte il Valencia cerca la palla in profondità senza aver tirato fuori posizione i difensori, altre forza il cross da situazioni o posizioni poco vantaggiose.   


 

Considerato che le punte svuotano l’area per ricevere sul lato corto, è quasi inevitabile poi che la fase offensiva sfoci sulla fascia e la squadra chiuda l’azione chiamando al traversone un laterale. Il Valencia però ha problemi ad attaccare le difese schierate perché da un lato, senza un’adeguata preparazione alla rifinitura, non dà tempo ai suoi uomini di disporsi in area, dall’altro non ha attaccanti adatti al gioco aereo. Quando invece le punte riescono a rientrare in area e abbassare la linea difensiva, ecco che si crea lo spazio per l’inserimento dei centrocampisti, loro sì preposti a raccogliere i cross o le seconde palle (Mendieta, Gerard, Farinos e Kily hanno siglato 39 gol complessivi).


 


Semifinale d’andata di CL: Lopez e Angulo abbassano i tre centrali difensivi del Barcellona, Kily scarica su Farinos che può calciare indisturbato.


 

L’energia della fase difensiva


La forza del Valencia, quindi, si basa sulla gestione del possesso. Per caratteristiche dei giocatori non sono però troppo propensi a sopportare delle lunghe fasi senza palla. In fase difensiva si sistemano con un 442 che però presta più attenzione all’avversario che non alla struttura posizionale.


 


Nella semifinale d’andata di Champions League contro il Barcellona, i due centrali di centrocampo si orientano sui vertici del rombo del centrocampo avversario, Guardiola e Rivaldo, mentre Mendieta entra dentro al campo per seguire Cocu e Kily rimane largo su Gabri.


 

All’ordine e all’armonia della fase offensiva fanno da contraltare l’istintività e le letture dei singoli senza palla: il Valencia non è una squadra che pressa l’inizio azione avversario, la tenuta della fase difensiva si fonda semmai sulle qualità dei centrali di centrocampo nel coprire la linea difensiva e recuperare le seconde palle. Specialmente su Farinos, l’unico centrocampista che in fase offensiva non si alza sopra la linea della palla per schermare i centrali in caso di transizione difensiva. Alle qualità del futuro centrocampista dell’Inter, egregio negli anticipi come nei contrasti, si aggiunge il lavoro degli esterni alti, che si spendono in ripiegamenti profondi quasi commoventi, se si considera che in possesso vengono chiamati a stringere la posizione. Se il Valencia difende le fasce piuttosto bene, lo deve ai raddoppi di Kily e Mendieta. Ma anche qui, si tratta di iniziative apparentemente frutto più di una serie di sforzi individuali che non di un’organizzazione collettiva.


 


Angloma esce su Nedved, su cui ritorna pure Angulo.


 

Il comportamento dei centrali difensivi invece sembra antitetico: Djukic e Pellegrino preferiscono difendere dentro l’area, difficilmente rompono la linea per seguire l’avversario lontano dalla porta, cercano piuttosto di mantenere la posizione e attaccarsi all’uomo all'interno della loro zona di competenza.


 

Il vero pilastro della fase difensiva è il portiere, Santiago Canizares. Arrivato nel 1998 dal Real Madrid dopo aver perso il posto da titolare, Canizares si consacrerà come uno dei simboli del valencianismo (quarto giocatore con più presenze nella storia del club, 412 tra il 1998 e il 2008). Misura appena un metro e 81, non brilla nella plasticità degli interventi, eppure si rivela molto forte nei tiri vicini al corpo, mostrando una reattività insospettabile per un fisico pesante come il suo. Le sue maglie super size e il capello biondo platinato lo renderanno un’icona degli anni 2000, periodo in cui raggiungerà la piena maturità. In quel 1999/00 le sue parate risulteranno decisive nel mascherare i difetti di una fase difensiva non propriamente irreprensibile, poco coordinata nelle spaziature e in particolare nel difendere la propria trequarti.


 

La doccia fredda della finale


Negli ultimi mesi della stagione la squadra di Cuper assume la forma di un rullo compressore: in semifinale di Champions League, dopo una prima mezzora in cui soffre il gioco di Rivaldo nel mezzo spazio di destra, rifila quattro reti al Barcellona al Mestalla (4-1), mentre in Catalogna subisce un 1-2 indolore. In Liga cambia passo nel ritorno: alla 21a giornata è addirittura 11°, eppure alla 38a arriva ad agganciare il terzo posto che vale preliminari di Champions, grazie a 37 punti in 17 partite. Nell’ultimo turno batte 2-1 il Real Saragoza e lo supera in classifica, scavalcando pure il Real Madrid, che avrebbe affrontato in finale di Champions League solo quattro giorni più tardi.


 

Come nel 1998, il Real (che sta per diventare la squadra dei galacticos) deve salvare la stagione con la Coppa dei Campioni, anche perché una sconfitta comporterebbe l’esclusione dall’edizione successiva. Per il Valencia si tratterebbe del coronamento di un percorso iniziato senza troppe aspettative, in cui ha superato indenne le finaliste della precedente edizione ed è culminato in una fase finale perentoria come poche altre volte si è visto nell’era moderna. Gli uomini di Cuper però non si presentano all’atto conclusivo nelle migliori condizioni: Canizares ha spiegato come Kily Gonzalez e Farinos avessero giocato malgrado una distorsione al ginocchio e un problema al perone, da sommare all’assenza per squalifica di Carboni, sostituito da Gerardo, un difensore di piede destro che ha tolto ampiezza e profondità alla fascia sinistra.


 

In finale scende in campo un Valencia contratto contro una formazione invece più abituata a maneggiare quel tipo di pressioni. A dispetto dei 22 anni, Raul ha già 282 presenze e 130 gol con la maglia del Real, una Champions in bacheca e prende per mano il Madrid con una partita totale, a galleggiare sulla trequarti per raccordare i reparti e creare superiorità numerica.


 

Gli uomini di Cuper tentano di attaccare per catene esterne coinvolgendo le punte, specialmente Claudio Lopez chiamato ad aprirsi sul lato destro, ma è un Valencia particolarmente rigido: Kily sull’altra fascia gioca una gara anonima, Gerard invece è più prudente del solito e si sgancia di meno, forse per coprire Farinos (che segue i movimenti di Raul) o assorbire un eventuale inserimento di un centrocampista (più McManaman di Redondo).


 


Oltre alla posizione di Raul, da notare anche quella delle due punte, Morientes e Anelka, che fissano i terzini del Valencia e creano lo spazio alle avanzate di Salgado e Roberto Carlos. In quest’azione si viene a creare un vantaggio proprio sulla destra, con Mc Manaman e Salgado contro il solo Kily Gonzalez.


 

Il grande merito di Del Bosque è quello di togliere la palla al Valencia e organizzare una struttura posizionale (3412) che gli consente di controllare sia il centro che le fasce. Questo predominio si traduce nel colpo di testa vincente di Morientes al 39’, seguito da una ripresa in cui il Real si abbassa e lascia la palla all’avversario. I bianconeri però si allungano e non riescono a organizzare la consueta rete di passaggi: a volte trovano Mendieta tra le linee, ma il 5212 madrileno difende l’area in maniera ordinata.


 

Col passare dei minuti il Valencia finisce per esporsi alle ripartenze avversarie e subisce altre due reti. Prima la sforbiciata di McManaman, poi il 3-0 di Raul al 75’, che si fa metà campo palla al piede indisturbato su un angolo per la formazione di Cuper. È l’emblema di una squadra che smarrisce la sua lucidità e improvvisa un gioco lungo che però non è nelle sue corde. «Il Real Madrid era più preparato e l’ha dimostrato» la chiosa di Canizares su quella sconfitta.


 

L’età dell’oro


Ma quella finale rappresenta solo la prima tappa del ciclo più vincente di sempre: nel 2002 e nel 2004 il Valencia conquisterà due campionati, sempre nel 2004 alzerà la Coppa UEFA – in quell’occasione Carboni a 39 anni e 43 giorni diventa il capitano più vecchio a sollevare un trofeo europeo - e la Supercoppa europea. Tornerà in finale di Champions, nel 2001 contro il Bayern Monaco con una squadra meno spettacolare e più consapevole, ma perderà dopo 14 calci di rigore. Un epilogo ancora più doloroso, che alimenterà la narrazione sull’Hector Cuper “perdente di successo”. L’allenatore argentino in carriera ha perso 6 delle 9 finali a cui ha partecipato, a cui si aggiungono il secondo posto con l’Huracan nel torneo di Clausura 1994 e lo scudetto sfumato con l’Inter il fatidico 5 maggio 2002. Il campionato sfuggito all’ultima giornata coi nerazzurri diventa il terzo bivio mancato in 3 anni, quello decisivo, che macchierà in maniera indelebile la sua carriera e che probabilmente ne condizionerà il prosieguo.


 

Carboni l’ha descritto come una persona “squisita” e “molto introversa, forse non riusciva a trasmettere tranquillità”, Cuper invece sembra molto realista e rassegnato quando parla dei suoi risultati. «Potrebbe piacerti o no, ma Mourinho ha una capacità impressionante: vince tutto. E io non ho questa capacità. Una cosa è raggiungere la finale, un’altra è vincerla. Chi sono io per non ricevere critiche? Ho anche ricevuto degli elogi, perché oggi ogni volta che torno a Maiorca o Valencia mi trattano molto bene».


 

A dispetto del dileggio fin troppo ingeneroso che lo accompagnerà negli anni successivi, il tecnico si trasformerà in un giramondo capace di tornare alla ribalta anche a distanza di anni, ad esempio nel 2017, quando porta l’Egitto in finale di Coppa d’Africa. Anche il Valencia si renderà protagonista di alcuni exploit isolati, come le Coppe del Re vinte nel 2008 e nel 2019, ma pur consolidando il proprio status di terza-quarta forza in Spagna - almeno fino al 2018 - non si avvicinerà più ai fasti dei primi anni 2000.


 

A marzo del 2022 sono finalmente andato a visitare Valencia, dopo tanto, troppo tempo in cui rimandavo questo viaggio. Mi sono recato allo stadio Mestalla in un insolito giovedì piovoso, dove l’acqua e il tramonto ammantavano l’ambiente di un’aria quasi malinconica. Nella mia ingenuità pensavo che lo stadio del Valencia si stagliasse come una cattedrale pagana al centro di un’area dedicata, invece era solo uno dei tanti edifici immersi nella parte meridionale della città. E questo me lo ha fatto apparire come un anziano ormai ignorato.


 

Il Mestalla ha una struttura tanto maestosa quanto trascurata e decadente. Nel 2006 in realtà il Valencia aveva presentato il progetto per la costruzione di un nuovo stadio distante 5 chilometri dal vecchio, ma i lavori si sono interrotti nel 2009 a causa dei problemi di liquidità del club. Un’immagine che racconta anche il declino attuale della squadra, che nell’ultimo quadriennio si è appiattita sulla mediocrità, più vicina alla zona retrocessione che alla zona Europa. Non possiamo ancora sapere se la ripresa dei lavori al nuovo Mestalla a inizio 2022 rappresenti un punto di svolta. L’unica certezza in questo momento è il glorioso passato, testimoniato dalle gigantografie poste sulle pareti esterne del vecchio stadio, che resistono intatte al torpore dell’ambiente.     


 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura