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Gian Marco Porcellini
Come giocava la Lazio dello scudetto
11 gen 2019
11 gen 2019
Analisi tattica di una delle squadre più forti di fine anni '90.
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Gian Marco Porcellini
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Se dagli anni ’50 possiamo considerare la Serie A la riserva di caccia delle tre grandi del nostro calcio (Juventus, Milan e Inter tra il 1950 e il 2018 hanno conquistato 55 degli ultimi 68 campionati), bisogna tornare al periodo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000 per vedere il dominio delle “strisciate” contrastato in maniera prepotente dalla concorrenza.

 

Erano gli anni delle “sette sorelle”, della provincia ambiziosa che viveva al di sopra delle proprie possibilità e delle romane protagoniste a cavallo del 2000, proprio nello stesso anno del Giubileo organizzato nella capitale. La Roma nel 2000/01 ha vinto un campionato che ha condotto dalla prima all’ultima giornata, la stagione precedente la Lazio ha superato all’ultima giornata la Juventus grazie a una clamorosa rimonta, ma non è stato certo il colpo di coda dell’

, quanto l’affermazione di una delle squadre più forti di quel momento, in Italia e in Europa. Del resto il presidente di quella Lazio, Sergio Cragnotti, non aveva mai nascosto le proprie ambizioni. «L’importante è essere protagonisti –

nel settembre del ’99, dopo il successo in Coppa delle Coppe e il secondo posto in Serie A nella stagione precedente - alla fine vince una sola squadra e la Lazio ha tutti i presupposti per farlo anche nella più prestigiosa manifestazione continentale. Secondo posto e Champions League sarebbe un altro bel colpo».

 

Un concetto che

dopo l’eliminazione nei quarti di Champions per mano del Valencia nella primavera del 2000. «Sono sicuro che il turno contro il Valencia potevamo superarlo perché siamo superiori agli spagnoli, peccato per quella strana partita dell’andata. Delusione? Sì, tanta. Ora, però, voglio costruire una grande squadra per centrare la finale di Champions League del prossimo anno. Ci manca poco per fare quel famoso balzo in avanti». Anche un profilo più equilibrato come l’allenatore Sven-Göran Eriksson si era

nel maggio del 2000. «Per completare l’opera voglio vincere la Champions League: 10 anni fa arrivai in finale col Benfica, ma non ci fu nulla da fare col Milan di Sacchi. A Roma non manca niente per riprovarci, l’ambiente è eccezionale».

 



Quella Lazio riuscirà a smentire pure il luogo comune del grande goleador come

per arrivare al tricolore. Perché di fatto Bobo Vieri, ceduto all’Inter per 90 miliardi, non è stato sostituito con una punta di pari peso: la dirigenza capitolina inseguirà vanamente Nicolas Anelka, che dopo un lungo corteggiamento passerà al Real Madrid, e poi Crespo e Claudio López (che arriveranno soltanto l’estate seguente). Alla fine Vieri verrà rimpiazzato numericamente dal 23enne Simone Inzaghi, reduce da 15 gol in 30 partite al Piacenza nel suo debutto in A, a cui si aggiunge Ravanelli, acquistato nella sessione invernale. Un po’ come la prima Juve di Conte, la Lazio riuscirà ad assorbire l’assenza di un bomber mandando in gol 15 giocatori, ma solo uno in doppia cifra (Salas, 12 reti, seguito da Veron, 8 reti, e Mihajlovic, 6), per un totale di 64 reti, una in meno della formazione con l’attacco più prolifico, il Milan campione uscente.

 

I biancocelesti però avevano impreziosito un centrocampo già eccelso - che poteva contare su Nedved e Conceição sugli esterni, oltre ad Almeyda in mezzo al campo e a uno Stankovic estremamente versatile nella prima parte della carriera - su Simeone, inserito nella trattativa per Vieri e valutato una ventina di miliardi, Sensini e Verón, presi entrambi dal Parma rispettivamente per 10 e 53 miliardi, che avevano fatto della “brujita” l’acquisto più costoso della storia del club, superato l’estate seguente da Crespo.

 

Già dalla Supercoppa europea Eriksson decide quindi di orientare la formazione base sul centrocampo, “il migliore al mondo”, almeno

il compianto Alberto D’Aguanno, schierando un 4-5-1 estremamente liquido, che poteva essere declinato in un 4-2-3-1, 4-3-3 o 4-4-2 a seconda degli interpreti e dei momenti della partita, dove Nedved, nominalmente mezzala sinistra, o Mancini, che parte dalla fascia sinistra, accompagnano la punta centrale.

 

I vincitori dell’ultima edizione della Coppa delle Coppe palleggiano in faccia ai campioni d’Europa del Manchester United per 90 minuti, manipolando a proprio piacimento il centrocampo inglese e chiudendo con un successo di misura (1-0, rete di Salas) che non rende giustizia al dominio espresso sul campo. «Per la finale sapevo di non avere molti attaccanti a disposizione capaci di reggere i 90’, allora mi sono affidato ad un 4-5-1 che mi ha convinto -

Eriksson nel dopo gara - con Mancini o Nedved esterni da una parte e Lombardo o Conceição dall’altra, coperti centralmente da uno tra Sensini o Almeyda, c'è più spazio per tutti per inserirsi in avanti. Infatti nel primo tempo la squadra mi è molto piaciuta sul piano del gioco. Anzi, vi dico che la Lazio che immagino è proprio questa (...) do un significato altamente positivo alla capacità di costruire gioco di questa squadra».

 

Eriksson inizia il campionato schierando il doppio centravanti Salas-Inzaghi, ma l’esperimento dura lo spazio di tre giornate: dopo il 3-0 interno al Torino alla terza giornata, Simone Inzaghi e Salas giocheranno insieme dal 1’ solo altre due sfide nel ritorno. Nell'anno dello scudetto i biancocelesti si schierano con un solo riferimento centrale, con a supporto eventualmente uno tra Mancini e Boksic, che in fase difensiva si abbassano sulla linea del centrocampo. Ma né l’attuale commissario tecnico della Nazionale né il croato riusciranno a fornire un contributo significativo, condizionato il primo dai suoi 36 anni (per il "Mancio", che nel torneo 1999/00 non segnerà neanche un gol, si tratta dell’ultima annata alla Lazio e in pratica l’ultima esperienza di rilievo nel calcio giocato, se si esclude una parentesi di pochi mesi al Leicester nell’inverno del 2001) e il secondo dai problemi cronici al ginocchio.

 

L’allenatore svedese, in particolare nelle grandi partite, schiera cinque centrocampisti, liberi di spartirsi gli spazi a seconda delle contingenze: gli unici punti fissi erano l’esterno destro, Conceição (o in alternativa Stankovic), che batteva la corsia con la rigidità e la regolarità di un treno merci, e un mediano bloccato, Almeyda o Sensini, a sfruttare le proprie qualità nel gioco lungo e nella schermatura della difesa. Le altre tre caselle sono delle variabili, che semplificando vengono riempite da un altro interno più vicino al mediano, un esterno sinistro con ampia libertà di movimento e un’altra mezzala/trequartista a legare mediana e attacco.

 


Un abbozzo di undici tipo, in una stagione in cui Eriksson ha fatto ruotare tantissimo i suoi uomini.


 

Il ruolo dell’interno posizionale è interpretato prevalentemente da Simeone, meno influente sulla fase offensiva rispetto ai tempi dell’Atlético Madrid. In Spagna era un centrocampista box to box ante litteram, costantemente proiettato in avanti per accompagnare e concludere l’azione, le cui

palla al piede, per forza d’urto e agilità, ricordano uno slalom di Marcel Hirscher. Il tecnico svedese però lo ha sfruttato più che altro come equilibratore di una squadra che si allunga con molta facilità, a cui chiede di rimanere vicino al mediano per aiutarlo a coprire il campo in ampiezza e uscire per andare a contrastare, forte di un’intensità fuori scala. Anche per questo, come per l’

espresso dall’Atlético Madrid che allenerà dal 2011, il "Cholo" per deformazione viene ricordato come un uomo di agonismo e quantità, a scapito dei contenuti tecnici -

- del suo gioco.

 

Alla Lazio avanza solo ad azione consolidata, o sulle palle inattive, dove rappresenta una sentenza: sui 30 gol realizzati in A, ben 19 li ha fatti di testa. In quel torneo segna 5 gol, tutti di testa e tutti nelle ultime sette giornate. Il primo è il più pesante, perché vale la vittoria in casa della Juve – prima alla vigilia del match, con 9 punti di vantaggio sui laziali - che riapre il discorso scudetto. In più andrà in rete pure nella finale d’andata di Coppa Italia (naturalmente sempre di testa) contro l’Inter, siglando il 2-1 che gli uomini di Eriksson riusciranno a difendere nella gara di ritorno a San Siro (0-0).

 

Nedved invece oscilla tra il centro-sinistra e una posizione più esterna, a seconda della presenza di un secondo attaccante o di Verón: con l’ex Parma in campo va a occupare la fascia sinistra in fase difensiva, con Mancini o Boksic, invece, a palla persa si stringe al fianco del mediano. Anche se di fatto il suo gioco in fase offensiva non cambia molto, visto che svaria su tutto il fronte, alternando tracce interne a tagli interno-esterno. Stesso discorso per Verón, formalmente esterno sinistro, o mezzala/trequartista centrale quando c’è Nedved a coprire l’ampiezza, il cui scopo rimane quello di accentrare il gioco e creare superiorità numerica in zona palla.

 

Negli ultimi due mesi di campionato, in cui era obbligato a vincerle praticamente tutte se voleva riprendere la Juve, Eriksson ha però proposto una configurazione ancora più sfrontata, con un solo centrocampista difensivo (uno tra Almeyda, Sensini e Simeone), accompagnato da due trequartisti (Verón e Nedved), due attaccanti (uno tra Inzaghi e Salas al centro, oltre a uno tra Boksic e Mancini sull’esterno sinistro), e Conceição sulla destra.

 


Una delle versioni più offensive della Lazio, qui nella Supercoppa europea contro lo United: due attaccanti, Mancini e Salas, e tre centrocampisti offensivi, Stankovic, Nedved e Verón, con gli ultimi due che si alzano dietro alla seconda linea inglese, coperti da Almeyda.


 



In un calcio frenetico e diretto come quello degli anni ’90, dove l’obiettivo è arrivare il prima possibile alla porta avversaria minimizzando i rischi e il controllo della partita si esprime più attraverso la supremazia territoriale che non attraverso il controllo della palla, la Lazio gioca un calcio altrettanto verticale, la cui efficacia però aumenta a squadre lunghe, nel momento in cui può approfittare degli spazi per trovare con maggior frequenza i giocatori di maggior creatività, che organizzano una fase offensiva più ragionata.

 

Nelle prime fasi della partita la Lazio cerca di prendere campo e dilatare le distanze della formazione avversaria tramite il gioco lungo: si affida dunque ai lanci dei difensori (Nesta e Mihajlovic in particolare) o in alternativa di un centrocampista (Simeone e Almeyda) per la punta, mentre i due interni si alzano dietro la mediana avversaria per andare a raccogliere l’eventuale seconda palla. Se l’attaccante controlla la sfera, la scarica al compagno più vicino che, se non ha linee di passaggio utili davanti a sé, apre sull’esterno, il quale a sua volta opta per il cross dal fondo o dalla trequarti, con l’area che viene riempita dalla punta centrale, dall’ala e dalla mezzala sul lato debole. Se invece il pallone esce dai terzini si va sull’esterno alto posizionato sullo stesso lato, che attacca lo spazio alle spalle della linea difensiva, oppure riceve sulla figura e prova a dribblare il marcatore, allo scopo di creare una superiorità numerica da spendere negli ultimi 40 metri.

 


Né Almeyda né Verón si abbassano per gestire l’uscita del pallone della difesa, ma avanzano per andare a contendere la seconda palla sul lancio di Favalli per Inzaghi.


 

Inzaghi e Salas, schierati a turno, diventano le teste di ponte usate per risalire il campo. I due attaccanti vengono chiamati ad abbassarsi e giocare di sponda sul terzo uomo. Un gioco che mette in risalto le qualità fisiche e tecniche del cileno, bravo ad associarsi coi compagni, proteggere la sfera e resistere agli urti nonostante un’altezza modesta (un metro e 73 secondo Wikipedia). Salas attira il marcatore fuori posizione, la gioca di prima e torna in area per ricevere il cross, grazie a uno stacco di testa imperioso. Inzaghi invece è più un finalizzatore che si trova a suo agio nell’attaccare la profondità e chiudere le azioni laterali. Il 1999/00 resta l’annata migliore della sua carriera, con 19 gol complessivi, compresi i 9 in 11 presenze in Champions League, quattro dei quali segnati in una sola gara, il 5-1 al Marsiglia nel secondo girone.

 

Quando muovono palla rapidamente e cercano subito di andare in profondità, i capitolini rifiniscono l’azione passando dalle fasce perché, senza un adeguato consolidamento del possesso, hanno difficoltà a occupare la trequarti centrale. Sull’esterno invece risalgono il campo con più naturalezza: grazie alle sovrapposizioni del terzino sinistro, Pancaro o Favalli, e alle conduzioni prolungate di un dribblomane come Conceição sulla destra, riescono ad attirare sul lato forte gli avversari, che nello scivolamento laterale scoprono il centro e aprono gli spazi agli inserimenti dei centrocampisti. Non è un caso quindi che diversi gol siano arrivati da cross.

 

La Lazio però diventa una squadra devastante e divertente in quei frangenti in cui è in grado di ordinare la fase offensiva. E ci riesce quando passa dal centrocampo, quando cioè Verón e Nedved sono messi nelle condizioni di giocare in continuità. L’argentino e il ceco hanno un rapporto agli antipodi con la palla: il primo ne viene attratto come un metallo vicino a un magnete, il secondo invece si allontana, in modo da prendere campo ed essere servito sulla corsa. Veron si muove nella zona della palla per fornire una linea di passaggio sicura ai compagni e, una volta che la riceve, decide come provare a rompere le linee avversarie: con un cambio di lato, con una verticalizzazione oppure con una conduzione. Un gioco alle volte forzato, i cui benefici però (vantaggi posizionali/passaggi chiave/tiri) superano di gran lunga i costi (palloni persi/transizioni subite).

 


Qui Verón, nominalmente mezzala sinistra, si sposta sulla fascia destra per associarsi a Pancaro e Conceição.


 

«Verón è il nostro playmaker. Quando gira, va bene tutta la squadra»

Eriksson, che tra la fine del girone d’andata e l’inizio del ritorno va in difficoltà, in concomitanza proprio con il periodo di appannamento dell’ex Parma. Nelle prime 12 giornate del 2000 la Lazio conquista appena 19 punti, raccogliendo tra l’altro dalle sfide con Venezia, Cagliari, Reggina e Verona appena due pareggi. Al netto della flessione invernale, Verón disputerà una delle sue migliori stagioni, l’unica della carriera in cui toccherà la doppia cifra (otto reti in Serie A e due in Champions). Un anno in cui si consacrerà come uno dei migliori registi al mondo, malgrado sia stato oscurato in parte dalla presenza in Italia di altri due mostri sacri come Zidane e Rui Costa.

 

In più i biancocelesti dimostrano di essere una formazione moderna nell’occupazione dei corridoi verticali: se a destra la fascia è presidiata stabilmente da Conceição, con Negro che si sovrappone solo quando il portoghese ha bisogno di un compagno per uscire da un 1 vs 2, sul centro-sinistra si innescano dei giochi più fluidi tra terzino, ala/seconda punta e interno. Il

in questi casi è Nedved: i suoi strappi, con o senza palla, determinano la struttura posizionale sul suo lato. Se il ceco converge verso il centro all’altezza della mediana, la mezzapunta compie un movimento compensativo, andando a occupare l’ampiezza o il mezzo spazio alle spalle del centrocampo (con il difensore che sale a possesso consolidato), mentre se si allarga, l’attaccante esterno va a riempire l’area. Le sue accelerazioni permettono alla Lazio di risalire il campo centralmente e attirare gli avversari fuori posizione, aprono spazi e linee di passaggio, in particolare in funzione dell’inserimento di una mezzala. Nedved diventa un fattore nel momento in cui riesce ad accoppiarsi a Boksic o ancora meglio a Pancaro, il giocatore che più mi ha impressionato rivedendolo a posteriori per ambidestria, corsa e agonismo. Un terzino non solo di quantità, ma anche di qualità nella gestione palla e nella rifinitura.

 

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Due esempi dei giochi offensivi della Lazio innescati da Nedved: nel primo caso il ceco stringe e Boksic compie il movimento opposto, nel secondo c'è lo stesso accoppiamento con la punta croata, ma stavolta Inzaghi svuota l’area per apparecchiare l’inserimento di Stankovic.


 

Un’altra risorsa preziosissima per questa squadra è costituita dalle palle inattive, che hanno fruttato 23 delle 64 reti complessive segnate in campionato, quasi il 36% sul totale. Per avere un termine di paragone, la Lazio dell’ultima stagione da 89 gol ne ha fatti 26 su calcio piazzato, ma con quattro giornate in più e nove rigori, due in più di quelli fischiati agli uomini di Eriksson. Verón e Mihajlovic sono ugualmente insidiosi su punizione diretta e indiretta, il primo grazie a un calcio liftato, il secondo grazie a un tiro sempre d’interno collo, ma più teso. Mihajlovic tira gli angoli da destra, Verón quelli da sinistra e contro il Verona segna direttamente dalla bandierina. Il centrale difensivo, dopo i 9 gol dell’anno precedente, fa ancora meglio, arrivando tra Serie A, Coppa Italia e Champions League addirittura a quota 13, di cui 7 su punizione diretta.

 



Nonostante si allungasse e alzasse abitualmente 4-5 uomini sopra la linea della palla, la Lazio non cerca mai il recupero della sfera in zone alte. L’obiettivo semmai è quello di ricompattare la squadra formando un 4-1-4-1, con la linea di centrocampo che si schiaccia e quella difensiva che invece accorcia in avanti per ridurre le distanze tra i reparti. La formazione di Eriksson non pressa nemmeno l’inizio azione avversario, al massimo esce un attaccante ai 60-70 metri per disturbare il portatore di palla e costringerlo a forzare la giocata.

 


Il 4-1-4-1 nelle fasi di difesa posizionale.


 

Il problema è che, amando gli spazi larghi ma senza alcuna riaggressione né adeguati atteggiamenti preventivi, la Lazio inevitabilmente a palla persa si spacca in due: una linea formata dai quattro difensori, più il mediano schiacciato sulla stessa, e più in alto gli altri cinque offensivi, scaglionati in maniera più o meno ordinata. Se la squadra non riesce a ricomporre integralmente la prima linea, nelle transizioni difensive si viene a

un blocco da 3-4 uomini a presidio del centro del campo, o peggio ancora il mediano e la mezzala di posizione si ritrovano a difendere tutto il campo in larghezza.

 

Una scelta forte, quella di orientare l’undici base sulla fase offensiva da parte di Eriksson: la Lazio si espone ai contropiede e al gioco tra le linee, ma allo stesso tempo asseconda lo stile di una difesa che preferisce difendere correndo in avanti piuttosto che all’indietro. In effetti Mihajlovic e Nesta amano rompere la linea per andare a contrastare l’uomo a palla lontana dalla porta, allo scopo di interrompere l’azione avversaria nel minor tempo possibile e negare la profondità.

 

In particolare la

di Nesta diventa il suo marchio di fabbrica, quasi una reazione ineluttabile dinanzi a un giocatore che si trova nella sua orbita (si intende una distanza anche di tre metri) e scopre la palla. Restano incredibili, quasi inspiegabili, il timing e la pulizia di un giocatore che quasi ad ogni contrasto rischia il cartellino o di essere superato, ma che la maggior parte delle volte entra con una violenza e una brutalità che si trasforma in eleganza per la precisione chirurgica del suo intervento, frontale o laterale, con la gamba destra protesa in avanti. Per questo il soprannome “tempesta perfetta”, affibbiatogli dal telecronista-tifoso del Milan Carlo Pellegatti, ne fotografa in maniera esemplare il gioco, fulmineo nei tempi e fragoroso nell’esecuzione, che si abbatte senza pietà sull’avversario. Una sorta di "all in" in apparenza azzardato, ma che in realtà rappresenta una giocata ad altissima probabilità di vincita.

 

Più in generale il tipo di marcatura può variare a seconda della partita, anche se di base è una zona mista, che ad esempio contro formazioni che alzano molti effettivi o schierano giocatori particolarmente mobili, si può ridefinire in una zona più pura. Detto che Nesta rimane il difensore più propenso a rompere la linea, contro squadre che impiegano un solo esterno per fascia, come il Milan di Zaccheroni o la Juve di Ancelotti, quando una punta centrale si allarga, è il terzino a uscire sull’attaccante, mentre l’esterno si abbassa in copertura.

 


Nesta rimane in posizione per avere la superiorità numerica su Inzaghi, esce quindi Negro su Del Piero e Conceição si abbassa per seguire Pessotto.


 

Nelle fasi di difesa passiva i biancocelesti si abbassano nel primo terzo di campo, formando un 4-1-4-1 che ambisce a mantenere l’ordine e una copertura omogenea degli spazi, anche se in realtà si tratta di una squadra che non è in grado di sostenere frazioni prolungate senza palla, che finisce per farsi attirare fuori posizione e concedere delle buone conclusioni. In più la linea difensiva, pur esaltandosi nel difendere lontano dalla porta (anche in situazioni di parità o inferiorità numerica), è costretta quasi fisiologicamente a subire, dato che non viene supportata con continuità dagli altri reparti. Alla fine gli uomini di Eriksson faranno registrare 26 clean sheet complessivi, a fronte però di 54 gol presi in 59 gare, quasi uno ogni 90 minuti.

 



Il 1999/00 segna l’apice dell’era Cragnotti. La Coppa Italia vinta nella finale con l’Inter, quattro giorni dopo l’incredibile scudetto strappato alla Juve all’ultima giornata, sarà il terzo trofeo della stagione dopo la Supercoppa europea vinta ad agosto del 1999, il sesto titolo nel triennio 1998/00. Un epilogo incredibile, quello dell’annata 1999/00, considerato poi il crollo invernale e l’eliminazione dalla Champions in aprile, che però non hanno fatto deragliare la rosa, profonda a livello quantitativo e qualitativo, che Eriksson ha ruotato per tutta la stagione. Un tecnico pacato nei toni e signorile nei modi, forse mai apprezzato fino in fondo, più che dall’ambiente, dalla sua società, che lo ha sempre visto con un filo di scetticismo. A posteriori, con un organico di quel valore, gli è mancata un’affermazione in Europa più prestigiosa della Coppa delle Coppe e di una finale di Coppa UEFA nel ’98 per consacrarsi definitivamente e trasformare un grande ciclo in qualcosa di epocale.

 

Sia per Cragnotti che per Eriksson quello scudetto rappresenta il punto più alto delle rispettive storie. Il tecnico scandinavo, che nell’ottobre di quell’anno si accorda per guidare la Nazionale inglese dal luglio del 2001, verrà esonerato a gennaio dopo un ko casalingo contro il Napoli, complice anche un surreale autogol di Pancaro, e da quel momento inizia un lungo peregrinaggio che lo porta in diversi continenti, senza però più lottare per obiettivi di prima fascia. Nel novembre 2002 la Cirio dichiarerà attraverso la voce del suo azionista unico Sergio Cragnotti lo stato d’insolvenza a causa del mancato

di un bond da 150 milioni.

 

L’imprenditore romano, accusato di truffa, bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e corruzione, si dimette dalla presidenza della Lazio il 3 gennaio del 2003, con il fallimento del club che verrà scongiurato dall’intervento di Claudio Lotito, presidente dal 19 luglio del 2004, che l’anno seguente ottiene la possibilità di dilazionare in 23 anni il debito di 140 milioni accumulato dalla Lazio nei confronti del fisco. Lotito vincerà tre Coppe Italia e due Supercoppe italiane, ma i biancocelesti, condizionati anche dal regime di austerity, non saranno più in grado di competere per le posizioni di vertice del calcio italiano.

 

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