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Come giocava l'Inter del triplete
18 mar 2020
18 mar 2020
Ricordo di una delle squadre più iconiche del calcio contemporaneo.
(articolo)
31 min
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Fa impressione pensare che dal triplete dell'Inter di Mourinho siano effettivamente già passati 10 anni. O forse fa impressione solo a me perché nel 2010 avevo 20 anni e non voglio accettare di essere diventato un trentenne, o perché è un’impresa che ha assunto dei contorni mitici sfociati presto nel nostalgico, considerato il celere declino dei nerazzurri dopo l’annata più vincente della propria storia.

Fatto sta che mi sembra di raccontare un evento molto più vicino nel tempo di quanto non lo sia nella realtà. Forse è l'impronta emotiva che l’allenatore portoghese ha saputo lasciare in Italia, nonostante se ne sia andato letteralmente durante i festeggiamenti per la vittoria della Champions. «L'Inter è la mia casa, la mia famiglia», ha raccontato successivamente «Moratti un amico, il mio presidente. La storia del triplete è stata fantastica. Dopo Madrid se fossi tornato a San Siro a festeggiare non sarei mai più andato via dall'Inter. Quando dici addio a una famiglia è una cosa dura da affrontare, quella sera sapevo già che sarei andato via, non potevo dire di no al Real Madrid per la terza volta».

Effetto Mourinho

Nei due anni all'Inter lo “Special One” ha lasciato un segno indelebile sulla Serie A a livello comunicativo ancor prima che tecnico, grazie alla propria capacità di convogliare su di sé pressioni e polemiche. La grandezza del suo mito è stata alimentata anche negli anni a seguire dal culto per un’icona estremamente divisiva e anticonvenzionale, in un ambiente dove solitamente regnano una banalità e una diplomazia ai limiti dell’ipocrisia. Il suo acume gli ha permesso di dettare l’agenda mediatica innescando polemiche sfociate nella dietrologia più spicciola (vedi il gesto delle manette dopo un’Inter-Samp del 2010 in cui la sua squadra aveva subito due espulsioni) allo scopo di generare un complesso di accerchiamento con cui difendere e motivare i suoi giocatori; oppure lanciando provocazioni talvolta irrispettose (su tutte la celeberrima conferenza stampa nel 2009 in cui accusa i media di “prostituzione intellettuale” e conia l’espressione “zeru tituli”) utilizzate appunto come arma di distrazione grazie a cui trascinare nella bagarre obiettivi appositamente scelti.

Quello di Mourinho, lo sappiamo, era un approccio volutamente iperbolico, montato per cementare una società storicamente fragile, permeabile a ogni tipo di polemica, poiché priva di un management forte, almeno quanto quelle di Milan e Juventus. Con Mourinho invece abbiamo assistito a uno dei rari casi vincenti in cui è stato il club a seguire al suo tecnico, che ha deciso di accentrare su di sé tutto il peso comunicativo per ridefinire il brand societario e rafforzarne l’identità.

Certo, Mourinho ha fatto tutto questo con le sue armi, a partire dalla mistificazione della realtà. Nella già citata conferenza stampa degli “zero tituli”, ad esempio, se la prende con un presunto establishment formato da Roma, Milan e Juve. Il tecnico portoghese non solo prende le distanze dai media, vittime di una “prostituzione intellettuale” («Ranieri e Spalletti sono sempre in prime time e sono amici di tutti i giornalisti, io invece vado davanti alla stampa per contratto, non mi faccio pagare per le interviste e non manipolo l’opinione pubblica»), ma dice di schierarsi a fianco degli allenatori delle medio-piccole, vittime a suo dire di torti arbitrali. Ma l'Inter, una delle squadre più importanti del campionato italiano già prima di Mourinho, vinceva il campionato da 3 anni (e avrebbe vinto pure i 2 successivi) ed era davvero difficile considerarla come una outsider che si contrapponeva al peso politico delle big.

Ma Mourinho era abilissimo nel decodificare i paradigmi della comunicazione italiana, manipolandoli a proprio piacimento, com'era chiaro già in una delle prime interviste. «Mi sembra che gli italiani non sono tanto innamorati di calcio come io pensavo, sono innamorati più dello show televisivo. Vedo tutti preoccupati di piccole cose, che nello spettacolo calcio non significano niente, e nessuno preoccupato per uno sport che è importante nel mondo. Nessuno si preoccupa per il fatto che il calcio italiano è considerato un prodotto molto piccolo fuori dall'Italia, non paragonabile alla Premier League. Il Lecce mercoledì ha giocato con 3 portieri e 8 difensori eppure a fine gara tutti si sono preoccupati sul perché a parlare con la stampa è venuto Baresi. Questo è il nostro mondo, che io ho scelto. La decisione di venire in Italia è stata mia, ma pensavo che l'Italia avesse più passione per il calcio e meno per tutto quello che c'è intorno. Non mi sono pentito comunque di essere venuto in Italia, assolutamente».

L’ex allenatore del Chelsea era sembrato davvero un fenomeno nuovo anche solo per la personalità e la brillantezza con cui si era presentato già alla prima conferenza stampa in Italia, dove ha sfoggiato un italiano notevole, rifiutandosi di rispondere in portoghese e inglese anche per ostentare la propria padronanza con la lingua. Non il classico effetto novità legato a una figura esotica (Mourinho tra il 2008 e il 2010 è stato l’unico tecnico straniero in A assieme a Mihajlovic e Leonardo, con alle spalle però una lunga esperienza in Italia), ma una vera e propria rivoluzione culturale. «Il presidente mi ha chiesto di essere José Mourinho, lavorare con passione ed empatia con tutti per iniziare un nuovo ciclo (...) Penso che i risultati sportivi siano la conseguenza logica di chi lavora e io sono sicuro di lavorare molto bene. Mi aspetto risultati positivi». All’ex Chelsea, che si ritrovava a guidare una squadra già dominante in Italia, veniva chiesto lo step successivo, rendere l’Inter competitiva pure in Europa, dove negli ultimi 5 anni non era andata oltre i quarti di finale del 2005/06. «L’obiettivo minimo era continuare a dominare in Italia», ha spiegato nel 2015 durante il programma televisivo di Gazzetta TV “Condò confidential” «Ma non era quello che mi aveva portato in Italia. Il primo anno la squadra non era preparata per vincere la Champions, né psicologicamente né tatticamente».

Nel 2008/09 i nerazzurri avevano conquistato sì il campionato con 3 giornate di anticipo, ma in Champions non si erano spinti oltre gli ottavi. In più lo “Special One” non era riuscito a integrare i principali acquisti del mercato estivo, le ali Quaresma e Mancini, determinanti per passare a un 433 accantonato già dopo qualche mese. L’estate successiva l’intenzione era quindi di ripartire dal 4312 con cui aveva chiuso la stagione, puntando su giocatori funzionali al sistema e capaci di variare i principi di gioco. «Eravamo una squadra che difensivamente era fenomenale come blocco basso», ha spiegato il portoghese a Coaches Voice «Ma pensavo che dovessimo alzare la linea di 20 metri per pressare più in alto ed essere più dominanti. Avevo un gruppo di difensori centrali alla fine della loro carriera e ci serviva un difensore rapido: volevo Ricardo Carvalho, ci abbiamo provato ma per il Chelsea era impossibile cederlo (...) al che la mia struttura ha fatto il nome di Lucio, il giocatore perfetto. Perché è molto rapido e ci avrebbe dato quello che volevamo, anche se tecnicamente non era al livello di Carvalho. Poi avevamo bisogno di aumentare la qualità del nostro gioco a centrocampo. Avevamo giocatori fantastici, molto forti a centrocampo come Zanetti, Stankovic e Muntari, ma ci serviva un maggior controllo della palla, dovevamo essere diversi. E Sneijder era la chiave giusta per noi. In attacco abbiamo perso Zlatan, ma l’abbiamo sostituito con Milito ed Eto’o».

A fine mercato si delineava una squadra più profonda e piuttosto diversa, almeno nell’undici titolare, rispetto a quella che aveva rinunciato al proprio play offensivo/finalizzatore, Ibrahimovic, ossia l’uomo che più di ogni altro aveva definito il contesto dell’Inter post calciopoli, il cui volume di gioco doveva essere assorbito e implementato a livello di soluzioni da Milito, Eto’o e Sneijder. Oltre all’olandese si era aggiunta un’altra fonte di gioco, Thiago Motta, arrivato dal Genoa assieme allo stesso Milito, e Pandev, acquistato dalla Lazio nell’inverno del 2010.

Praticamente la formazione di Mourinho terminerà l’anno cambiando 6/11 rispetto al campionato precedente, ma soprattutto varierà in corso d’opera sistema e concetti di gioco, raggiungendo quella flessibilità e quel sottile equilibrio che le permetterà di interpretare più registri.

I problemi del 4312

La squadra di Mourinho, comunque, ha continuato a dominare in campionato e ad avere difficoltà in Champions League anche nella stagione 2009/10. Se in Serie A l’Inter era riuscita ad accumulare nel giro di poche settimane un margine confortante sulla concorrenza, guadagnando la testa della classifica in solitaria già all’ottava giornata e laureandosi campione d’inverno con 45 punti, 5 in più del Milan, 12 in più della Juve e addirittura 13 in più della Roma, in Champions League invece aveva superato a stento il girone, qualificandosi alle spalle del Barcellona grazie soprattutto al rocambolesco 2-1 ottenuto negli ultimi minuti in Ucraina (contro la Dinamo Kiev), la prima vittoria dopo 3 stentati pareggi, seguiti dal decisivo 2-0 al Rubin Kazan nel turno conclusivo. Nella «competizione dei dettagli e di adattamento a diverse culture», come la definisce il portoghese, la sua squadra non si era dimostrata ancora pronta a livello mentale, inteso come personalità e lettura dei momenti, prima ancora che su un piano tecnico.

Se in Italia le bastava appoggiarsi su individualità fuori scala per imporsi sull’avversario di turno, in Europa emergevano in maniera ancora più palese i limiti di un 4312 che però in campionato proporrà per quasi tutto l’anno. In Champions League la squadra aveva difficoltà a scaglionarsi sul campo, in particolare nell’occupazione dell’ampiezza. Certo, a destra Maicon si comportava da ala aggiunta, che impostava, rifiniva e finalizzava l’azione, ma mancava un uomo che gli creasse quello spazio da attaccare, malgrado Eto’o si sfiancasse in un logorante lavoro senza palla su entrambi i lati, da cui riceveva per tirare fuori un difensore, allargare il campo e cucire il gioco (31 passaggi p90’ tentati in A, di cui 1,9 passaggi chiave).

In questa immagine, risalente alla trasferta di Cagliari di inizio stagione vinta 2-1, troviamo Santon, Cambiasso - salito per compensare il movimento di Sneijder - e Milito sulla stessa linea verticale, schiacciati verso il centro del campo. Nessuno si allarga per fornire ampiezza sulla sinistra.

A sinistra invece, con due terzini di piede destro come Santon e Zanetti, più portati in possesso a entrare dentro al campo, o un laterale piuttosto bloccato come Chivu, venivano evidenziati i limiti atletici di un Thiago Motta, schierato nella prima parte di stagione come mezzala sinistra, a cui veniva richiesto di coprire troppo campo. Più in generale quell’Inter non aveva troppo interesse né il talento necessario per controllare la palla (in Champions non andava oltre i 369,1 passaggi tentati, con una precisione del 76%), e doveva quindi avvicinare i propri centrocampisti per ottenere una costruzione ragionata attraverso cui ordinarsi e creare spazi dietro le linee avversarie, anche perché se Sneijder scendeva per raccordare l’azione, a parte Stankovic non c’erano altri giocatori in grado di occupare dinamicamente la trequarti. I nerazzurri, che pure avevano cambiato pelle rispetto alla stagione precedente, rimanevano una squadra brutalmente diretta, capace di combinare velocemente e andare subito in profondità, grazie a due sintetizzatori come Thiago Motta e Sneijder, che comprimevano il tempo delle giocate con dei tocchi di prima.

La copertura dell’ampiezza rappresentava un problema pure in fase difensiva, in cui la prima linea di pressione formata dal trequartista e le due punte veniva agevolmente superata con un passaggio laterale, che costringeva la mezzala sul lato forte a uscire, liberando però il proprio omologo. Un problema che a cascata ne innescava un altro, la protezione dei mezzi spazi, dove si inserivano con troppa semplicità un interno oppure un’ala.

Ma una partita più di altre ha messo a nudo le criticità dei campioni d’Italia, e cioè quella con il Barcellona di Guardiola campione in carica. Più che il punteggio, 2-0 per i padroni di casa, a impressionare è stata soprattutto la superiorità dimostrata in campo dai catalani (privi di Messi e Ibrahimovic), la cui fluidità della struttura posizionale ha manipolato il rombo interista con una facilità irrisoria. In possesso il Barcellona formava una sorta di 3421 con Abidal terzo centrale, Dani Alves e uno tra Keita e Pedro larghi, Busquets e Xavi a centrocampo, e Henry supportato da Iniesta e Xavi (nel caso in cui Pedro facesse il quarto a sinistra) o Pedro (quando Keita si apriva in fascia). Grazie a questi interscambi continui e una qualità incredibile nel muovere palla nello stretto, il Barcellona dilatava le distanze del blocco avversario, portando fuori posizione il mediano, Cambiasso, o il trequartista, Stankovic, fino a raggiungere il controllo della palla e degli spazi, anche perché a palla persa la riaggressione era immediata.

Sembra di essere di fronte a una partita tra due formazioni di epoche diverse.

Sembrava che l’Inter non avesse gli strumenti tattici, prima ancora che tecnici o fisici, per contrastare quei principi di gioco destinati a caratterizzare il decennio successivo: Mourinho alzerà Thiago Motta sulla trequarti per seguire Xavi, più per schermare Busquets, invertendolo con Stankovic, poi nel secondo tempo passerà al 442 sostituendo Cambiasso con Muntari e tentando di pressare l’inizio azione del Barca, ma in maniera inefficace.

Il 4231 della svolta

L’andata degli ottavi contro il Chelsea, nonostante la vittoria per 2-1, confermerà la difficoltà nel difendere l’ampiezza e i mezzi spazi, specialmente quello di destra (come si può evincere pure dalla heat map di quella sfida). Per tamponare queste falle contro il club londinese il tecnico portoghese aveva operato una mossa controintuitiva, ossia Balotelli al posto di Thiago Motta, con conseguente passaggio al 442, in modo da garantirsi una copertura più omogenea degli spazi, malgrado due attaccanti come Eto’o e “Super Mario” sugli esterni. In realtà non si trattava di una novità assoluta: nel corso della stagione Mourinho l’aveva già utilizzato a partita in corso anche per il motivo inverso, ossia sbilanciare la squadra per recuperare situazioni di svantaggio. Inoltre a inizio 2010 l’aveva sperimentato dal 1’ durante l’assenza di Eto’o, impegnato in Coppa d’Africa, con Pandev e lo stesso Balotelli larghi, più Sneijder dietro a Milito nelle gare contro Chievo, Siena e Bari.

L’allora direttore sportivo Marco Branca ha dichiarato che lo “Special One” aveva avuto il merito di convincere anche Eto’o a giocare sulla fascia, nonostante i malumori iniziali. Una scelta molto forte, perché l’Inter stava sostituendo una mezzala con una punta decentrata – due, se consideriamo che pure Pandev è a sua volta un attaccante – che inevitabilmente ne sbilanciava il baricentro. Il camerunense comunque agiva da laterale solo nominalmente, in quanto in fase offensiva, una volta che la palla era uscita dalla difesa, stringeva posizionandosi alla stessa altezza di Milito. Se Eto’o accentrandosi apriva il campo a Maicon, sull’altro lato invece Pandev, che dietro di lui aveva un difensore più conservativo, come Zanetti o Chivu, tendeva a restare più aperto.

Nell’ottavo di ritorno con il Chelsea, Maicon riceve da Pandev e avanza, mentre il match winner Eto’o attacca il centro dell’area.

Complessivamente il contributo in fase difensiva dell’ex Barcellona potrebbe essere stato sovradimensionato: nei duelli individuali appariva spesso irruente, non sempre preciso nelle spaziature, anche perché tendeva a farsi attirare fuori posizione dalla palla, e in possesso a volte si dimostrava troppo individualista nelle giocate, ma la sua disponibilità a cambiare ruolo resta tuttora un gesto incredibile, a maggior ragione dopo che l’anno precedente con Guardiola si era rifiutato di fare l’esterno per lasciare il centro a Messi. La sua posizione però ha permesso all’Inter di occupare meglio l’ampiezza, con i suoi tagli che costituivano delle situazioni di difficile lettura per gli avversari, che si ritrovavano a fronteggiare un attaccante sinuoso e travolgente in spazi ancora più ampi. Ma soprattutto ha consentito ai futuri campioni d’Europa di rendere sostenibile questo sistema e assecondare la natura verticale e reattiva di una squadra che preferiva attaccare in ripartenza con molto campo davanti piuttosto che in maniera posizionale. Alla fine, del 4231 con cui partiva l'Inter sulla lavagnetta in realtà sul campo rimaneva in fase di possesso una sorta di 4213 asimmetrico, con Pandev più largo di Eto’o e Sneijder a raccordare i reparti.

È stato un peccato che il prime dell’olandese sia durato lo spazio di quella stagione, al termine della quale trascinerà l’Olanda fino alla finale dei mondiali, per poi classificarsi al quarto posto nella classifica del Pallone d’oro, perché ciò che ha fatto vedere in quell’annata a livello di creatività, rifinitura e finalizzazione è qualcosa di irripetibile. Snejider in Champions League è stato il giocatore con più assist, 6, e il secondo per passaggi chiave complessivi, 33 (3 passaggi chiave per 90 minuti), il primo della rosa per passaggi tentati, 43,2 per 90 minuti, davanti a Thiago Motta (39,9), e il secondo per tiri effettuati (3) dietro a Balotelli. Il centrocampista olandese, per far capire la sua influenza in quella stagione, è stato il giocatore con più passaggi chiave in Serie A per 90 minuti (3,6).

Sneijder era il perno della fase offensiva, il riferimento principale a cui appoggiarsi una volta recuperata palla: ad esempio dopo la riconquista a opera dei mediani, l’olandese si posizionava nel cono di luce, tendenzialmente sulla verticale rispetto al portatore di palla o comunque appena decentrato, oppure si avvicinava a una punta nel caso cercasse un’opzione per lo scarico. Poi con la sua sensibilità nello scansionare i tempi dell’azione, valutava se consolidare il possesso, allargare in fascia o ancora meglio verticalizzare per uno o più attaccanti che puntualmente scattavano in profondità.

La fase offensiva dell’Inter in due screen. Cambiasso recupera palla e serve Sneijder, contestualmente attaccano la linea difensiva Pandev, Eto’o e Milito. Nel secondo Pandev ruba palla a Robben, scarica per Cambiasso che di prima verticalizza per Milito, lanciato nello spazio alle spalle di Van Buyten.

L’ex Madrid fluttuava da solo nel secondo terzo di campo, data l’inclinazione di quella formazione a difendere con un blocco medio-basso per poi allungarsi quando attaccava in contropiede. Nelle sfide europee Mourinho non alzava mai troppi giocatori in fase offensiva (generalmente manteneva 3 difensori e i due centrocampisti centrali più bassi a presidio del centro) né li avvicinava troppo, al contrario gli chiedeva di prendere campo alle spalle delle linee di pressione. Spesso dunque si veniva a creare una certa distanza tra i singoli, a cui il tecnico delegava ampie libertà.

A volte sembrava veramente che l'Inter non avesse studiato azioni che non fossero pensate oltre il secondo uomo, che doveva tentare una giocata individuale o ricorrere a un passaggio lungo, ma forse gli allenamenti di Mourinho erano stati interiorizzati a tal punto dai suoi giocatori che il passatore e il ricevitore riuscivano ad associarsi naturalmente con gesti tecnici complessi, ma pienamente nelle loro corde. Se è vero che in Europa la squadra di Mourinho non arrivava al tiro più di 12,83 volte a partita (21esima della competizione), va riconosciuta l’abilità nel prendersi dei buoni tiri a livello qualitativo e nel convertire quelle occasioni in gol con pochissimi tocchi.

In questo senso il gol di Maicon in casa dell’Udinese rappresenta un manifesto programmatico dello stile dell’Inter 2009/10: l’azione può apparire casuale, perché il passaggio di ritorno di Milito forse era diretto allo stesso Maicon, che invece verrà servito da Pandev. Ma quell'Inter era una squadra in grado di ribaltare il campo in contropiede in maniera repentina, che sapeva cercarsi e trovarsi di prima, fondendo smarcamenti a giocate individuali e collettive sublimi. Alla base della fase di possesso, sia di attacco posizionale che di transizione, non sembrava esserci un substrato tattico particolarmente sofisticato o ancora delle situazioni codificate che andassero oltre la già citata ricerca della profondità dopo la riconquista. Erano invece la tecnica e le caratteristiche dei singoli a determinare lo sviluppo della manovra.

Maicon ad esempio costituiva un’uscita sicura sul lato destro, che l’Inter sfruttava con continuità per risalire il campo. Il brasiliano aveva uno strapotere fisico e tecnico tale che agiva come esterno a tutta fascia, o meglio come fulcro creativo, influente quanto Sneijder e Thiago Motta nel generare occasioni. Per quantificarne l’impatto basterebbe ricordare che dopo il suo arrivo Zanetti, per un decennio il terzino destro dell’Inter, è stato spostato a sinistra o alzato a centrocampo. Il 2009/10 ha coinciso con il picco di un quadriennio in costante crescita, che l’ha consacrato a miglior laterale destro al mondo assieme a Dani Alves. In quella stagione, scandita da 7 reti e 12 assist, restituiva una sensazione ai limiti dell’onnipotenza ad ogni avanzata sulla fascia: il difensore si inseriva nello spazio aperto da Eto’o, giocava palla su un compagno più avanzato e poi dettava il passaggio di ritorno andando sul fondo, sul vertice dell’area oppure attaccando lo spazio tra terzino e centrale di sinistra per chiudere l’azione in prima persona.

L'immagine che meglio sublima quello strapotere atletico e tecnico sugli avversari è ovviamente il gol alla Juventus a San Siro. Con una calma del tutto irreale per il contesto in cui si sviluppava l’azione, ossia la respinta corta di Felipe Melo in seguito a una punizione laterale, ha eseguito tre palleggi, due di coscia e uno di collo piede, con cui ha spezzato il ritmo di quel frangente, mandato a vuoto Amauri e preparato un destro di collo esterno imparabile. Tra il primo controllo e il tiro passano almeno due secondi, un’eternità in una situazione in cui chi ha palla è solitamente portato a disfarsene subito. Invece Maicon sembra aver azzerato tutto ciò che lo circonda per mettersi nelle migliori condizioni di calciare, una forma di riflessività che sembra impensabile associarla a un giocatore come lui.

In campionato comunque il 4231 è stato poco utilizzato probabilmente perché non serviva una soluzione così estrema, o meglio l’Inter volente o nolente non poteva giocare il suo calcio diretto contro avversari che la aspettavano bassa e le lasciavano la palla. Da qui la scelta di schierare un altro centrocampista (Stankovic, Muntari o Mariga) per provare a conservare maggiormente il possesso e confermare dunque il 4312, che nelle ultime giornate di campionato diventerà un 433 con due punte ai lati di Milito.

Una migliore copertura del centro

C'è da dire che il 4231 garantiva grandi vantaggi anche in fase difensiva. Ad esempio il centrocampo a 2 offriva una migliore copertura del centro rispetto al centrocampo a 3. Inoltre il doppio mediano ha riportato Thiago Motta in un ruolo più consono alle proprie caratteristiche, sia in termini di spaziature che di compiti (protezione della difesa e gestione dell’uscita palla). Thiago Motta e Cambiasso non solo difendevano la loro zona di competenza, ma erano formidabili nel coprire gli esterni alti e i difensori. Entrambi hanno svolto un lavoro oscuro quanto provvidenziale in una squadra che senza di loro probabilmente avrebbe perso qualsiasi tipo di equilibrio.

I due centrocampisti si spartivano il campo in orizzontale: Cambiasso copriva la metà di destra, Thiago Motta quella di sinistra. Se è vero che il lato sinistro tendeva a rimanere più ancorato alle proprie posizioni, sulla destra Eto’o e Maicon si alzavano con continuità e il “cuchu” doveva scivolare lateralmente o arretrare per compensare i loro movimenti. L’Inter era una squadra dall’equilibrio precario, con una fascia destra potenzialmente vulnerabile nelle transizioni difensive, ma che riusciva comunque a mantenere la linea difensiva ordinata grazie alle straordinarie capacità di lettura e intervento dell’argentino - primo in rosa per intercetti in CL, 4,1 per 90 minuti, e secondo per tackle, 3,3 per 90 minuti - che in quella stagione sarà più presente e determinante nel proprio terzo di campo che in quello avversario.

Transizione difensiva gestita in maniera eccellente da Cambiasso, che copre Maicon e ripristina la difesa a 4.

Non è un caso che dal cambio di sistema, la partita in cui i nerazzurri andranno in maggiore difficoltà sarà la finale contro il Bayern Monaco, quella in cui Cambiasso non ha agito da equilibratore del versante destro: la squalifica di Thiago Motta aveva infatti costretto Mourinho ad avanzare Zanetti, preferito a Stankovic in mezzo al campo, con conseguente spostamento di Cambiasso sul centro sinistra e inserimento di Chivu in difesa. L’Inter soffrirà la posizione asimmetrica delle ali del Bayern, Robben a destra e Hamit Altintop a sinistra: l’olandese, che amava ricevere sulla linea laterale per poi convergere – e su cui non poteva uscire Cambiasso, che si doveva occupare di coprire il centro, assorbendo i movimenti a uscire di Muller o gli inserimenti di uno dei due mediani a possesso consolidato - verrà contenuto a stento da Pandev e Chivu (sostituito nella ripresa da Stankovic, con relativo abbassamento di Zanetti nella posizione di terzino sinistro), mentre Zanetti e Maicon non riuscivano a leggere le ricezioni del turco nel mezzo spazio di sinistra, ovvero la zona che è sempre stata di competenza di Cambiasso.

Schweinsteiger premia il taglio di Altintop, che riceve nella zona di conflitto tra Zanetti e Maicon.

Se non era l’argentino a scivolare sulla destra, toccava a Lucio aprirsi, con uno dei due centrocampisti che scendeva tra i centrali, solitamente Cambiasso, mentre Thiago Motta, meno preposto alla marcatura, accorciava in zona palla per chiudere il centro del campo posizionandosi al limite dell’area. In ogni caso Lucio era sempre pronto a coprire Maicon quando veniva puntato (ed eventualmente raddoppiarlo, con Samuel che invece rimaneva sulla punta avversaria) e la sua uscita veniva compensata appunto da un centrocampista.

Nell’ottavo contro il Chelsea Maicon viene puntato da Malouda e Kalou, ma viene sempre coperto da Lucio e uno dei due mediani.

Tra Lucio e Cambiasso pareva essersi innescata un’intesa telepatica, per la capacità di coordinarsi e interpretare quelle situazioni in cui occorreva ripristinare la struttura difensiva. E lo stesso si può dire anche di Lucio e Samuel. Il brasiliano arrivato dal Bayern Monaco, oltre che un upgrade rispetto a difensori in fase calante come Cordoba e Materazzi (71 anni in due nel 2010) costituiva un profilo più complementare a Samuel. Anche i numeri aiutano a comprendere lo stile differente: Lucio era estremamente esuberante e portato a rompere la linea difensiva, mentre Samuel negli anni era diventato sempre più conservativo e tecnico nella gestione delle letture. La linea guida era quella di orientarsi sull’uomo lontano dalla porta, mentre in area i riferimenti principali si trasformavano nella palla e nel compagno. Iconica la marcatura che i due centrali, Samuel nello specifico, hanno riservato a Ibrahimovic nella doppia semifinale contro il Barcellona, con lo svedese che è stato seguito ogni volta che si abbassava per cercare palloni giocabili fino a essere annullato. Tra andata a ritorno toccherà appena 47 palloni, il dato peggiore in una squadra da cui era avulso, senza completare neanche un dribbling.

La forza dei suoi due centrali permetteva all'Inter di reggere anche lunghe fasi di difesa posizionale. Con un blocco medio-basso composto di base da 4 difensori e due centrocampisti, era capace di costruire un fortino inespugnabile a ridosso dell’area, ma soprattutto dava l’idea di esaltarsi nella sofferenza. Non era una difesa passiva irreprensibile a livello di spaziature, anche perché non sempre riusciva a coprire bene l’ampiezza, e concedeva diversi tiri (13,6 a partita nella Champions League 2009/10, saliti a 14,83 nelle ultime 6 gare, quelle successive al passaggio al 4231). Ma di quei 14,83, solo 3,5 erano diretti verso la porta e ben 5 venivano respinti, oltre un terzo, mentre in fase offensiva 5,16 finivano in porta sui 12,83 totali. Statistiche clamorose, frutto del talento e dell’autosufficienza dei singoli, straordinari nei recuperi, nelle coperture e nel frapporsi tra palla e porta, quasi come se avessero un’attrazione magnetica nei confronti della sfera. Come in fase di possesso, erano le caratteristiche e i gesti dei singoli a definire il contesto e colmare le eventuali lacune del collettivo.

E poi dove non arrivavano i difensori, ci pensava Julio Cesar. Arrivato nel 2005, un po’ come Maicon ha alzato progressivamente il livello delle sue prestazioni, ergendosi in quell’annata a miglior portiere in circolazione. Del portiere brasiliano impressionavano la compostezza e la qualità tecnica degli interventi anche nelle situazioni più concitate, così come la capacità di estensione (a questo proposito, riguardatevi la parata sul tiro di interno di Messi nella semifinale di ritorno di CL da dietro la porta) e compressione. Nei tiri sulla figura era pressoché insuperabile, anche quando sembrava preso in controtempo, grazie a un’esplosività e un levagamba eseguito in maniera magistrale.

Una nuova consapevolezza

«La partita con il Chelsea è stato probabilmente il momento chiave il cui la gente ha iniziato a crederci», ha raccontato Mourinho «La vittoria a Stamford Bridge ci ha permesso di fare quello scatto decisivo». Il ritorno degli ottavi con il Chelsea, in cui i nerazzurri hanno espugnato 1-0 lo stadio londinese, ha effettivamente rappresentato lo spartiacque della stagione. Non soltanto perché si trattava della prima uscita europea con il 4231, ma perché dopo una partita d’andata vinta con grande fatica, hanno dimostrato di potersi imporre in casa di una delle squadre candidate alla vittoria finale, sia nel punteggio che come piano gara. I campioni d’Italia hanno saputo difendersi bassi e attaccare in campo lungo, restituendo per la prima volta quell’idea di coesione e consapevolezza, così come quella capacità di interpretare le varie fasi della partita e portare gli episodi dalla propria parte, componente fondamentale nelle sfide a eliminazione diretta.

Superato il quarto di finale con il CSKA Mosca di slancio (2-0 nell’aggregata), l’Inter si è ritrovata di fronte nuovamente il Barcellona. A dispetto della squadra timida e confusa del girone, i nerazzurri hanno approcciato la semifinale con un’aggressività sopra la media e una strategia molto chiara. La fase difensiva era modellata sulla posizione di Messi: Guardiola aveva apparecchiato un 4411 asimmetrico, con Keita falso esterno di sinistra chiamato ad accentrarsi per creare superiorità numerica in mezzo, e Pedro e Dani Alves sulla destra a liberare il 10 argentino, che inizierà la partita appena spostato sul centro sinistra per provare a smontare la gabbia interista.

Niente marcatura a uomo, Mourinho aveva progettato un quadrilatero con cui sporcare le ricezioni di Messi e chiudergli le linee di passaggio.

La strategia pensata da Mourinho, però, alla fine ha funzionato. Messi ha completato appena 4 dribbling su 10, pochi per i suoi standard, e verrà controllato egregiamente da quei quattro giocatori che lo circondavano e a turno lo prendevano in consegna. Se ad esempio Thiago Motta usciva su Xavi, Cambiasso si spostava sulla sinistra per seguire il 10. L’Inter alternava fasi di difesa posizionale a un pressing alto, con il quale voleva contrastare l’inizio azione dei catalani ed evitare che la palla arrivasse ai centrocampisti. Sulla costruzione bassa del Barcellona la prima linea di pressione, formata da Milito, Sneijder e i due esterni, si orientava sui 4 difensori, in modo tale da schermare Busquets e forzare i blaugrana allo scarico laterale o alla giocata lunga.

Se Sneijder si posiziona su Busquets, tocca a Eto’o alzarsi sull’altro difensore centrale, Puyol, che in quest’azione sta per controllare il passaggio di Piqué.

Se invece la sfera arrivava ai centrocampisti, l’Inter ripiegava sotto la linea della palla con due linee da 4 piuttosto basse, in cui però i centrocampisti uscivano forte su palla chiusa. L’obiettivo era recuperare la sfera e andare il prima possibile in profondità e infatti in quella gara i nerazzurri effettueranno 65 lanci contro i 38 degli spagnoli, ma solo un passaggio chiave in meno (6 vs 7). Una verticalità brutale, sublimata dal secondo e dal terzo gol nati da due recuperi palla di Thiago Motta.

Nella leggendaria partita di ritorno, al Camp Nou, gli uomini di Mourinho sono rimasti in 10 per oltre un’ora dopo l’espulsione di Motta, che li costringerà a disporsi con un 441 commuovente, che occuperà ermeticamente il proprio terzo di campo, sterilizzando i padroni di casa, che prima del gol di Piqué all’83’ avevano tirato solo 3 volte in porta. Il centrocampo con Cambiasso e Chivu centrali, ma soprattutto Eto’o e Milito esterni, appariva come la trasposizione sportiva della storia sulla struttura alare del calabrone inadatta al volo. Quel 441 (divenuto a un certo punto della ripresa persino un 432, con Milito e Sneijder in attacco e il solo Maicon sulla destra) con due centravanti in fascia, un fantasista come riferimento avanzato e un difensore in mezzo al campo resisterà strenuamente agli attacchi di un Barca sempre più piatto e sfiduciato, a cui i nerazzurri avevano prosciugato linfa vitale azione dopo azione.

Il 441 si trasformava anche in un 621 nei momenti più disperati.

La struttura fluida dei catalani non riusciva più a disordinare la fase difensiva avversaria come nel girone eliminatorio, al contrario è stata costretta a una serie di cross infruttuosi, ben 42. Quando il Barca andava in fascia Milito ed Eto’o difficilmente accettavano l’uno contro uno e stringevano verso il centro per compensare l’eventuale uscita del centrocampista centrale.

La finale è stata forse una delle prove meno brillanti di quella squadra, che però anche in quei frangenti apparentemente problematici dimostrava di poter tenere il campo e accettare di perdere il controllo della partita, salvo poi portare dalla propria parte gli episodi nei momenti topici con estremo cinismo. In quel 2009/10 l’Inter era effettivamente capace di rendersi pericolosa in ogni istante, in fondo le bastava un contropiede estemporaneo per colpire.

E in questo senso è impossibile non sottolineare l'importanza di Diego Alberto Milito, nella finale autore di una doppietta che gli permetterà di arrivare a quota 30 gol stagionali. Sensazionale il suo tasso di conversione in Champions: 6 gol (di cui 4 nella fase ad eliminazione diretta) su 19 tiri complessivi, in pratica una rete ogni 3 conclusioni. Del "principe" vanno ricordati la finalizzazione e il primo controllo, che gli consentiva di mettersi nelle condizioni ideali per puntare l’uomo o aprirsi direttamente lo spazio per il tiro, ma anche aspetti meno appariscenti del suo gioco, come la sua applicazione in fase difensiva (0,6 tackle e 1,4 falli fatti in CL), per esempio quando si abbassava sulla linea dei centrocampisti per coprire Eto’o, nei casi in cui si trovava fuori posizione. L’argentino, al primo anno in una grande squadra, non solo ha confermato la propria prolificità, ma si è rivelato decisivo nelle partite decisive, come la finale di Champions, quella di Coppa Italia (1-0 alla Roma) e l’ultima giornata di campionato (1-0 al Siena), risolte grazie ai suoi gol.

Apogeo e declino

Dopo aver raggiunto l’apice, per l’Inter è iniziata una rapida discesa. L’anno successivo ha sì conquistato la coppa Italia, ma ha deragliato nel mese di aprile, in cui è uscita dalla lotta scudetto dopo aver perso malamente lo scontro diretto col Milan (0-3), venendo poi eliminata dalla Champions dallo Schalke 04 nei quarti con un pesante 3-7 tra andata e ritorno. I nerazzurri non riusciranno a gestire il delicato ricambio di una rosa scarica a livello motivazionale e anagraficamente vecchia, con tanti over 28 e over 30 confermati in blocco. Passeranno 6 anni prima che l'Inter tornerà a disputare la Champions League, addirittura 9 per vederli competere nuovamente per lo scudetto.

Anche per Mourinho, che vincerà comunque altri 8 titoli tra Spagna e Inghilterra, il triplete rimane il punto più alto della carriera. Al Real Madrid riuscirà a tenere testa a una delle squadre più forti della storia, il Barcellona di Guardiola, trascinando il tecnico catalano in una guerriglia verbale epica, ma la sua comunicazione, per quanto funzionale in quel momento storico a contrastare l’egemonia barcellonista e portare Pep su un piano, quella della polemica, a lui poco congeniale, risultava probabilmente poco adatta all’ambiente madridista. Porsi come l’anti-Barcellona accentrando su di sé l’attenzione strideva con la filosofia societaria, imperniata sul senorio e votata all’egemonia del calcio mondiale attraverso la promozione di un brand e di una storia gloriosa che venivano prima di qualunque altro giocatore, allenatore e avversario. In altre parole, Mou era come se fosse passato dall’opposizione al governo, ma ciò nonostante continuava ad applicare gli stessi artifici retorici.

Se nel precedente decennio si era imposto come una delle proposte più fresche e vincenti, grazie ad esempio all’introduzione della periodizzazione tattica, gli ultimi anni ne stanno segnando lentamente il tramonto, caratterizzato da un calcio troppo conservativo per poter essere ancora attuale. Anche la sua comunicazione, scandita via via da polemiche sempre più goffe e incoerenti, si è fatta meno ficcante, al punto da ridurlo quasi a una caricatura di sé stesso. Nonostante ciò, quello che ha lasciato l'Inter di Mourinho alla storia del calcio non è cancellabile, né da un punto di vista tattico né tanto meno emotivo.

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