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Diego Guido
Come è cambiato il mestiere del portiere, intervista a Villiam Vecchi
01 giu 2018
01 giu 2018
Villiam Vecchi è lo storico preparatore dei portieri di Carlo Ancelotti e nella sua carriera ha allenato Buffon, Dida e Casillas, tra gli altri.
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Villiam Vecchi non è un nome noto, come non lo è praticamente quello di nessun preparatore dei portieri. Nonostante svolgano un lavoro fondamentale, lo fanno dietro le quinte senza prendersi mai la luce dei riflettori. Vecchi è lo storico preparatore dei portieri dello staff di Ancelotti, e tra gli altri ha allenato Buffon, Dida, Casillas, Navas. Adesso, però, è tornato a Reggio Emilia.

 

Prima di cominciare l’intervista scambiamo preamboli sopra ai nostri passi sulla ghiaia: «Da dove arrivi?», «Mantova», «Siamo quasi conterranei allora». Ci avviciniamo all'ingresso della nuova sede della Reggiana, una bella cascina ristrutturata da poco, alle porte di Reggio Emilia, uno dei primi segni strutturali dell'ambiziosa

. Nell'atrio un gruppetto di dirigenti e tecnici sta chiacchierando. Appena vedono Villiam, lo salutano con quel genere di sorrisi e abbracci che di solito riservi a qualcuno che è più di un collega.

 

Villiam Vecchi è di Scandiano, un paese ai piedi dell'Appennino Emiliano ad un quarto d'ora da Reggio. È tornato a viverci stabilmente da tre anni, da quando ha dovuto lasciare il Real Madrid assieme a Carlo Ancelotti. Ora è il coordinatore tecnico dei portieri di Berretti e Under 17 della Reggiana. La naturalezza con cui vive il contesto della Serie C suggerisce che gli anni al fianco di Carlo - come lo chiama lui - a Parma, a Torino, a Milano e a Madrid non lo hanno cambiato più di tanto. «Tre anni fa, ogni giorno guidavo per raggiungere Valdebebas. Ora guido da Scandiano a qui. A volte ci penso, ma senza nessun rammarico. Anzi, mi dico “Che culo che ho avuto a stare così tanti anni ad altissimi livelli”». Dalle sue parole traspare l'orgoglio per i risultati ottenuti e le pressioni che è riuscito a gestire, ma si sente anche il sollievo di poter vivere un presente meno caotico.

 

Il fatto che nessuno con meno di cinquant'anni abbia sentito parlare della sua carriera da giocatore la dice lunga su quanto sia lontana. Con le maglie di Milan, Cagliari, Como e SPAL ha giocato 252 partite, tra il 1967 e il 1982. In rossonero vinse, tra le altre cose, una Coppa dei Campioni e un'Intercontinentale. Gli chiedo se ci sia stato qualcosa della sua esperienza da portiere che gli sia tornato utile nel ruolo di allenatore. «L'approccio mentale alla partita, e francamente poco altro. Il calcio di allora e quello di oggi sono due sport diversi. Velocità, fisico, tempi di gioco. Difficile trovare punti comuni». Com’è riuscito allora a toccare livelli tanto alti dentro ad un calcio agli antipodi di quello in cui si è formato lui? «Aggiornandomi. Nessun'altra ricetta».

 



La trasformazione dall'essere un portiere ad allenare altri portieri non l'aveva pianificata: «A volte nella vita le cose s'incastrano in modo sorprendente». Pochi giorni dopo l'addio al Modena, rientrato a Scandiano, era passato dal campo d'allenamento della Reggiana per un saluto a Fogli, a quel tempo allenatore della squadra e suo ex compagno al Milan. «Quindi adesso non fai niente?» - «Niente» - «Perché non vieni a darci una mano con i portieri? Cominci quando vuoi e decidi tu cosa fargli fare».

 

Ha accettato. La Reggiana allora era in B e per la cadetteria avere l'allenatore dei portieri era una lussuosa avanguardia. «Era una figura che aveva solo qualche squadra in Serie A. In B praticamente nessuno». Vecchi inizia a prendere confidenza con il ruolo. Capisce che gli piace avere i tre legni di fronte e non più attorno, e si accorge anche che ci sa fare. L'avventura, però, dura solo qualche settimana perché Fogli di lì a poco viene esonerato. Al suo posto arriva Fabbri, che ha una visione più antica del calcio e della composizione dello staff: «Mi ritrovavo a stare con le mani in mano, solo a raccattare palloni. Ho salutato e me ne sono andato».

 

Il vero inizio della sua carriera da allenatore dei portieri in realtà è nella la stagione '87/'88, sempre alla Reggiana. «C'era Marchioro in panchina. Con lui ho trascorso quasi dieci anni, l'ho seguito in diverse squadre. Poi le nostre strade si sono separate quando ci hanno esonerati dal Venezia nel 1995». Marchioro stava per concludere la sua carriera in panchina e così Vecchi aveva accettato la proposta del Parma per la stagione successiva. «Ho firmato in primavera, quando era praticamente certo che a luglio la squadra sarebbe passata a Capello». In quel momento il mister friulano era probabilmente l'allenatore migliore d'Europa, dopo aver vinto tre scudetti e giocato tre finali di Champions League nelle ultime quattro stagioni.

 

Ma Capello non arrivò mai perché all’ultimo momento decise di prendere la strada per Madrid, accettando l'offerta del Real: «I casi della vita. Non lavorare con Capello poteva sembrare un'enorme occasione persa. E invece no. Il Parma fu costretto a ripiegare su Carlo e lì è iniziata la nostra lunga collaborazione».

 

Il rapporto tra Vecchi e Ancelotti va al di là della stima professionale. E non è retorica perché i due sono legati da una vera amicizia. Nel 2010, quando Ancelotti era al Chelsea, suo padre era già da tempo ricoverato in una casa di riposo del reggiano. All'improvviso le sue condizioni peggiorarono e fu necessario il ricovero all'ospedale di Baggiovara. In quelle settimane

in più di un'occasione, un favore che contempla un’intimità che solo tra amici è normale offrire e accettare.

 





 

Un legame che ha resistito nonostante la sua assenza sia a Londra, sia a Parigi. «Non l'ho seguito al Chelsea e nemmeno al Paris Saint-Germain per problemi familiari. In quel momento non me la sentivo di allontanarmi talmente tanto da casa. Continuare a lavorare a Milano mi permetteva di tornare spesso qui». Eppure all'inizio di ogni avventura Ancelotti aveva sempre tentato di convincerlo a seguirlo. Fino a quando ci riuscì. «Ero andato a trovarlo per un paio di giorni a Parigi e mi aveva detto che l'anno successivo sarebbe probabilmente andato al Real Madrid. Da un lato mi stuzzicava l'idea, dall'altro c'era sempre la lontananza da casa». Una manciata di settimane più tardi Ancelotti deve comunicare al club di Madrid i componenti definitivi dello staff che sbarcherà con lui a Valdebebas e tra loro c’è anche Villiam Vecchi.

 



Chi lavora nello staff ha lo svantaggio di non potere spiegare mai all'esterno le sue ragioni. Certo, questo è anche un vantaggio perché evita ai collaboratori tutte quelle pressioni e quelle responsabilità derivanti da conferenze stampa e interviste. Alla fine, le dichiarazioni pubbliche e le responsabilità ultime spettano all'allenatore. Un bell’aneddoto riguardo ai rapporti che intercorrono tra allenatore e staff in questo ambito riguarda la stagione 2013/14, la prima di Vecchi e Ancelotti a Madrid, quella conclusa a giugno con la “Decima”.

 

Uno dei problemi principali lasciati da Mourinho a Ancelotti era proprio in porta. Con l’allenatore portoghese, infatti, nelle partite di Liga Casillas era stato declassato a riserva di Diego Lopez, il portiere rientrato a Madrid quasi per caso dopo gli anni a Villareal e Siviglia. Mourinho era stato accusato di mancanza di rispetto per un monumento del madridismo e Ancelotti era atteso al varco in primo luogo su questo argomento. Come avrebbe risolto la situazione della titolarità tra i pali nella sua veste di “

? In quell'intreccio, Vecchi era il quarto attore coinvolto: invisibile al pubblico, eppure uno dei più importanti.

 

La situazione era talmente tesa che aveva portato ad una sorta di “balcanizzazione” del Bernabeu. La curva contestava Casillas e sosteneva Lopez, il resto dello stadio faceva il contrario. «Mi vedevano in giro e mi gridavano

Io ogni volta rispondevo

e tiravo dritto». Vecchi veniva attaccato anche sulle piccole tv private: «Quelle erano le peggiori». Tra le voci che giravano in quel periodo, mai confermate, c'era anche quella di

, in cui il costaricense si lamentava di metodi d'allenamento antiquati, accusandolo indirettamente di essere inadeguato per quel ruolo.

 


Apologia di Villiam.


 

Paradossalmente, però, Villiam mi racconta che l'età fu un fattore chiave per superare al meglio quelle due stagioni: «Soprattutto la prima. Se al mio posto ci fosse stato uno con meno esperienza non ne sarebbe uscito. Juventus e Milan erano piazze con grandi pressioni, ma il primo anno a Madrid non ha eguali. Fortunatamente ero attrezzato per reggere l'urto».

 

Il caso Lopez-Casillas fu risolto dichiarando apertamente che il primo sarebbe stato il titolare in Liga mentre il secondo avrebbe giocato in Champions League: «Merito di Carlo. Fosse stato per me non lo avremmo mai fatto, lui però è più bravo e intelligente e ha avuto ragione. Ha funzionato molto bene». Quindi lei non era d'accordo? «Ha scelto lui ed è stato giusto così». Tento di chiedergli allora se il dogma delle gerarchie definite in porta, con un primo e un secondo portiere stabiliti per tutto il corso della stagione, vada abbattuto: «Io rimango di quell'idea, anche se riconosco che a volte vadano fatte valutazioni che tengono conto di più fattori. E comunque l’altra strada poi è stata seguita anche da altri. L'ha fatto il Barcellona con Bravo e Ter Stegen». Nessun fondamentalismo, insomma.

 



La ripida discesa dalla decima ai ragazzi della Reggiana ha una certa logicità se si tiene conto della sua età: «Dopo l'esonero dal Real avevo 67 anni. Il lavoro sul campo non mi ha mai stancato, iniziava invece a pesarmi tutto il resto. Visionare la partita, visionare quella dei prossimi avversari, montare i video da mostrare ai portieri e le altre cose da preparare». Eppure non è la prima volta che si ritrova a cambiare livello d’improvviso. Era già successo al Milan, con l’avvento di Allegri, quando era passato dai professionisti ai ragazzini. Quando gli chiedo di questi cambiamenti, però, sembra non capire la domanda: «Per come intendo io il mio lavoro, non è così strano. Ovvio che in un caso lavori più sulla tecnica di base e nell'altro sui dettagli. Però l'impegno che ho messo è stato identico. Quindi non le ho mai viste come esperienze così lontane. Ho sempre fatto quel che c'era da fare».

 

Mi chiedo se al Milan, alla luce del suo curriculum e della sua conoscenza dell'ambiente, non gli sia dispiaciuto di non poter rimanere ad allenare la prima squadra anche con Allegri: «Non poteva accadere perché Allegri aveva già Landucci con sé, è così. Ogni allenatore ha uno staff di persone fidate. Se si trovasse a lavorare esclusivamente con dipendenti della società avrebbe meno garanzie di coesione dentro al gruppo di lavoro. In situazioni delicate, un dipendente starebbe sempre dalla parte della società, il datore di lavoro».

 

Gli ultimi dieci minuti della nostra intervista li spendiamo a parlare dei metodi di lavoro, su cosa serva allenare quando si hanno di fronte professionisti di livello mondiale. «Se ti dico che ti voglio bene, che sei bravo, che sei forte, per forza tu giochi meglio». La sua frase sembra lapalissiana, ma l'ovvietà sparisce non appena si addentra in un aneddoto molto più preciso. «Non so se ti ricordi l'

accaduto a Dida. Può spiegare molte cose della testa di un portiere». Dice

dando una sfumatura passiva all'episodio, come se Dida non ne fosse autore ma vittima. Vecchi attribuisce le ragioni della sciocchezza compiuta dal brasiliano al costante fuoco delle critiche a cui era sottoposto ormai da mesi. Gli chiedo se a quei livelli un portiere non dovrebbe esserci abituato: «Certo. Poi però va considerata la sensibilità della persona e la mole di critiche subite. In quel periodo per lui era davvero pesante».

 

Nella prima esperienza al Milan, Dida era sparito dal campo dopo nemmeno dieci partite. Aveva fatto una

(anche Vecchi le chiama così)

che era costata al Milan la sconfitta all'88esimo minuto e a lui l'etichetta di portiere scarso. In quel momento Vecchi era ancora alla Juventus con Ancelotti. Il portiere brasiliano lo incontrerà per la prima volta nell'estate del 2002: «Già dai primi allenamenti ho capito che era molto più forte della fama che aveva. Tra tutti i portieri che ho allenato, il migliore a livello tecnico è stato lui». Nemmeno la storia del fumogeno come inizio della fine della parabola di Dida secondo lui sta in piedi: «La mattina dopo eravamo già in campo ad allenarci. Non ha nessun senso pensare che lo abbia condizionato. Semplicemente ha iniziato gradualmente a perdere tranquillità».

 





 

La questione delle critiche dei media, che tendono a concentrarsi sui portieri spesso ingiustamente, lo accende. Mi dice che spesso nascono da semplice incompetenza. «Ultimamente qui a Reggio criticano Facchin, il portiere della prima squadra, perché ha preso più di un gol da dentro l'area piccola. Dicono che se prendi gol da lì la colpa è del portiere. Ma tu lo sai quanti metri quadrati misura l'area piccola?» Ammetto che no, non lo so. «Spara. Una stima a spanne». Ci penso un attimo e butto lì un «quaranta, quarantacinque». Vecchi si alza di scatto, cerca qualcosa su cui scrivere, poi trova una lavagna su cui disegna una porta, l'area di rigore e l'area piccola. Alla fine scrive il risultato: 100,76 mq. «Più di un trilocale. Tu non hai idea di quante cene ho vinto con questo indovinello». Mi dice che è assurdo parlare genericamente di gol nell'area piccola: «Non vuol dire nulla. Da dove hanno calciato? A quale altezza era il pallone? A che velocità andava?».

 

Secondo Vecchi oltre alle due alternative preparatore e allenatore dei portieri, andrebbe aggiunta anche una terza definizione, quella di psicologo dei portieri. Il compito è lavorare anche sulla mente. Gli parli, costruisci un rapporto. Un allenatore può permettersi di non parlare con un giocatore per due giorni, tre giorni. Un allenatore dei portieri no. Sei sempre occhi negli occhi con lui. Devi capire come approcciarti, se scuoterlo o dargli sicurezza». E non si tratta solo di psicologia, ma anche di aspetti tecnici. «Alcuni portieri li ho cambiati, altri invece ho capito che si sarebbero irrigiditi al pensiero di dover mettere in discussione troppi fondamentali che avevano ormai acquisito. C'entra l'età, c'entra la voglia di migliorare, c'entra l'apertura mentale alle novità. Molte cose. Ma vado orgoglioso di aver avuto un bel rapporto con tutti i mie giocatori. Dal primo all'ultimo».

 

Alla fine il rapporto con i singoli giocatori rimane ancora oggi il cuore centrale del suo lavoro, nonostante sia passato dal club più importante del mondo alla Serie C. Vecchi sembra ridurre ogni astrazione complessa a risposte asciutte, trasparenti

 

«Carlo mi aveva proposto di seguirlo al Bayern. Non è stato possibile perché Neuer non voleva rinunciare al preparatore che lo aveva sempre seguito. Pazienza, sarebbe stata una bella esperienza, ma non mi è mai piaciuto piangermi addosso». Dopo aver allenato Casillas, van der Sar, Navas, Peruzzi, Abbiati, Buffon, ora Villiam Vecchi allena ancora. Non se la sente più di vivere i ritmi di una squadra tra le prime dieci al mondo, ma nemmeno di smettere.

 

«Vorrei restare qui il più possibile. Finché riuscirò a stare sul campo».

 

 

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