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Il combattimento è una cosa semplice
17 giu 2025
Un estratto da "Sempre, ovunque, contro chiunque. Vita di un fighter di Mma", il nuovo libro di Daniele Manusia sulla carriera di Alessio Di Chirico.
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Pubblichiamo un estratto da "Sempre, ovunque, contro chiunque. Vita di un fighter di Mma", il nuovo libro di Daniele Manusia sulla carriera di Alessio Di Chirico edito da 66thnd2nd. Se volete acquistare il libro, potete farlo cliccando qui.

Il combattimento è una cosa semplice. Davanti a te c’è una persona che vuole farti male. Quella persona è allenata per ferirti, preparata per farti perdere conoscenza o strangolarti fino a farti svenire. Ti ha studiato per quattro mesi, sa meglio di te come ti muovi, conosce le tue abitudini, i tuoi tic, i tuoi punti di forza e i tuoi punti deboli. Ha fatto sparring con fighter che ti somigliano: grandi più o meno come te, con caratteristiche simili alle tue. Ti ha preso le misure per cucire intorno a te, proprio a te, le sue abilità nel campo della violenza fisica. Non appena l’incontro inizierà tutti i suoi problemi quotidiani, i dilemmi esistenziali che si porta dietro, tutte le cose che odia, tutta la sua rabbia, verranno proiettate su di te. E tu devi difenderti. Non puoi tornare indietro, la porticina da cui sei entrato è stata chiusa dall’esterno con un chiavistello, sei letteralmente in gabbia e sei solo. Devi fargli male, prima che lui ne faccia a te. Non c’è davvero molto più di questo. In tal senso il combattimento replica quello che si deve provare in guerra, anche i soldati non hanno niente l’uno contro l’altro e magari, in circostanze diverse, sarebbero felici di prendere una birra insieme. Certo, a volte prima di combattere la questione si fa personale, ci si offende per cercare motivazioni supplementari, per convincersi che c’è una ragione specifica per cui quel combattimento non si può proprio evitare. Ma non è vero, stringi stringi la questione di base è questa: sei chiuso in un perimetro ristretto con qualcuno che vuole farti più male possibile. E stai sicuro che anche per lui è la stessa cosa, anche il tuo avversario in fin dei conti vuole solo evitare che sia tu a fargli male. Tutto qui. Quello che c’è di veramente complesso, semmai, sono le ragioni per cui uno si trova lì, a combattere.

Hai avuto molte occasioni per evitarlo (anche adesso, a pensarci bene, potresti uscire dall’alto, la gabbia non ha soffitto) ma non lo hai fatto. Quello che c’è di misterioso non è tanto ciò che avviene dentro l’ottagono: quelle sono questioni tecniche; ma come ci sei arrivato, là dentro. Cosa ti ha portato davvero in quella gabbia.

Siamo a Zagabria, un pomeriggio di aprile del 2016. Quando mancano quarantacinque secondi alla fine del secondo round, Bojan Veličković lascia partire un calcio girato all’indietro che avrebbe potuto abbattere un albero, diciamo un giovane alberello arrivato a un paio di metri di altezza. Veličković non ha provato altri calci girati prima di quello, vuole cogliere di sorpresa il suo avversario. Fa perno sul piede più avanzato, il destro, si gira per un attimo di schiena e ruota su sé stesso provando ad andare a segno con il tallone sinistro, più o meno all’altezza della tempia. È un gesto creativo, che richiede un’agilità felina, e potenzialmente letale, fatto per mettere fine all’incontro. Si dice, anzi, che «il tallone mette fine alle carriere». Ma l’avversario che Veličković ha davanti, Alessio Di Chirico, legge in anticipo le sue intenzioni, si abbassa sotto al calcio e, non appena la gamba di Veličković gli è passata sopra la testa – se Di Chirico avesse avuto i capelli leggermente più lunghi lo spostamento d’aria glieli avrebbe alzati –, lo punisce con un gancio sinistro in pieno mento. Se si guarda l’azione al rallentatore si vede la testa di Veličković fare clic, compiere un piccolo scatto di lato, con il mento disallineato rispetto alla parte superiore della testa; ma Veličković è bravo a fare finta di niente, incassa il colpo assecondandolo e dopo aver fatto un passo indietro torna in posizione di guardia.

I due combattenti sono quasi coetanei: Bojan Veličković ha ventisette anni; Alessio Di Chirico ventisei. Entrambi sono all’esordio in Ufc, promotion (ovvero organizzazione) di mixed martial arts americana, la più importante al mondo. Anche se il loro è solo uno degli incontri «preliminari», una sorta di antipasto alla serata vera e propria, è un’occasione importante per mettersi in mostra. Combattono al limite degli 84 kg, ma Veličković sale dalla categoria inferiore, quella al limite dei 77 kg. È un peso welter, cioè, che ha accettato di combattere nei medi (come ha già fatto anche in altre occasioni). Di Chirico è più voluminoso e pesante. È un metro e ottantacinque ma la postura perfettamente eretta lo fa sembrare più alto. Veličković ha già disputato 16 incontri da professionista, con 13 vittorie e 3 sconfitte; Di Chirico è arrivato fin qui da imbattuto, 9 vittorie in altrettanti incontri, tutte prima del limite tranne l’ultima. Due anni fa ha vinto il Mondiale per dilettanti a Las Vegas. Essendo questo il primo evento organizzato dalla Ufc in Croazia, la card – ovvero il menù di incontri che si susseguono l’uno dopo l’altro – è farcita di fighter europei, provenienti in particolare da paesi dell’ex Jugoslavia. Veličković è serbo, di Novi Sad (anche se per diventare professionista si è trasferito negli Stati Uniti), a meno di quattro ore di macchina da Zagabria, il che lo rende un fighter di casa agli occhi della promotion americana. Sicuramente è più in casa di Di Chirico, che però è sostenuto da un pubblico rumoroso – amici e compagni di palestra venuti da Roma – che sottolinea ogni sua iniziativa. Tipo quel calcio schivato a cui ha fatto seguire il gancio sinistro. Il primo round era stato equilibrato, Veličković ha avuto successo con i calci alle gambe, comunemente chiamati col loro nome inglese low kick, una delle armi più logoranti a disposizione di un fighter di Mma; ma Di Chirico ha difeso i tentativi di portarlo a terra con i take­ down – o proiezioni – e alla fine ha messo qualche colpo in più del suo avversario. Nella seconda ripresa Di Chirico sta facendo nettamente meglio. È più sciolto e, come gli grida uno dei suoi allenatori dall’angolo, sembra aver «preso le misure» al suo avversario. Il calcio girato di Veličković è un tentativo, velleitario, di cambiare l’inerzia dell’incontro a proprio favore.

Veličković incassa il sinistro e indietreggia, Di Chirico lo insegue; Veličković gira verso sinistra, per non farsi mettere con le spalle alla gabbia, ma da quella parte c’è il gancio destro Di Chirico, il suo colpo più forte. Allora cambia direzione e Di Chirico gli taglia la strada, lo intercetta con un primo gancio sinistro, parato, e poi con un secondo gancio corto che invece va a segno. La testa di Veličković fa di nuovo clic, ma ancora una volta lui non batte ciglio, con la bocca aperta per respirare sembra quasi sorridere. I due continuano a girare in senso antiorario, mandano a vuoto un paio di colpi ciascuno e poi Veličković va a segno con un altro calcio basso. Colpisce la parte interna della coscia sinistra di Di Chirico, che però gli afferra la gamba e lo proietta con grande tempismo. Veličković finisce con la schiena a terra e Di Chirico sopra. Ovviamente, quella di Alessio è la posizione migliore in cui trovarsi, quella da dove, secondo le regole delle Mma, si può colpire a ripetizione. Chi sta sopra può scaricare i propri colpi con maggiore forza cinetica, dall’alto verso il basso, e senza troppo timore di riceverne in cambio (anche se in verità bisogna guardarsi dalle gomitate taglienti), provando a spingere l’arbitro a interrompere l’incontro, cosa che avviene quando il fighter a terra non si difende attivamente o l’arbitro ritiene ci sia troppo dominio da parte di chi è sopra. Ma Di Chirico non fa in tempo a sfruttare il vantaggio che si è guadagnato perché compie un piccolo errore, quasi invisibile nello svolgersi concitato della lotta: mentre accompagna a terra Veličković, come ha imparato a fare negli anni in cui praticava football americano e si divertiva a placcare chiunque gli capitasse a tiro, lascia il proprio braccio sinistro troppo largo. Si tratta davvero di un’inezia, che Alessio Di Chirico, però, non si perdona. «Forse avevo sottovalutato questo incontro» dice. «Non mi sono allenato con sparring adeguati, non ho preparato abbastanza la lotta a terra».

Veličković gli afferra il polso sinistro con la mano destra, all’altezza del fianco, gli passa l’altro braccio sotto la spalla e inizia a spingere verso l’alto l’avambraccio di Di Chirico, piegandolo dolorosamente all’indietro. Poi Veličković rotola sul fianco e Di Chirico, col braccio intrappolato nella morsa, segue il suo movimento, ritrovandosi sulla schiena. Adesso è Veličković che sta sopra e continua a spingere il braccio sinistro di Alessio in una rotazione innaturale di spalla e gomito che potrebbe portare alla lesione di nervi, tendini o, nei casi peggiori, alla frattura di qualche osso. La presa di Veličković si chiama kimura, in origine conosciuta come ude garami, e deve il proprio nome a uno dei più grandi judoka di tutti i tempi, Masahiko Kimura, che nel 1951, di fronte a ventimila spettatori all’interno del Maracanã di Rio de Janeiro, aveva combattuto e sconfitto Hélio Gracie, uno degli inventori (insieme ai fratelli) del brazilian jiu-jitsu. «La kimura era la sua specialità, lo sapevo» dice Di Chirico di Veličković. «Anche nella finale del Mondiale avevo resistito a una kimura. Sono stato fortunato perché in quel caso gli è sfuggita la presa e sono riuscito a liberarmi». Nella finale di Las Vegas aveva combattuto contro il campione in carica, Eivind Kjonsvik, un norvegese grosso (combattevano nella categoria dei massimi-leggeri) e forte nella lotta a terra. «Era un errore che facevo sempre in allenamento, me l’avranno fatta trenta volte quella presa. Lasciavo la mano sulla coscia dell’avversario anziché portare il braccio sotto l’ascella. Veličković mi ha preso il braccio e ha chiuso la kimura perfetta, ma io non avrei mai battuto. Mai. Ero in una forma mentale per cui mi sarei fatto ammazzare, piuttosto».

Un incontro di Mma può finire in molti modi più o meno cruenti. Si può arrivare alla fine del tempo, 15 o 25 minuti, a seconda che i round siano tre o cinque, e lasciare ai giudici la decisione. Un fighter può andare ko, cioè può perdere conoscenza dopo un colpo particolarmente riuscito. In quel caso l’arbitro interrompe all’istante l’incontro. Oppure può interromperlo considerando che uno dei due non sia più in grado di difendersi e la sua salute sia a rischio (in questi casi si parla di ko tecnico, kot). Più raramente è il medico ufficiale a chiedere la fine del match per un infortunio pericoloso o debilitante, quando ad esempio un occhio è così gonfio che il fighter da quel lato non ci vede più. E poi c’è la resa durante la fase di lotta a terra: quando uno dei due combattenti chiude una presa in modo tale che non c’è via d’uscita, all’altro non resta che battere con una mano a terra. Oppure sulla schiena, la spalla, la gamba, la mano, insomma un punto qualsiasi del corpo dell’avversario che lo sta facendo svenire o che sta provando a strappargli un arto. Alle brutte ci si può anche arrendere a voce, sperando che l’arbitro riesca a sentire. In tutti questi casi si parla di «sottomissione». L’alternativa è non sottomettersi, aspettare di svenire o farsi spezzare il braccio, la caviglia, il ginocchio, in attesa che sia l’arbitro ad accorgersi che non sei più lì, che sei stato messo a dormire, o che il tuo braccio non è più intero, e metta fine all’incontro. Quello che vuole dire Alessio, quando dice che piuttosto si sarebbe fatto ammazzare, è che erano anni che sognava di esordire in Ufc, che si era allenato per mesi aspettando quel momento, e mai e poi mai si sarebbe sottomesso.

Adesso chiediamoci: è più importante evitare di trovarsi in quella situazione, mantenere sempre il controllo con una tecnica difensiva inattaccabile, oppure, se succede – perché può succedere a tutti, anche i campioni vengono sottomessi –, è più importante resistere, tenere duro, starci in quella situazione di merda e pagarne le conseguenze? Quando Veličković prende il controllo del braccio sinistro di Di Chirico mancano venti secondi alla fine del secondo round. Quando Di Chirico finisce con la schiena a terra e il braccio torto all’indietro con il massimo della forza che Veličković ha nel proprio corpo, ne mancano più o meno sedici. Supino, Di Chirico guarda il soffitto con la bocca aperta e lo sguardo assente, come fosse sovrappensiero, finché Velikcovic gli sale con il bacino sulla faccia e gliela nasconde. A quel punto mancano ancora dieci secondi alla fine del round. A che pensa un uomo, un ragazzo, mentre stanno provando a spezzargli un braccio? «Non pensavo a nulla. Ero lì che combattevo» dice Alessio. Di Chirico all’inizio cercava di muoversi in circolo spingendo sui talloni ma dopo poco ha smesso di fare qualsiasi cosa. Mancano cinque secondi. Anche Veličković pare aver raggiunto il punto massimo in cui può piegare all’indietro il braccio di Di Chirico. Sembrano tutti e due fermi, anche se quello che sta succedendo veramente è che mentre uno applica tutta la propria forza in un movimento preciso, la resistenza puramente articolare, legamentosa, tendinea dell’altro gli si oppone; entrambi sembrano totalmente concentrati, immersi al centro di sé stessi. Mancano tre secondi... due secondi... un secondo... Di Chirico non batte, non si arrende.

Quando finalmente la sirena mette fine al round Alessio si alza e con la mano che Veličković gli ha tenuto stretta fino a un attimo prima si sistema i pantaloncini. Saltella sul posto, come per scrollarsi di dosso una brutta sensazione. Si siede sullo sgabello che uno dei suoi allenatori gli infila sotto al sedere. Gli posano un sacchetto di ghiaccio sulla schiena, gli tolgono il paradenti e gli fanno bere un sorso d’acqua. Soprattutto, lo riempiono di indicazioni, di consigli, lo tranquillizzano. «Forse la mia più grande qualità è saper ascoltare l’angolo. Però ci sono dei momenti in cui vai in trance agonistica». Alessio non capisce davvero cosa gli stanno dicendo, annuisce e guarda a terra, tra i propri piedi, come se gli fosse caduta una monetina. Tutto sommato sembra stare bene, in realtà si è rotto il gomito. Poco prima, mentre Veličković stava torcendo il braccio di Di Chirico, suo fratello Simone, più piccolo di un anno e mezzo, in tribuna a Zagabria pensava che Alessio si sarebbe arreso, che da un momento all’altro lo avrebbero visto battere sulla schiena del suo avversario con le dita della mano rimasta libera: «Mi dicevo: È finita, è finita. E invece no: si è fatto spaccare il braccio, praticamente». Bojan Veličković gli ha fratturato il capitello radiale, la parte leggermente sporgente con cui il radio entra nel gomito, con una forma simile a quella dei capitelli classici, appunto. Anche in allenamento si è infortunato più volte, in maniera meno grave, ovviamente, ma sempre «perché non batto quando dovrei, perché sono orgoglioso».

La prima volta che ho incontrato Di Chirico era poco prima di questo match. Si trattava della sua prima intervista e con entusiasmo mi aveva spiegato le basi delle Mma, uno sport che stavo appena iniziando a conoscere. Forse anche con troppo entusiasmo, per spiegarmi un tipo di proiezione chiamato inside trip mi ha chiesto di alzarmi, mi ha infilato le braccia sotto le ascelle e per un attimo ho temuto che volesse sbattermi sul pavimento. Eravamo a Roma, nella sala riservata alle fisioterapie della sua palestra, l’Hung Mun, in quel momento la mi- gliore in Italia e una delle poche ad allenare atleti professionisti nelle arti marziali miste. Lui era seduto sul lettino e dietro aveva un poster con lo scheletro umano e i nomi delle varie ossa, l’aria era satura degli odori di chi si stava allenando in quel momento, le percussioni ritmate delle combinazioni tirate sui sacchi o sui guantoni imbottiti degli istruttori filtravano da dietro la porta chiusa. Anche se avessi voluto parlare di qualcosa di diverso dal combattimento, sarebbe stato impossibile. Per una sciocca curiosità personale gli ho chiesto quale fosse la situazione peggiore in cui immaginava di potersi trovare, lui ha risposto spiegandomi, appunto, cos’era una kimura, raccontando di quando si era trovato in quella situazione nella finale del Mondiale. E se ricapitasse, cosa faresti? «Eh, niente. Spero di avere la forza di superare i miei limiti fisici». Beh, viene da dire a posteriori, ce l’ha avuta. «Ho sentito un crac» racconta Alessio. «Ma il dolore lo senti dopo. Quell’errore mi è costato mesi di infortunio». E c’era ancora il terzo round, altri cinque minuti da combattere.

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