L’ultima volta che i Denver Nuggets arrivarono in finale di conference era la stagione 2008-09 ed il Colorado era residenza di Carmelo Anthony, Kenyon Martin, Chauncey Billups e J.R. Smith. Dieci anni dopo sono stati Nikola Jokic e Jamal Murray a condurre la franchigia a 1.600 metri sul livello del mare alla più improbabile delle vittorie, rimontando per la seconda volta consecutiva una serie dopo essere andati sotto per 3 a 1. Ma se nella serie contro Utah i Nuggets hanno saputo alzare il proprio livello quando serviva contro un avversario sulla carta di pari rango, con gli L.A. Clippers erano sembrati nettamente inferiori fino all’intervallo di gara-5, sotto di 13 punti in quella che poteva essere la loro ultima partita nella bolla.
Invece i Clippers non sono mai riusciti a chiudere definitivamente la porta in faccia ai Nuggets, che non chiedevano altro che uno spiraglio per infilare il piede. Denver ha avuto la forza mentale di non uscire mai dalle partite e l’ardore di crederci possesso dopo possesso, senza mai farsi prendere dall’agitazione o dallo scoramento. Tutto il contrario dei Clippers, che ogni volta le cose non andavano nella direzione da loro preferita perdevano la testa e il talento cestistico. Sia in gara-5 che in gara-6, entrambe decisive per approdare alle prime finali di Conference in 50 anni di storia della franchigia, sono riusciti a gettar via due vantaggi in doppia cifra nel secondo tempo in una manciata di minuti e non sono mai riusciti a reagire, facendosi travolgere dal lucido entusiasmo di Denver.
Arrivati a gara-7, la pressione sulla squadra di Doc Rivers è stata inversamente proporzionale alle energie psicofisiche rimaste nel serbatoio per contrastare i Nuggets, che hanno giocato con la leggerezza di chi non ha nulla da perdere e la convinzione di chi sa che basta poco per mandare in crisi gli avversari. Denver era alla quarta gara-7 consecutiva nelle ultimi due anni e ha dimostrato di essere più esperta quando si gioca in apnea, avendo vinto le ultime sei sfide a eliminazione diretta in questi playoff.
Il miglior Joker possibile
Entrando in questa stagione era giustificabile avere dei seri dubbi sul potenziale di Nikola Jokic in NBA. Le difficoltà nel gestire la propria condizione fisica e i limiti nella metà campo difensiva lo rendevano un giocatore tanto affascinante quanto inaffidabile per costruire attorno a lui una squadra da titolo, specialmente dopo dei Mondiali in Cina decisamente deludenti. Invece questi playoff della bolla ci hanno regalato un Jokic finalmente maturo, senza quelle indolenze tipiche dell’età della crescita, e leader sia tecnico che spirituale di questi giovani Nuggets. Anche nella serie contro gli Utah Jazz, dove è stato messo in grande difficoltà dall’eccellente lavoro difensivo di Rudy Gobert e Jamal Murray si è preso le luci dei riflettori nel suo duello con Donovan Mitchell, ha tirato fuori la sua migliore prestazione proprio quando contava di più, sigillando il passaggio del turno con un gancio da campetto dopo due passi di danza.
Nella serie successiva, con un accoppiamento più favorevole, ha sbriciolato la rotazione dei lunghi di Los Angeles, bullizzando Ivica Zubac e ridicolizzando Montrezl Harrell fino a costringere coach Doc Rivers a raddoppiarlo sistematicamente in gara-7. Una scelta che non si è rivelata felice, visto che il serbo ha potuto vivisezionare la difesa dei Clippers trovando sempre l’uomo libero per tiri comodi e, quando questi sono cominciati a entrare con regolarità, i Nuggets non si sono più guardati indietro.
Un esperto delle Gare -7.
D’ora in poi quando parliamo di giocatori decisivi nelle partite che contano davvero non potremo non menzionare il nome di Nikola Jokic. Se già prima era stato protagonista di grandi prestazioni e canestri vincenti, questa gara-7 aggiunge un importante capitolo alla sua legacy e lo dipinge come uno dei lunghi più moderni e completi che la NBA contemporanea abbia visto. Pur segnando solo 16 punti con un mediocre 5/13 dal campo e senza triple su quattro tentativi, Jokic ha totalmente dominato l’ultimo atto della serie, facendo girare l’intero attacco di Denver attorno alle sue letture e ai suoi polpastrelli. La sensibilità per il gioco che lo contraddistingue non ha lasciato scampo alla scarsa intensità difensiva dei Clippers, incapaci di effettuare più di una rotazione sulla circolazione di palla di Denver.
A ogni gioco a due con Jamal Murray, la palla è arrivata sempre nel posto giusto al momento giusto senza che gli avversari riuscissero a trovare un modo per almeno limitare l’impatto dei due giocatori di Denver, anzi concedendo a ogni minima reazione un numero spropositato di tagli e triple dagli angoli. Il canadese ha dominato il secondo quarto con 20 punti fondamentali per tenere Denver a contatto quando i Clippers hanno provato a prendere il largo (come spesso è spesso successo nei primi tempi di questa serie) per poi chiudere a quota 40 con questa tripla assurda quando ormai la fiducia aveva sostituito il plasma nel sistema circolatorio.
Quante di queste triple tutte sbilanciate ha segnato Murray in questi play-off?
Una performance realizzativa che ha permesso a Jokic di gestirsi senza dover trascinare la squadra canestro dopo canestro e di potersi concentrare sul resto del suo gioco, che poi è anche quello che preferisce fare. Jokic ha messo a referto 13 assist per i suoi compagni, un numero impressionante e che allo stesso tempo non rende giustizia al suo contributo creativo in campo. Ci sono altri dati che definiscono meglio il suo contributo: ha effettuato 91 passaggi, è stato responsabile del 62% degli assist di squadra, creato 22 punti con 10 screen assist e ha chiuso con 21 potenziali assist. È stato di gran lunga il miglior giocatore in campo per entrambe le squadre, nonostante nell’altra giocassero Kawhi Leonard e Paul George.
Inoltre, visto che in attacco si è divertito soprattutto a far girare il pallone, ha potuto essere un fattore anche in difesa. Se nelle prime partite di questi playoff contro Utah il suo lavoro nella metà campo difensiva era stato disastroso, nelle ultime gare contro i Clippers il suo sforzo è radicalmente cambiato, anche grazie ai giusti accorgimenti del coaching staff dei Nuggets. Anche i numeri suggeriscono questa inversione di tendenza: nelle ultime tre vittorie contro i Clippers il suo rating difensivo è di 101.7 punti per 100 possessi, quando durante la serie contro Utah era di 125.5. In gara-7 ha anche tirato giù 22 dei 57 rimbalzi con cui Denver ha dominato la sfida dei tabelloni (+16), diventando il primo giocatore nella storia NBA ad avere due triple doppie in una “bella” ai playoff (quella di stanotte in meno di tre quarti).
I tremendi secondi tempi di PG13 e Kawhi
Proprio mentre Jokic orchestrava i toni e i volumi dell’attacco di Denver e Jamal Murray intonava da primo violino un concerto di canestri, dall’altra parte si assisteva all’ennesima debacle di Paul George e Kawhi Leonard. Come successo nelle ultime due partite, anche ieri notte le due grandi star dei Clippers, due degli esterni più completi e temuti della lega, non sono tornati in campo dopo l’intervallo. Se nel secondo tempo di gara-5 i due avevano tirato un complessivo 10/26 per 35 punti e nessuno dei loro compagni gli aveva dato una mano, dalla partita successiva il loro rendimento è calato pericolosamente. In gara-6 hanno combinato per 27 punti con 21 tiri e ieri notte, in una partita da vincere a tutti i costi anche per le proprie legacy, hanno chiuso con 5 miseri punti in 18 tiri. Quando Paul Millsap segna più punti delle tue superstar nei minuti cruciali della stagione, la spia rossa comincia a lampeggiare pericolosamente.
È difficile spiegare razionalmente la regressione di uno dei migliori attacchi (il secondo per rating offensivo in stagione regolare) a uno capace di segnare appena 33 punti negli ultimi due quarti contro una delle peggiori difese dei playoff, specialmente nella marcatura dei pick and roll. Ma è evidente come le promesse fatte dai loro più lucenti talenti siano state brutalmente disattese e che nel momento del bisogno, quando i canestri hanno un peso diverso, abbiano mancato clamorosamente l’appello. E nel momento decisivo, i nodi che erano rimasti silenti da tutta la stagione - un attacco comunque stagnante e con poco movimento di palla, una chimica di squadra rivedibile con lo spogliatoio diviso tra i “vecchi” che avevano over-performato lo scorso anno (Williams, Harrell e Beverley) e i “nuovi” chiamati a essere subito stelle (Kawhi e PG13), una chiara mancanza di playmaking e intelligenza cestistica - sono venuti al pettine.
I Clippers sono stati costruiti attorno ai talenti di Kawhi Leonard e Paul George e alla loro bravura nello scegliere e attaccare l’accoppiamento che ritenevano più tenero. Un compito relativamente semplice contro Denver, che proponeva numerosi difensori di basso livello da isolare in uno contro uno. Si poteva scegliere se mettere Jokic in pick and roll, usare il fisico contro Murray o puntare Michael Porter Jr. a ogni possesso che il rookie spendeva in campo. Non è successo niente di tutto questo: Leonard e George si sono ben guardati dal compiere scelte efficienti con il pallone, andando spesso a imbottigliarsi in isolamenti senza prima muovere il pallone e contro i migliori difensori di Denver, sperando di sbrogliarsela con il solo talento. Così, mentre i Nuggets puntavano senza pietà Lou Williams, Harrell e Shamet per creare tiri facili, l’attacco dei Clippers non aveva abbastanza playmaking secondario per sfruttare a dovere gli anelli deboli della difesa di Denver.
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Leonard è sembrato molto scarico, ad esempio qui si stampa contro Monte Morris come se fosse Antetokounmpo.
Poi nei momenti decisivi la mano dei giocatori di Los Angeles ha cominciato a tremare e anche i tiri più comodi sono diventati impossibili da segnare. I Clippers hanno sbagliato tutte le 12 triple prese dagli angoli in gara-7 (e i Nuggets non hanno fatto di meglio con il loro 0/8), tra cui alcune - come quella di Paul George contro il tabellone - quasi comiche.
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Playoff P.
Proprio PG13 non è stato solo disastroso in attacco, con 10 punti realizzati con 16 tiri e 5 palle perse, ma ha fatto addirittura peggio in difesa, dove ha mostrato un impegno inaccettabile per una partita di tale importanza. Lento nelle rotazioni, distratto sui tagli dei Nuggets e pigro nel chiudere sui tiratori, George ha faticato nuovamente a incidere quando sale la posta in gioco. Dopo il canestro in faccia con il quale Lillard lo ha salutato negli scorsi playoff e le difficoltà affrontate ad Oklahoma City, è forse arrivato il momento di chiedersi quale sia il ruolo di Paul George in una vera contender.
Prima esce lentissimo su una tripla aperta di Murray, poi si gira dal lato sbagliato sull'elementare taglio di Craig, infine non comunica con Zubac sul cambio.
Il fantasma dei Clippers passati
Per quanto si debba celebrare l’impresa titanica dei Denver Nuggets, non ci si può esimere dall’imputare il risultato di questa serie alla disfatta dei Clippers. Entrati con i favori del pronostico non solo per questa serie ma per il titolo, si sono sciolti alla prima difficoltà dimostrando di essere molto distanti dall’essere davvero una contender sia in termini di personalità che di amalgama. Come detto da Lou Williams (disastroso con 4/27 da tre nella serie) dopo l’eliminazione: «Avevamo il talento per vincere il titolo, ma non la chimica di squadra».
Quando la scorsa estate i Clippers spedirono cinque prime scelte ad Oklahoma City per affiancare Paul George a Kawhi Leonard, formando un tandem che sulla carta avrebbe dovuto ridurre il resto della lega in mucchietti di polvere, in pochi si sarebbero aspettati che la loro stagione finisse in una fragorosa implosione.
Invece per l’ennesima volta i Clippers si sono resi protagonisti di un altro psicodramma sportivo da aggiungere alla lista. Sembrava impossibile superare il ribaltone subito dagli Houston Rockets nei playoff del 2015 - una serie che rivedendola adesso sembra essere stata girata da David Lynch - ma questa eliminazione subita per mano dei Denver Nuggets è ancora più dolorosa. Nella più classica delle profezie che si autoavverano i Clippers hanno nuovamente giocato troppo con il fuoco per non finire scottati e non sarà facile lenire le bruciature su cui anche il resto della NBA non ha mancato di infierire, a partire da CJ McCollum e Damian Lillard.
Come cinque anni fa al timone della squadra c’è sempre Doc Rivers, che nei suoi sette anni a Los Angeles ha vinto la miseria di tre serie di playoff e che stanotte è ha subito la terza rimonta da 3-1 della sua carriera.
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Senza contarne altre tre sul 3 a 2.
Rivers ha commesso molti errori in questa serie, specialmente quanto riguarda le rotazioni e il minutaggio di Harrell e Zubac, ma il suo limite più grande è stato un altro. Da sempre considerato più un gestore di uomini che un grande stratega della lavagnetta, quest’anno Rivers ha fallito proprio in ciò che solitamente gli riesce meglio, ovvero costruire un gruppo forte e unito. I Clippers invece non hanno mai trovato la giusta chimica di squadra in stagione, complici anche i tanti infortuni e la pandemia che ha interrotto tutto proprio quando sembrava stessero per trovare il giusto ritmo. Invece quando sono arrivati a Orlando sono sembrati poco concentrati e svuotati di ogni energia, e non hanno mai saputo reagire alle avversità dimostrando poca umiltà e molta superbia. Nelle interviste a fine partita i Clippers hanno motivato con la stanchezza i tanti vantaggi buttati al vento, una scusa poco credibile visto che i loro avversari giocano quasi da un mese una partita ogni 48 ore.
In particolare è mancato un vero leader nello spogliatoio, una voce forte ed autorevole in grado di guidare il gruppo durante la tempesta. Non lo è stato Rivers, non lo è stato George e non lo è stato Leonard, che a partita finita si è lamentato di come in squadra mancasse l’IQ cestistico per vincere un titolo.
Dopo aver vinto eccellendo in sistemi ben codificati a San Antonio e a Toronto, Leonard ha steccato alla prima da leader spirituale e tecnico indiscusso, non riuscendo a invertire la tradizione che aleggia sulla franchigia da decenni. Un fantasma che rischia di rovinare anche questa edizione dell’altra squadra di Los Angeles, che non ha così tanto tempo per raggiungere quel titolo che sembra stregato. Tra un anno sia Leonard che George avranno la possibilità di uscire dal contratto siglato la scorsa estate e, nell’eventualità succedesse, i Clippers si troverebbero senza i propri due giocatori franchigia e nessuna scelta al Draft fino al 2027. Improvvisamente la loro finestra che sembrava una vetrata è diventata una bifora.
Denver invece ha anche il tempo dalla sua parte. Dopo aver mancato lo scorso anno proprio in gara-7 contro Portland la finale di Conference, questa stagione è riuscita a fare quel passo in più. E a più di dieci anni da Melo & Co. affronterà nuovamente i Los Angeles Lakers per un posto alle Finals.