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L’inafferrabile bravura di Claudio Ranieri
29 mag 2024
29 mag 2024
Un affresco della sua lunga, incredibile carriera.
(copertina)
IMAGO / IPA Sport
(copertina) IMAGO / IPA Sport
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«Ecco, questa è una cosa vera che adesso so di sicuro, anche se si tratta di qualcosa di un po’ trito e non so con esattezza che farne: ciò che rimpiango di più nella mia vita è aver mancato di essere gentile. [...] Sarà forse un po’ semplicistico, e sicuramente difficile da mettere in pratica, ma direi che come obiettivo nella vostra vita fareste bene a “cercare di essere più gentili”. Ed eccoci alla domanda da un milione di dollari: qual è il nostro problema? Perché non siamo più gentili? [...] Il fatto è che si finisce con lo scoprire che essere gentili è difficile».

Dal discorso di George Saunders per la cerimonia di laurea degli studenti della Syracuse University, maggio 2013, nella traduzione di Anna Bissanti

«Salve, piccini. Benvenuti sulla Terra. È calda d’estate e fredda d’inverno. È rotonda, umida e affollata. Al massimo, piccini, avrete un centinaio d’anni da passare qui. E c’è solo una regola che conosco, piccini… Maledizione, dovete essere buoni».

Kurt Vonnegut, “Perle ai porci: o Dio la benedica, Mr. Rosewater”, Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani

Soprannominato “er fettina”, in quanto figlio di un macellaio di Testaccio, da bambino Claudio Ranieri diserta spesso l’attività di famiglia per giocare a calcio. Nell’Italia del dopoguerra si giocava a calcio per strada e negli oratori, e Ranieri non fa eccezione: inizia da portiere nell’oratorio di San Saba, il quartiere dove cresce, perché gli amici non lo vogliono in attacco. Lo chiamano anche “er pecione”, l’arruffone, perché non sembra saperci fare con il pallone. Quando confessa agli amici il sogno, anzi l’obiettivo, di diventare un calciatore, viene quasi deriso. Eppure da portiere riesce a trasformarsi in attaccante, proprio come desiderava sin dall’inizio, e ad arrivare fino alle giovanili della Roma. L’allenatore della Primavera, Antonio Trebiciani, proprio come gli amici dell’oratorio, gli dice che da attaccante non ha chance: meglio fare il terzino.

Lo farà per 12 anni, passati tutti nel Sud Italia: diventa capitano e leggenda del Catanzaro, poi va a Catania e chiude a Palermo. Quando smette ha 35 anni e ormai gioca da libero. Per 10 anni porta gli ex amici del Catanzaro in barca in giro per il Mediterraneo. Tutti si ricordano delle qualità dell’uomo Ranieri ben più di quelle del calciatore, nonostante le 156 partite in Serie A.

Anche la sua vita da allenatore si sviluppa lungo questa strana dicotomia. Meglio l’uomo del professionista: ma è una separazione che per Ranieri non esiste.

Claudio Ranieri (in maglia nera) con il San Saba, in una foto del 1967 (fonte: l'Unione Sarda).

Allenatore per caso

“Nessuno di noi pensa sul serio di lavorare nella vita, altrimenti ci alzeremmo sempre stanchi. Viviamo per lavorare, allora diamo un significato a quello che facciamo”.

Claudio Ranieri, nell’intervista di Mario Sconcerti pubblicata dal Corriere della Sera il 6 febbraio 2016 - come tutte le citazioni a seguire

A fare l’allenatore non ci pensava proprio. Voleva tornare a Roma per aiutare il padre - un ritorno alle radici, al “fettina” di una volta. Gianni Di Marzio, suo allenatore al Catanzaro e poi anche a Catania, con cui aveva instaurato un rapporto quasi fraterno, lo suggerisce però al presidente della Vigor Lamezia, squadra della provincia di Catanzaro, che non riusciva a vincere il campionato Interregionale e a salire in Serie C2. Ranieri accetta solo perché rassicurato sul supporto di Di Marzio stesso: inizia così, nel 1986, a scontrarsi con la realtà del calcio italiano, sia in campo che fuori. Ranieri allena la squadra secondo i principi della zona e parla spesso ai suoi giocatori di psicologia dello sport: in quel momento sono in pochissimi in Italia a vedere il calcio in quel modo. A Lamezia schiera chi pensa di meritarlo, facendo esordire anche un sedicenne, e dopo 12 giornate è imbattuto e in testa alla classifica. Una ribellione interna alla squadra, guidata da alcuni giocatori legati a un procuratore, lo spinge però alle dimissioni.

L’anno successivo è a Pozzuoli, al Campania Puteolana, in Serie C1. La situazione non è delle migliori: in una partita è costretto a schierare solo 10 giocatori. All’improvviso viene esonerato e Ranieri pensa di smettere. Due esoneri nei primi due anni da allenatore, e soprattutto situazioni fuori dal campo molto complicate, per usare un eufemismo: Ranieri non sembra fatto per il calcio italiano, è troppo educato, troppo onesto. Da una sua intervista al Guardian in cui racconta i pensieri dell’epoca e perché stesse per smettere: «Questo non è il mio lavoro. A me piace il campo, mi piace il calcio ma c’è troppa politica e io non sono una persona così, sono trasparente. Non è un lavoro che fa per me».

La Puteolana cambia altri due allenatori, poi persino il presidente, e alla fine i giocatori chiedono il ritorno di Ranieri, anche se la squadra è ormai retrocessa. Lui incredibilmente accetta, lo fa per il rapporto con i calciatori. E proprio durante una partita della Puteolana, anzi prima, che arriva la svolta della sua carriera da allenatore. Nel riscaldamento i giocatori avversari del Cagliari si allenano nell’unico spicchietto d’erba, appena seminata, esibendosi con colpi di tacco. Ranieri dice ai suoi giocatori di osservare bene gli avversari, la loro presunzione e la loro incapacità di adattarsi a un campionato di C1. Solo che lì a bordo campo c’è anche il nuovo presidente del Cagliari, Orrù, che ha appena salvato il club dal fallimento. Rimane impressionato da quell’atteggiamento, e anche dal risultato che effettivamente dà ragione a Ranieri: la Puteolana vince.

L’anno successivo se ne ricorda, e lo chiama: aveva bisogno di un allenatore giovane, dall’ingaggio basso, perché c’era da ricostruire una società, anche a livello tecnico.

Architetto e gestore

«Il calcio non è chimica, non ha regole universali. Conta prendere il meglio dal gruppo che hai»

Il presidente del Cagliari era l’unico che seguiva la squadra in trasferta, era un factotum. Bisognava rilanciare il club nel corso di qualche anno, ma Ranieri andava di fretta: in due anni dalla C1 alla Serie A. Nel suo triennio sardo costruisce solide fondamenta anche per il Cagliari del futuro: nella prima stagione ci sono già Ielpo, Festa, Cappioli; poi si aggiungono Firicano, Matteoli, Fonseca e persino Enzo Francescoli. Alla fine della stagione 1990-91 lascia il Cagliari in Serie A dopo una insperata salvezza: è uno degli allenatori del momento, ed è giovane per la media del calcio italiano (40 anni). Solo cinque anni prima non aveva neppure intenzione di allenare.

Si tende ad etichettare gli allenatori secondo due macro-categorie: i gestori, quelli più abili ad adattarsi alle caratteristiche della rosa, senza imporre i loro principi di gioco; e gli architetti, quelli che invece costruiscono la squadra sulla base di pilastri definiti legati alle loro convinzioni. Con Ranieri queste categorie diventano più sfumate: al Cagliari si è dimostrato un ottimo architetto, risistemando una squadra quasi dal nulla, secondo i suoi principi di gioco - la marcatura a zona. Ma subito dopo, Ranieri va al Napoli, appena dopo il disastro dell’addio di Maradona (e Moggi): bisogna aggiustare, bisogna gestire, non proprio rifondare. Al primo anno ci riesce benissimo: quarto posto. Il giocatore più utilizzato in quella squadra è Gianfranco Zola, che gioca da trequartista dietro le due punte Careca e Padovano.

La rivoluzione sacchiana era freschissima e i trequartisti stavano già sparendo, inghiottiti dalla rigidità del 4-4-2 degli emuli: non per Ranieri, allenatore che ha sempre messo i suoi principi di gioco al servizio dei giocatori. Dopo l’esperienza al Napoli con Ranieri, Gianfranco Zola non giocherà mai più trequartista in Serie A: diventerà una seconda punta e sarà poi costretto allo strepitoso esilio inglese al Chelsea.

Le qualità di architetto gli vengono richieste poco dopo per ricostruire un ciclo con la Fiorentina retrocessa in B, che Ranieri porta in quattro stagioni fino alla semifinale di Coppa delle Coppe persa contro il Barça di Ronaldo.

Nel corso della sua carriera, Ranieri viene chiamato spesso a ricostruire club ridotti male o che hanno bisogno di ripartire: dopo Cagliari, Fiorentina e Napoli, anche il Valencia, il Monaco, in parte anche la Juventus neopromossa, e il Leicester. Ma ancora più spesso sarà chiamato ad aggiustare squadre e stagioni che non funzionano: il Chelsea, il Parma, la Roma (due volte), l’Inter, il Fulham, la Sampdoria, il Watford e infine il Cagliari. A volte riuscendoci, a volte no. Il calcio non è chimica.

Italiano e straniero

«In Italia il calcio fa fatica a essere un divertimento, credo anche ci si alleni con meno intensità, meno convinzione. È più un dovere»

Nel momento della giusta celebrazione della carriera di Ranieri, si nota una grande omissione: Claudio Ranieri non è davvero “nostro”, è di tutti. Il numero delle sue panchine in Serie A e nelle massime divisioni di altri campionati (Premier League, Liga e Ligue 1) è quasi equivalente. Nonostante il suo percorso con la Fiorentina, nell’estate del 1997 Ranieri viene sostituito, e nessuno sembra più volerlo: è un allenatore affermato, relativamente giovane. Inizia così una sorta di grand tour europeo: a settembre accetta l’offerta del Valencia. Il suo percorso europeo lo porta fino a Londra, al Chelsea, in cui fa in tempo a vivere una stagione, la prima, dell’era Abramovich. Le semifinali di Champions e il secondo posto in campionato non bastano a mantenere la panchina dei "blues".

Sulla lunga lontananza di Ranieri dalla Serie A è difficile avere un quadro chiaro, bisognerebbe parlare con tutti i dirigenti che non lo hanno voluto. Le sue motivazioni personali sono più chiare: si può vivere senza essere inseguiti dalle pressioni, dai tifosi, dall’ambiente. Un contorno calcistico e di vita più adatto alla sua visione del mondo. Il suo esilio dura 10 anni e si interrompe subito dopo Calciopoli.

Forse il problema di Ranieri con il calcio italiano è dovuto alla sua onestà, alla sua trasparenza, qualità che possono creare grandi problemi. Forse è davvero un piccolo lord, uno dei suoi tanti soprannomi da ragazzino.

Ranieri però è anche un romano cresciuto tra San Saba e Testaccio dopo la seconda guerra mondiale: è un uomo che conosce bene la strada, quindi le persone. Secondo un suo amico di infanzia, gli anni passati all’oratorio di San Saba lo hanno aiutato proprio in questo, a capire le diverse personalità: perché lì c’erano bambini di famiglie molto umili e altri di famiglie ricche. Lui come al solito in mezzo, ad equilibrare.

Claudio Ranieri è onesto, ma anche molto diretto, sempre pronto alla battuta, come arma segreta di un karateka, da non usare mai al di fuori del dojo, tranne che per la difesa personale. Come nel novembre del 2010, dopo un derby vinto 2-0 contro la Lazio, quando un giornalista lo accusa di essere cambiato, e cioè di non essere onesto nelle valutazioni degli episodi arbitrali (le conferenze stampa in Italia sono pressoché sempre identiche da decenni): il viso di Ranieri cambia colore, è stato toccato su un punto, quello dell’onestà intellettuale, su cui non transige. Ribalta il tavolo della discussione e attacca: «A Roma faccio il romano. Ma che ve state a attacca' ar fumo della pipa? Io sono allegro e state dando ancora più soddisfazione a tutti i romanisti... Li state a fa gode', come ricci stanno a gode'!». Quando il cronista ammette la sua fede laziale, Ranieri risponde: «Era scritto in fronte, mica so' Silvan».

Poi Ranieri dice che vorrebbe parlare di calcio, la responsabile della comunicazione chiede se ci sono altre domande, nessuno alza la mano, e Ranieri si arrabbia ancora di più: «Non ci sono altre domande? Erano importanti solo gli episodi? Complimenti alla platea».

Anche Ranieri potrebbe essere considerato “el puto amo” delle conferenze stampa, come Guardiola definì Mourinho, ma in un modo opposto: è il re delle conferenze tranquille, degli slogan fanciulleschi come il “Dilly ding dilly dong” del Leicester, il suono della campanella immaginaria che usa per svegliare i giocatori in allenamento (lo aveva già usato nel 1990 a Cagliari).

Proprio Mourinho è stato uno dei pochi con cui ha litigato, anzi Ranieri è stato costretto a controbattere alle provocazioni: alla fine la gentilezza raneriana ha la meglio. Finisce con Mourinho a chiedere scusa, pubblicamente e in privato.

Claudio Ranieri l’anti-italiano, quando dopo la vittoria a Bari all’ultimo minuto, nell’estasi del trionfo insperato, cammina sotto il settore dei tifosi del Cagliari per chiedere di interrompere i cori contro gli avversari.

Perdente e vincente

«Io dico sempre ai miei: cercate il vostro fuoco dentro. Un’occasione così non capiterà più. Cercate quel fuoco, non vergognatevi. E loro non si vergognano, anzi, pretendono di sognare»

Tre volte al secondo posto. Una semifinale di Coppa delle Coppe e una di Champions League. Una semifinale di Coppa di Lega e una finale di FA Cup. Otto esoneri (uno addirittura l’anno successivo alla vittoria della Premier League), due dimissioni. L’appellativo di "Tinkerman" ai tempi del Chelsea: l’indeciso, quello che cambia sempre formazione. Claudio Ranieri l’eterno perdente.

La sconfitta più dolorosa della carriera è alla guida della sua squadra del cuore, la Roma. Per l’ennesima volta, era arrivato ad aggiustare una stagione disastrata: Spalletti aveva ormai perso le redini dello spogliatoio, la squadra era stanca della sua gestione. Prime due giornate di campionato, due sconfitte: e chi chiamerai? Ranieri, come i Ghostbusters.

Inizia così una rincorsa semplicemente pazzesca, da 80 punti in 36 partite e la spaventosa media, per un allenatore subentrato, di 2,2 punti a partita. Alla 33esima giornata, la Roma di Ranieri sorpassa finalmente l’Inter di Mourinho, sembra una favola: Ranieri che diventa vincente davvero alla guida della squadra che tifa, e dove tutto era iniziato. Non dura molto: due giornate dopo la Roma perde in casa contro la Samp, l’Inter di Mourinho la scavalca per poi raggiungere l’unico triplete della storia del calcio italiano. Due i punti di vantaggio dei nerazzurri alla fine del campionato; due come i punti di vantaggio di Ranieri su Mourinho nelle 36 partite disputate. La zavorra delle prime due giornate è stata altrettanto decisiva, su quella Ranieri non poteva farci niente. La Roma vince 9 delle ultime 10 partite, ma resterà per sempre nella storia giallorossa come lo scudetto volato via contro la Sampdoria, nell’unica partita persa di quelle ultime dieci.

Ranieri ha vinto campionati in quasi tutti i livelli del calcio: dall’Interregionale (anche se è stato esonerato) alla C1, dalla Serie B alla Ligue 2, per finire con il trionfo della Premier League. Ha vinto coppe nazionali in Italia e in Spagna. Ha vinto competizioni europee, entrambe a Valencia, ma a distanza di sei anni (Intertoto e Supercoppa europea). Quanti trofei bisogna vincere per non essere definiti perdenti? La carriera di Ranieri lo fa entrare in una ristretta élite di allenatori di successo, escludendo i grandi vincitori seriali alla Guardiola, Ancelotti e Mourinho, pur senza mai allenare squadre davvero favorite per il titolo.

Moderno e bollito

«Quando ho parlato con i giocatori ho capito che avevano paura del tatticismo italiano. Il calcio di un tecnico italiano vuol dire questo, tattica, cercare di impossessarsi della partita seguendo gli schemi e le idee dell’allenatore. Parlare tanto di calcio. Non mi sembravano convinti, nemmeno io lo ero. Ho molta ammirazione per chi costruisce moduli di gioco nuovi, ma ho sempre pensato che prima di tutto un buon tecnico debba impostare la squadra sulle caratteristiche dei suoi giocatori»

Quante volte si può dare un allenatore per finito? A Ranieri è accaduto di continuo, sin da subito, dopo i due esoneri nelle prime due stagioni della sua carriera. Anche dopo il disastroso ritorno al Valencia nel 2004, concluso con un esonero a febbraio 2005. Non lo chiama più nessuno: in Italia non ha più mercato, è un allenatore più straniero che italiano. E poi ci sono dinamiche strane, forse quella politica del calcio che a lui non è mai piaciuta. Resta fermo per due anni pieni: è in quel momento che sembra davvero finito. Ma non era vero, ovviamente.

Lo considerano finito anche nel 2014: ormai ha 63 anni, ha ricostruito da capo il Monaco, portandolo in due anni dalla seconda divisione al secondo posto in Ligue 1. Però sceglie la panchina della Nazionale greca: è un disastro. Ci rimane per solo 4 partite, ne perde 3. L’ultima è la peggiore: la Grecia perde in casa 1-0 contro le isole Fær Øer. A quel punto che sia finito lo dicono proprio tutti. Rimane fermo un anno e mezzo, poi va al Leicester. Lo considerano talmente bollito che Lineker parla di scelta “poco ispirata” e si diffondono meme e battute sul fatto che rimanga seduto anche quando gli altri sono in piedi, durante la conferenza stampa di presentazione. Anche stavolta, niente da fare: ma quanto ci vuole per cuocere un bollito?

L’ultima volta sembra quella definitiva: come al solito, Ranieri prova ad aggiustare la stagione di una squadra, quella del Watford. 14 partite in totale, 11 sconfitte, una catastrofe: è il gennaio 2022, viene esonerato, ormai ha 71 anni, questa volta è impossibile sbagliarsi. Bollito. Rimane fermo un anno, poi torna a Cagliari. Un’idea pazza, le minestre riscaldate non funzionano mai, rischia di rovinare la sua storia così bella con il Cagliari. Si fa convincere da Gigi Riva, e forse dall’idea incredibile di una composizione ad anello della sua carriera e persino della sua vita: chiudere con una grande cavalcata in rossoblù. Nel frattempo Calcutta canta che sembriamo tutti bolliti, e invece Claudio Ranieri è ancora così sveglio da riuscire nell’ennesima incredibile impresa.

L’ossessione sul grado di cottura di Ranieri è l’ossessione della società dell’accelerazione mediatica: si vorrebbero continuamente cambiare personaggi, alla stessa velocità di un ciclo di notizie. Nel nostro panorama calcistico si avvicendano continuamente allenatori definiti superati, finiti, non ne possiamo fare a meno, persino Ancelotti ha passato cinque anni della sua carriera sul carrello dei bolliti.

Ranieri inizia ad allenare da innovatore, marcatura a zona e psicologia dello sport a fine anni ‘80. Spesso viene dipinto come un fedele al catenaccio, inspiegabilmente: Ranieri è un grande devoto del 4-4-2 con marcatura a zona, che in fondo era il calcio rivoluzionario della sua epoca. Impossibile non esserne influenzati. Lo ha rivisitato in lungo e in largo, non è mai stato un sacchiano, certo. Ha sempre dedicato maggiore attenzione alla fase difensiva, con il principio di raggiungere la porta avversaria con il minor numero di passaggi possibili: una crasi tra la sua cultura calcistica da giocatore e il calcio che cambiava proprio quando iniziava ad allenare.

Nel suo trionfo più grande, la vittoria della Premier League con il Leicester, la sua proposta di gioco non era affatto mesozoica: forte densità in zona del pallone, un 4-4-2 con linee strettissime in fase di non possesso, per non concedere spazi alle ricezioni avversarie, spingendo la manovra sulle fasce, verso il cross in area, dove i suoi centrali difensivi dominavano i duelli aerei. Pressioni calibrate sull’avversario quando riceveva spalle alle porta, e in generale pressing quando gli avversari giocavano un passaggio laterale verso la linea esterna del campo. In fase di possesso si cercava la verticalizzazione immediata, con le due punte a fare il classico movimento ad elastico (una in profondità, l’altra si abbassa), i due esterni molto alti e pronti a tagliare verso l’interno. La conquista delle seconde palle sui lanci dalla difesa era una delle specialità di quel Leicester. Un calcio non particolarmente sofisticato, certo, ma efficace. Allenatori avversari in quella stagione: Wenger, Mourinho/Hiddink, Roberto Martinez, Rodgers/Klopp, Pellegrini, van Gaal, Koeman, Pochettino, Bilic.

Le caratteristiche dei giocatori, per Ranieri, sono sempre state il punto di partenza per organizzare la squadra: e quindi la linea difensiva a 4 poteva diventare a 3, niente era davvero immutabile. L’attenzione per la fase difensiva è sempre stata la bussola delle sue squadre, certo. Eppure nel suo 4-4-2 un posticino per il trequartista c’era sempre: Zola a Napoli, Rui Costa a Firenze, James Rodriguez al Monaco e tanti altri. Ranieri ha sempre lasciato grande libertà ai giocatori offensivi, si è sempre affidato alla loro tattica individuale, alla loro capacità associative. Il calcio relazionale spontaneo, non codificato, dei migliori giocatori.

Di grandi giocatori ne ha gestiti molti, ed è spesso stato in grado di migliorarli, e di lanciarne di nuovi, come aveva fatto da subito ad inizio carriera a Lamezia e Pozzuoli: prendere Ranieri ha significato spesso anche far entrare aria fresca nello spogliatoio. E così ha valorizzato giocatori come Lampard, Mendieta, Mahrez, Kanté. Tra questi c'è anche "Pepito" Rossi a Parma.

E proprio con la libertà lasciata ai giocatori che lo ricorderemo: una carriera dedicata a loro, a valorizzarli, a lasciargli il palcoscenico, sempre. Anche quando l’impresa è obiettivamente al di fuori di ogni possibilità, come a Leicester, la più grande sorpresa della storia della Premier League, forse anche di tutto il resto del calcio. Anche quando porta il Cagliari di peso in Serie A con una miracolosa vittoria all’ultimo respiro. Tutto merito dei giocatori, è così che ha sempre presentato le sue vittorie.

Ranieri ha passato quasi 40 anni sul palco del calcio europeo, quello di provincia e quello delle grandi metropoli, come un grande presentatore, a valorizzare ogni volta l’artista di turno, senza rubare tempo e spazio, con poche parole. E quanti ne abbiamo visti, di quegli artisti, e quanti ne abbiamo amati. Ma non ci siamo mai accorti che il protagonista più amato dello show era lui, Ranieri: così diverso dagli altri, così vicino a noi anche in un mondo, quello calcistico, che ormai sembra separato dalla realtà.

Un uomo che piange spesso, che vince e perde, che cade e si rialza. Claudio Ranieri uno di noi, lo stanno scrivendo (in italiano) sui social praticamente tutti i tifosi delle sue squadre, anche quelle straniere. Non perché è un tifoso come loro, no: perché è rimasto sempre fedele al “fettina” di San Saba, al calciatore del Catanzaro, all’allenatore del Campania Puteolana. Claudio Ranieri ha cambiato tutto, squadre, paesi, giocatori, moduli, ma non ha mai cambiato la sua normalità.

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