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Il classificone: Gennaio
07 feb 2014
07 feb 2014
I gol più belli, le perle della Liga, il miglior giocatore NBA, i migliori colpi di mercato, i più forti calciatori, i peggiori tweet e il ruolo calcistico più importante del primo tra tutti i mesi dell'anno.
(articolo)
37 min
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span style="color: #0000ff;">I Gol del Mese

di Daniele Manusia (@DManusia)

10. Emmanuel Badu. 19 gennaio. Udinese-Lazio 2-1 (finale 2-3). Assist: Maicousel.

Il mese di gennaio è stato ricco di bei gol, soprattutto ricco di belle esecuzioni. Questo di Badu magari in un altro mese sarebbe in una posizione di classifica migliore, ma dando un'occhiata d'insieme devo dire che è quello che mi piace di meno. E mi piace molto, in realtà. Mi piace sia lo stop di petto per preparare la volée sia il modo in cui Badu controlla la volée stessa, colpendo la palla di collo esterno, con il corpo trasversale al campo, con la forza giusta perché il tiro non finisca in curva né si afflosci come un dolce con poco lievito. Avesse tirato di sinistro forte sotto l'incrocio del primo palo, o si fosse trovato bene con il corpo per calciare di destro sul secondo, non sarebbe stato così bello. (A proposito, è rimasto fuori dalla classifica il gol di Sardo in Chievo-Napoli.)

9. Luca Toni. 6 gennaio. Udinese–Verona 0-2 (finale 1-3). Assist: Romulo.

In questo caso almeno metà del gol andrebbe attribuito a Romulo che con l'uomo addosso si inventa un filtrante di esterno di gran classe. Ma è molto bella anche la conclusione in scivolata di Toni. Sono affascinato da sempre dalla grazia sgraziata con cui Toni si muove in area di rigore tipo Godzilla tra i palazzi di Tokyo e il fatto che riesca a coordinare il suo scheletro da dinosauro per scivolare e anticipare il portiere con un tocco delicato mi sembra degno di nota.

8. Arturo Vidal. 18 gennaio. Juventus-Sampdoria 1-0 (finale 4-2).Assist: Paul Pogba.

Già il mese scorso ho scelto un gol la cui bellezza stava nel gioco di squadra della Juventus e in quanto è difficile seguire gli inserimenti di Vidal. In questo caso la difesa della Sampdoria è presa in contropiede e commette qualche errore nel gestire il 5 vs 5, ma il merito va in gran parte al movimento collettivo della Juve che porta addirittura due uomini a inserirsi nel buco. Dalle immagini televisive poi si apprezza il tocco (no-look?) con cui Pogba fa passare la palla tra le gambe di tre avversari e l'esterno cinico di Vidal, contro-intuitivo, contro-il-movimento-che-stava-facendo, contro-la-coordinazione-di-un-uomo-normale, che non so quanti centravanti di ruolo sarebbero stati in grado di fare al suo posto.

7. Roberto Pereyra. 6 gennaio. Udinese-Verona 1-2 (finale 1-3). Assist: pallone scodellato in area un po' a caso.

Come dicevo è stato un mese di bei gesti tecnici. Qui il modo in cui Pereyra manda a vuoto Janković con un palleggio di sinistro (pensavo l'avesse presa di piatto, ma nel replay si vede che taglia la palla con il collo del piede dandole un effetto all'indietro) e poi tira al volo di destro, in un'area comunque affollata, chiudendo la schiena e piegandosi per non mandare la palla alle stelle, praticamente è da beach soccer. Trattandosi di un argentino potrei dire che è un gesto da vero sudamericano, ma dipende uno cosa si immagina quando si parla di calcio sudamericano, se le strade, la droga e la povertà o le spiagge, il sole, le mezze rovesciate.

6. Marco Sau. 26 gennaio. Cagliari-Milan 1-0 (finale 1-2) Assist: Mauricio Pinilla (e prima di lui i piedi di Marco Amelia).

Allora, Marco Sau è ufficialmente uno dei miei giocatori preferiti. Non ho molti argomenti se non che fa spesso cose che fanno scorrere fiumi di neurotrasmettitori eccitatori tra le pareti del mio cervello. Qui, dopo il brutto rinvio di Amelia, che evidentemente in tutti questi anni ha continuato ad allenarsi pensando che prima o poi avrebbero tolto la regola del retropassaggio e i portieri sarebbero potuti tornare a giocare la palla con le mani, quindi a che serviva allenarsi con i piedi, Sau si inserisce bene, controlla di petto la palla di Pinilla e tira il freno a mano mettendo a sedere lo stesso Amelia e facendo fare uno strano giro su stesso a Bonera, che ultimamente non sembra nel pieno possesso del proprio corpo. Sau avrebbe potuto fermarsi, portarla avanti qualche metro, inginocchiarsi e metterla dentro di testa. Non so perché non l’ha fatto.

5. Gervinho. 26 gennaio. Verona-Roma 1-2 (finale 1-3). Assist: Arsene Wenger.

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Contesto: la partita di Verona si era messa male per la Roma dopo che aveva subito il pareggio. Certo, la squadra di Mandorlini è una delle poche squadre in teoria piccole che (in Italia) provano a non chiudersi del tutto con difese a 5 e due o tre terzini simultaneamente in campo, quando incontrano avversarie più blasonate, ma di spazi ce n'erano pochi e senza Totti e Pjanić in campo ci si iniziava a chiedere chi sarebbe stato capace di rompere l'equilibrio. Ecco, tutto mi sarei aspettato tranne che Gervinho facesse una cosa del genere. Ma non nel senso: Gervinho ha sconfitto i pregiudizi di chi diceva che non era decisivo ecc... cosa che magari avrà anche fatto (un po' come tutti i giocatori nei momenti buoni fanno, dato che tutti i giocatori hanno i loro critici), intendo proprio dire che non l'ho mai visto muoversi in orizzontale all'altezza del limite dell'area e cercare consapevolmente, come una possibile soluzione, come se facesse parte del suo repertorio, il tiro. Le due accelerate con cui si prende lo spazio, il tiro secco che fa sembrare tutto troppo facile, semplicemente non aveva mai fatto un'azione del genere senza sbavature, una cosa magari non bellissima, ma perfetta.

4. Domenico Berardi. 12 gennaio. Sassuolo-Milan 1-2 (finale 4-3). Assist: Jasmin Kurtić.

Questo gol (il primo del video) è simile a quello di Toni o quello di Vidal. La palla di Kurtić è meravigliosa, ma il quarto posto in classifica è dovuto a Berardi, al taglio prima ancora che Kurtić anche solo pensasse di passargli il pallone (e ricordo che il migliore della Storia del Calcio a tagliare in area di rigore era Raúl Goanzález Blanco), e a come controlla di destro e si gira in corsa su Abbiati in uscita per calciare di sinistro. Non sono un grande talent-scout e non ho visto abbastanza di Berardi per unirmi ai cori entusiasti (anche se mi fido dell'autorevolezza di alcune delle voci che fanno parte del coro), ma in questo gol ci sono le scintille forse di quel talento di cui si parla, forse è il riflesso delle pagliuzze d'oro di un fiume del Klondyke, forse solo un pezzo di vetro tra i sassi.

3. Hernanes. 19 gennaio. Udinese-Lazio 2-3. Assist: Antonio Candreva.

I laziali scrivono mail di offese all'Ultimo Uomo perché io scrivo che Keita sarebbe più felice con Rudi Garcia e andrebbe lasciato in un cesto di vimini davanti a Trigoria. Scrivono che magari domenica mi mette il cesto di vimini dove merito (non sto parafrasando, la mail era molto educata, ci tengo a dirlo). Io non mi offendo, anzi lo capisco. Adesso però ci tengo a precisare la mia posizione. Mio padre è laziale, come dico quasi in ogni pezzo che scrivo, il che a volte stempera e a volte amplifica la mia ostilità per i colori bianco e celeste. Di fondo però c'è un affetto che mi impedirebbe di gioire se, mettiamo, la Lazio quest'estate vendesse anche Candreva e Marchetti e andasse in B la stagione dopo, con tutto Keita e il cesto di vimini. Lo dico non senza ironia, ma credetemi, preferirei non succedesse. Capita spesso che prenda una cotta per un giocatore della Lazio. Mi piaceva Petković. E poi io vorrei che il derby di Roma contasse qualcosa davvero, non riesco a eccitarmi solo perché è il derby. Non ho nessuno da prendere in giro, mio padre ha una certa età, non c'è gusto. Ad esempio ai tempi della Lazio di Cragnotti io soffrivo, certo, ma in un certo senso avere un nemico di alto livello nobilitava anche la mia Roma. Dovevamo migliorare per battere una delle migliori squadre al mondo, aveva senso. Adesso che neanche la migliore squadra italiana è tra le migliori al mondo, che senso ha? Persino perdere a quei tempi aveva un sapore migliore, il gol di Lulić in Coppa Italia mi ha lasciato solamente la bocca asciutta. Non ci guadagna nessuno dallo squallore. Ad ogni modo, questo è l'ultimo gol di Hernanes con la maglia della Lazio. Doppio-passo e tiro da tre (in tutti i sensi). Spero che almeno questo i tifosi della Lazio che mi leggono riescano a goderselo. Io lo metto sul podio, a scanso di equivoci.

2. Alessandro Florenzi. 12 gennaio. Roma-Genoa 1-0 (finale 4-0). Assist: rimpallo della barriera su punizione svociata di Francesco Totti.

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@figurinepanini ha risposto alle molte segnalazioni dicendo che per la copertina del prossimo anno non promettono niente e che per il momento si complimentano con @AleFlorenzi per il gol (qui se preferite un video alla gif). @lUltimoUomo si unisce ai complimenti ma si lamenta del fatto che la palla sia entrata toccando la base del palo anziché sbattere sotto l'incrocio dei pali con violenza. Anzi, l'Ultimo Uomo si lamenta che la palla non abbia colpito in piena pancia il povero Perin strappandogli i guanti e facendolo cadere all'indietro nella polvere prima di strappare la rete e continuare la sua corsa facendo un buco nel muro dell'Olimpico (oltre l'odiatissima pista ciclabile, quindi). Per questa sua umiltà l'Ultimo Uomo non premia con il primo posto la rovesciata di Alessandro Florenzi. Adesso che sapete perché, andate di defollow.

1. Alessandro Lucarelli. 6 gennaio. Parma-Torino 2-1 (finale 3-1). Assist: Nicola Sansone da calcio d'angolo.

Sul serio, il tacco di Lucarelli a me piace di più. Secondo me ci vuole anche più fegato per un difensore centrale oltre i trent'anni a provare un tacco al volo di quanto ce ne sia voluto a Florenzi per fare quella rovesciata (che poi, voglio dire, aveva già fatto questa con la maglia del Crotone). Alessandro Lucarelli entra a far parte di una gloriosa tradizione, il gol di tacco esterno sul primo palo, di cui fanno parte nomi illustrissimi come Roberto Mancini (fatto proprio in quello stesso stadio, adesso non so se la bandierina del calcio d'angolo era la stessa) e Zlatan Ibrahimović. (E vi prego se ne avete in mente altri scrivetelo nei commenti—con video, grazie). Mettiamola così: nella rovesciata di Florenzi quello che non mi piace è la delicatezza e l'umiltà di chi si rende conto che sta facendo una cosa eccezionale e vuole farla bene. Il fatto che in fondo sia solo un tiro molto difficile e preciso. In questo caso invece mi piace il gesto vagamente effeminato con cui Alessandro Lucarelli offre la sponda al pallone mandandolo sotto l'incrocio. Chissà se a parti invertite avrei premiato il tacco di Florenzi o la rovesciata di Lucarelli.

Le Perle del Mese in Liga

di Valentino Tola (@ValentinoTola1)

1. Villarreal-Real Sociedad 5-1

Non certo nel suo miglior periodo di forma, il Villarreal ha comunque regalato a inizio anno la prestazione di squadra forse più spettacolare vista finora. La Real Sociedad (concorrente per un posto europeo) superiore per solisti ma travolta 5 a 1 da un uragano di gioco corale. Del Villarreal conquista la capacità di fare sempre il proprio gioco indipendentemente dall’avversario e dal contesto tattico, a difesa avversaria schierata o in contropiede, pressando o iniziando dalle retrovie. Difesa della Real Sociedad nel primo tempo devastata dai classici tagli laterali delle punte del Villarreal che separano i centrali avversari; nella ripresa invece, di fronte al passaggio della Real Sociedad dal 4-1-4-1 al 5-4-1, il Villarreal inizia l’azione del 3-0 cercando una nuova situazione di superiorità fra le linee (appoggio di Dos Santos alle spalle dei due mediani baschi). Le squadre che giocano bene hanno una risposta ad ogni problema.

La vera immagine della partita, purtroppo introvabile su YouTube, è l’esultanza di Marcelino al secondo gol: nessuna eccentricità in favore di telecamera, ma un sorriso talmente spontaneo da far sembrare per un attimo che tutto questo sia solo un gioco. Persino per un tecnico precisino che rimane dell’idea che giocare bene significhi non concedere occasioni all’avversario.

E del resto, la cosa più bella del calcio è quando alcune squadre (il Barça di Guardiola, l’Arsenal 2003-2004, ma anche la Russia 2008) riescono a trascinarti tanto da farti dimenticare i dettagli: chi ha segnato, chi ha fatto l’assist, chi gioca dove, chi vince… tutto si dissolve nella purezza del gioco. Siamo proprio sicuri che il 2-0 lo abbia segnato Uche? O non sarebbe molto più corretto scrivere sul tabellino dei marcatori tutti e undici?

2. La consacrazione di Rafinha

Ancora non sappiamo se al Barça tocchi rimpiangere la cessione di Thiago Alcántara, che già si profila un analogo problema col fratellino, Rafa detto “Rafinha”, che sta approfittando del prestito al Celta Vigo come meglio non potrebbe.

Pur nella discontinuità di gioco e risultati del Celta di Luis Enrique (comunque in crescita), Rafinha gode dei benefici della continuità di modello di gioco rispetto alle giovanili del Barça. 4-3-3, possesso-palla e riferimenti arcinoti: da ala destra che si accentra (magnifiche prestazioni al Bernabeu e contro il Valencia), oppure da mezzala sinistra (determinante a Granada), il rendimento non cambia, e l’unico rimpianto è non poterlo vedere contemporaneamente in entrambi i ruoli, perché il gioco è sempre più chiaro quando passa dai suoi piedi.

Come il fratello ha quella tecnica nel dribbling tipicamente brasiliana, decelerare e condurre il pallone più vicino possibile all’avversario, ancheggiando fino a quando quest’ultimo non scopre il lato in cui spostare all’ultimo il pallone e lasciarlo sul posto.

A differenza del fratello però Rafinha è mancino, e ha scelto la Nazionale brasiliana. Più immaginazione nell’ultimo passaggio per Thiago, più rapidità sul breve per Rafinha. Sempre al centro della manovra Thiago, più portato ad accelerare nell’ultimo quarto di campo Rafinha, che ha visione di gioco ma non è un organizzatore, anche se pare avere una maggior disciplina nel gioco di posizione rispetto al fratello, allontanandosi anche dal pallone quando occorre creare la linea di passaggio. Con Fàbregas, Iniesta e Xavi a centrocampo, Messi come falso centravanti (altro ruolo ricoperto da Rafinha) e anche la potenziale difficoltà d’impiego sugli esterni (che vista la contemporanea presenza del falso centravanti devono cercare la linea di fondo o dettare comunque la profondità) però sembra difficile trovare posto alla fine del prestito. Potenziale uomo-mercato la prossima estate.

3. Democrazia del tiqui-naccio

23 Giugno 2012. Il giorno in cui il calcio rischiò di venire ucciso. Quella sera a Donetsk, la Spagna dimostrò che passarsi la palla senza perderla mai è una tattica plausibile. Con appena uno-due giocatori all’avventura in area avversaria di volta in volta, il tanto che basta per un 2-0 algido, una sorta di esperimento di laboratorio sulle innocenti cavie francesi. Da spettatore abituale della Nazionale spagnola, ricordo di non aver provato alcuna emozione durante quella partita, e nemmeno potermi lamentare per un gioco a suo modo perfetto.

Il momento più grandioso e quindi terrificante del tiqui-naccio: se però è inquietante l’assolutezza della Nazionale, come misura contingente però, il catenaccio-col-pallone può risultare affascinante: perlomeno è un’alternativa più sofisticata all’autobus davanti alla porta. Farlo al Bernabeu, come il Granada, poi non è da tutti.

Il Granada è diventato più competitivo da quando ha compensato la carenza di peso offensivo (il centravanti titolare, Youssef El-Arabi, nonostante un meraviglioso nome da eroe della decolonizzazione, non è uno sfondareti, mentre la religione di Brahimi proibisce l’assist e il tiro in porta) col passaggio a tre centrocampisti centrali (Iturra-Fran Rico-Recio) e a un notevole controllo (324 passaggi solo nel primo tempo con l’Osasuna in casa-media da Madrid e Barça!).

Il primo tempo del Granada nel tempio madridista ha suscitato reazioni ambivalenti: da un lato è vero che Diego López poteva tranquillamente appisolarsi (e nella ripresa con uno sforzo maggiore il Madrid ha portato a casa i 3 punti) ma dall’altro nemmeno il Madrid tirava in porta e i tanti passaggi inoffensivi ma utili a mantenere la squadra raccolta spezzavano il ritmo come non si vede spesso fare a una piccola al Bernabeu. Il dato interessante è che se attuato con metodo il tiqui-naccio può essere un’arma a cui ricorrono anche squadre dal tasso tecnico non eccelso.

Il miglior giocatore NBA del mese

di Dario Vismara (@Canigggia)

The Slim Reaper Era has only just begun.

Quando, tra qualche anno, ci guarderemo indietro e ripenseremo al mese di gennaio di Kevin Durant, sono solo due le opzioni che ci potranno venire in mente: A) è in quel mese che KD ha superato LeBron James come miglior giocatore del mondo; B) è in quel mese che KD magari non ha superato LeBron James, ma di sicuro ci è andato vicino più di chiunque altro. La sensazione è che nei primi 30 giorni del 2014 Durant abbia dato definitivamente inizio alla sua era, dopo che quella precedente è stata segnata dai quattro titoli di MVP in cinque anni di LeBron. C’è anche un soprannome e un’immagine nati su Reddit a dare immediato senso a quello che ha fatto Durant: “The Slim Reaper”, giocando sulla sua naturale magrezza (“Slim”) e la Morte, o per meglio dire il triste mietitore (“Grim Reaper” in inglese). In effetti il soprannome, che pure a Durant non piace («Troppo oscuro, io voglio essere uno che illumina e dà gioia, non voglio essere associato alla morte. Se dipendesse da me, sceglierei ancora KD»), rende abbastanza l’idea della mietitura andata in scena nell’ultimo mese: 36 punti, 6 rimbalzi, 6 assist di media col 55% dal campo, il 43% da tre, l’89% ai liberi, con una percentuale “reale” (contando il peso diverso dei tiri da 1, 2 o 3 punti) del 68,5%. In questo mese è andato per 12 volte consecutive sopra i 30 punti, striscia che negli ultimi 30 anni hanno fatto solo giocatorini come Michael Jordan (1987), Shaquille O’Neal (2001), Kobe Bryant e Tracy McGrady (2003). (Piccola parentesi: parliamo di «ultimi 30 anni» perché altrimenti avremmo dovuto inserire anche Wilt Chamberlain, che di partite sopra i 30 ne ha fatte SESSANTACINQUE di fila nel 1961-1962—la leggendaria stagione dei 50 di media).

Il motivo di queste esplosioni è abbastanza semplice: a fine 2013 si è fermato di nuovo Russell Westbrook, l’altro All-Star di OKC, e Durant si è dovuto sobbarcare il peso offensivo della squadra sulle sue spalle. Normalmente ci si sarebbe aspettati che, con un impiego e uno sforzo maggiore (il 35% dei possessi dei Thunder con lui in campo si è concluso con un suo tiro, assist, fallo subito o palla persa, top nella Lega), la sua efficienza necessariamente calasse, viste le attenzioni riservate a lui dalle difese avversarie. D’altronde era già successo negli scorsi playoff, quando senza Westbrook i suoi punti si erano sì alzati a 32 di media (+4 rispetto alla regular season appena conclusa), ma tirando col 46% dal campo (-5%), il 34% da tre (-7%) e l’81% ai liberi (-9%), perdendo inoltre 4,4 palloni di media (+1) e venendo eliminato in cinque partite dall’asfissiante difesa dei Memphis Grizzlies. Stessa storia? Macché: ok, Durant ha perso 3,8 palloni di media, ma è anche diventato un distributore da 5,3 assist a partita in stagione (lui che in carriera si ferma solo a 3,3) e ha contemporaneamente migliorato sé stesso e i suoi compagni, portandoli di peso a dieci vittorie di fila e al miglior record ad Ovest (39-11). Nel solo ultimo mese ne ha messi 48 a Minnesota, altri 48 nello Utah, 54 in casa contro Golden State, 46 contro Portland e 41 contro Atlanta, più vari canestri della vittoria sparsi qua e là e una vittoria in rimonta a Miami che ancora fa male a LeBron, il quale ha dichiarato che «Kevin Durant non si può marcare uno-contro-uno». C’è da credergli: solo nell’ultimo mese ha quasi tante partite oltre i 40 punti (cinque) quanto il resto della Lega tutto assieme (sette). Nel solo ultimo mese ha segnato più punti (575) di due All-Star come James Harden (277) e Damian Lillard (266) insieme. Nel solo ultimo mese è riuscito a portare il suo definitivo attacco al trono di LeBron James, e probabilmente ora solo lui può perdere il titolo di MVP. E lui come risponde? «Tutto merito di Dio. Gesù Cristo. Io non ho niente a che farci». Sinceramente, KD o “Slim Reaper” che sia, ci permettiamo di dubitare.

I 10 colpi di calciomercato

di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)

10. Michael Essien (svincolato, dal Chelsea al Milan)

Come succede che un pupillo si depupillizzi? Perché Mourinho, che dopo averlo allenato al Chelsea lo voleva all’Inter, e poi l’ha portato al Real con sé, e via ancora sulla strada di ritorno verso Stamford Bridge, poi a un certo punto ha deciso di non utilizzarlo più-ma-proprio-più? Semplice scelta tecnica? O c’è di più? In che condizioni sono i legamenti crociati operati due volte negli ultimi due anni? Riuscirà Essien a trovarsi a suo agio a Milano, come gli ha suggerito Mou? E negli schemi tattici di Seedorf? Serve davvero uno come Essien, al Milan? Quante scommesse ha vinto, e quante ne ha perse, Galliani?

9. Alessandro Matri (prestito secco, dal Milan alla Fiorentina)

Il fatto che nell’auto search di Google Alessandro Matri sia il quarto Alessandro M dopo Magno, Manzoni e Mannarino si può riassumere in un solo aggettivo, lo stesso che utilizzerei per definire il suo esordio in maglia viola, dove arriva sì per sostituire Pepito Rossi infortunato, ma anche per darsi una chance in vista del Mondiale. L’aggettivo che accomuna l’esordio e quella strana faccenda di Google, insomma, è eccessivo.

8. Jorge Luiz Frello (10 Milioni, dall’Hellas Verona al Napoli)

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Non è che tutti i mali vengano poi per nuocere. Se è inopinabile che Benítez, per il suo Napoli orfano di Behrami infortunato, avrebbe preferito un mediano di sostanza à la Nainggolan, è pur vero che Jorge Luiz Frello al secolo Jorginho è uno dei prospetti più interessanti del calcio italiano già da qualche tempo—e nel Classificone di novembre s’era pure guadagnato la terza piazza da MVP come trascinatore dell’Hellas. Non propriamente un ripiego, insomma. Tutti contenti, quindi? Parrebbe di sì: il Verona, nella prima uscita dejorginhizzata, contro la Roma ha dimostrato d’essere compagine ad ogni modo solida e ben organizzata, e poi è riuscita a far cassa. Di par suo, Jorginho si troverà in una piazza importante—per quanto ribollente di malcontento e sul punto d’eruttare dopo le ultime prestazioni non proprio brillanti—che potrebbe aiutarlo molto a maturare e puntare—perché no—a una convocazione da parte di Prandelli. O bruciarlo prima del dovuto.

7. Anderson Luís Abreu de Oliveira (prestito con diritto di riscatto a 6,5 Milioni, dal Manchester United alla Fiorentina)

Beninteso: Anderson non è più quel giocatore eroe di battaglie epiche, scoppiettante gran burattinaio delle manovre di centrocampo e incursore con gamba e pericolosità che spadroneggiava nel Porto quando Alex Ferguson s’è incaponito per portarlo all’Old Trafford. Ma non è neppure il tipo di giocatore da 5 milioni a stagione che Moyes può permettersi di tenere in panchina. Così, ad occhio, sembrerebbe che ci abbiano guadagnato un po’ tutti, quindi: il Manchester United che fissando un prezzo di riscatto ragionevole a fine prestito può scrollarsi di dosso l’oneroso ingaggio del brasiliano; la Fiorentina che si aggiudica le prestazioni di un talento sicuro, magari un po’ in fase di stallo, che ha tutte le ragioni—e i presupposti—per riscattarsi (anche dall’onta che gli ha appioppato ultimamente Ferguson, tu quoque, d’essere il principale colpevole della sconfitta del Man Utd nella finale Champions League di Roma del 2009) come playmaker della squadra di Montella.

6. Adel Taarabt (prestito con diritto di riscatto a 7 Milioni, dal Fulham al Milan)

La prima cosa che mi è venuta in mente quando ho letto il rumor che voleva Taarabt al Milan in cambio di Zaccardo è stata che Taarabt è l’anagramma di Baratta, quindi ottimo per uno scambio alla pari (e sulla scontatezza di Zaccardo come merce di scambio m’è soggiunto un altro anagramma, che rievoca la trascrizione fonetica d’un’espressione ideologica romana che inizia per grazie: arccadzo).

Alcune trivialità su Taarabt: è nato a Fez, una delle città imperiali del Marocco, il giorno in cui il Milan di Sacchi travolgeva lo Steaua Bucarest a Barcellona nella finale di Coppa dei Campioni; si è trasferito giovanissimo al Tottenham dove ha fatto la stessa fine di un altro talentuosissimo (Giovani), più o meno ignorato da Juande Ramos, Redknapp, chiunque si sedesse sulla panchina degli Spurs; ai tempi del Qpr era il pupillo di Briatore; passato al Fulham, una volta ha reagito a una sostituzione nel bel mezzo di una disfatta indossando la tuta e pensando bene d’andarsene a casa in autobus; quando un anno fa già si parlava di un interessamento del Milan per lui, disse «Ah, sì, ci gioca anche il mio amico KP Boateng. Beh, se ci gioca lui che quando eravamo in squadra insieme faceva panchina credo di averla anch’io una chance».

5. Kostas Mitroglou (14 Milioni, dall’Olympiacos al Fulham)

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Mitroglou è uno dei centravanti più appariscenti, prolifici, muscolari e sfacciati a calcare i campi europei. E non è certo una scoperta dell’ultima ora, anche se solo con l’arrivo di Michel sulla panchina degli ellenici sembra aver trovato una concretezza inedita, la consapevolezza del trascinatore. Nel girone d’andata della Super League greca “Mitroglicerina” è andato a segno diciassette volte in diciannove partite—alla dodicesima giornata aveva già inscenato la sua esultanza da cecchino quattordici volte, medie stratosferiche; quasi-da-solo ha trascinato la sua Nazionale sul volo per Rio, devastando la Romania. In Champions League s’è portato a casa il pallone della sfida—decisiva per il passaggio del turno—contro l’Anderlecht. Perché allora non se l’è accaparrato una squadra italiana? Perché, omen nomen, Mitroglou: Kostas. Quindici milioni di euro, per la precisione. Vestirà, per la metà di stagione che rimane, la maglia del Fulham (che nel frattempo ha ceduto Berbatov, altro feticcio del calciomercato italico nella sessione estiva, al Monaco orfano di Falcao), cercando di salvare dalla retrocessione i Cottagers, al momento ultimi.

4. Anderson Hernanes de Carvalho Viana Lima (18 Milioni, dalla Lazio all’Inter)

Mettiamola così: siete il presidente di una start-up e avete un marketing manager brillantissimo, che regge sulle spalle da sé tutto il peso dell’operatività e del prestigio aziendale (in declino, peraltro). Una concorrente cerca di soffiarvelo offrendogli un adeguamento di stipendio importante e offrendosi di pagarvi un’ottima buona uscita. Il vostro marketing manager è attratto dalle prospettive di carriera, ma è anche molto affezionato alla dimensione provinciale dell’impresa, e amato dai consumatori. Anzi, la faccio ancora più semplice: avete un’ortofrutticola piccola piccola in una zona alla quale solo per caso capita, a periodi alterni, d’essere di moda. Il banconista della vostra ortofrutticola fa gola alla catena di supermercati all’angolo, che ha da poco cambiato gestione e non ha ancora trovato—il direttore commerciale lo chiede da tempo—un addetto che sappia far spuntare il sorriso agli acquirenti del quartiere maneggiando peperoni e zucchine. A chi prestereste ascolto? Agli acquirenti delle melanzane, ai follower di twitter della start-up o al concorrente che vi permette di far cassa?

Non c’è da starci a riflettere troppo, vero? Ecco, Lotito la pensa come voi. (Poi le lacrime rendono sempre ogni cosa più umana, tanto nel calcio quanto nell’ortofrutticola.)

3. Pablo Daniel Osvaldo (prestito con diritto di riscatto a 18 Milioni, dal Southampton alla Juventus)

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Un’incandescente Roma ferragostana lo salutava così, e di certo non lo accoglierà lanciandogli margheritine di campo dalla Curva Sud quando a Maggio tornerà nella capitale con indosso la maglia bianconera della Juventus. C’è motivo di credere che Osvaldo si sia fatto consigliare quale traiettoria di carriera seguire per far incazzare gli ex-sostenitori direttamente da Alberto Aquilani, che in quanto a mefistofelicità non è secondo a nessuno (il gioco è semplice, l’ultima è sempre acerrima rivale di una delle precedenti: Roma > Liverpool > Juventus > Milan > Fiorentina). Ma Simba, si sa, ha le spalle larghe, cappottini à la page e copricapi sbarazzini (e poi hat e hate sono quasi omografi) che sembrano fatti apposta per farsi appiccicare sulle spalle l’epiteto di “bombetta” di mercato. E poi lui è un professionista: biplana dov’è al soldo (anagramma di Pablo Daniel Osvaldo). Alla Juventus troverà una concorrenza agguerrita—oltre Tévez si giocherà un posto con Llorente, Quagliarella, Vucinic, Giovinco. Poi che c’entra, dovrà ridimensionare il suo ego, fare un bagno d’umiltà e far dimenticare certe sue elucubrazioni d’un post Juve-Roma.

Ma se l’obiettivo di Conte è giocare spesso con un centravanti-vecchia-maniera, alla boa ex Bilbao non c’è alternativa migliore, in Europa, alle condizioni economiche con cui è arrivato, di Osvaldo.

2. Juan Manuel Mata Garcìa (45 Milioni, dal Chelsea al Manchester United)

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Juan Mata ha un blog con il simpatico nome di One Hour Behind (Un’Ora Indietro) nel quale racconta l’esperienza calcistica oltremanica con—appunto—il fuso orario spostato d’un’ora rispetto alle lancette di Madrid. Mata è di Burgos. Dei burgalèsi si dice siano freddi e scontrosi. Mata dev’essere l’eccezione che invalida la regola, perché quando qualche giorno fa è arrivata l’ufficialità del suo trasferimento all’Old Trafford ha scritto una lettera di ringraziamento ai tifosi, compagni, membri dello staff tecnico e societario del Chelsea che ogni lettera sembrava di zucchero filato, tanto era dolce e riconoscente e commossa e partecipata (tanto che pure i passaggi apparentemente provocatori, tipo quello in cui dice «Non posso né voglio dimenticare la fiducia che avete riposto in me nel momento in cui m’avete eletto miglior giocatore della squadra in ognuna delle due stagioni in cui ho avuto modo di giocare con continuità», capito?, sono stato il migliore quando ho giocato con continuità, pure quei passaggi apparentemente provocatori diventano lascito carezzevole). Insomma: nonostante tutto, Mata è uno che t’ama.

Moyes dice che Mata, RVP e Rooney possono giocare insieme, eccome. Averceli, di quei problemi.

1. Radja Nainggolan (comproprietà, 6 milioni, dal Cagliari alla Roma)

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Un anagramma di Nainggolan è “a long gain”. La gain line, nel rugby, è la linea di vantaggio, quella linea immaginaria parallela alla meta nella quale si concentra la quintessenza del gioco: avanzare, rosicchiare territorio all’avversario, ridurre lo specchio d’acqua in cui nuotano i tonni prima di scatenare la mattanza. Nainggolan è per la Roma un superare la linea di vantaggio, la ciliegina sulla torta d’una sessione di tesseramenti che per strategia, lungimiranza e spettacolosità rasenta il capolavoro. Nainggolan non è solo l’uomo perfetto che mancava ai giallorossi per tentare la rimonta alla Juventus (e che non a caso è stato annunciato ufficialmente proprio all’indomani della sconfitta degli uomini di Garcia nello scontro diretto, puro atto di dichiarazione bellica, rivendicazione di forza), il puntello che apporta muscoli (tatuati) al centrocampo, il rincalzo di lusso che Bradley non era e che serviva a Garcia per far tirare il fiato a De Rossi, Strootman e Pjanic senza starsi a preoccupare di potenziali rimpianti: vincere una concorrenza spietata e aggiudicarsi l’ex cagliaritano significa anche offrire un palcoscenico importante a un ragazzo che punta a ritagliarsi uno spazio nel Belgio-delle-sorprese che tutti s’aspettano in Brasile (e il tweet del ct Wilmots profuma, in questo senso, di endorsement), e anche gettare le basi per la penetrazione in un mercato nuovo (tipo quello indonesiano, appunto). Significa dare lustro a un progetto che non solo, come carta moschicida, ha finito per attirare a sé molti interessanti prospetti dell’élite calcistica mondiale, ma che ha pure in un certo senso mosso ’l sole e l’altre stelle, dando principio a una gazzarra di passaggi che da sé hanno fatto il mercato di altre società di A (il giovane paraguaiano Sanabria, per esempio, dopo essere stato strappato al Barcelona B è stato girato in prestito al Sassuolo; così come l’astro nascente—prelevato dal Boca Juniors—Paredes è andato a rinfoltire la linea d’attacco del Chievo). Nainggolan, insomma, è un po’ la metonimia di questa sessione di mercato. Se non è questo un colpo, ditemi quale.

I 5 migliori giocatori del Mese

di Fulvio Paglialunga (@FulvioPaglia)

Dice Silvio Pagliari (uno di quegli uomini di calcio a cui lasceresti il portafogli e le chiavi della macchina con il pieno e sai che, tornando dopo un mese, troveresti tutto com'era, e nonostante tutto ha fatto carriera) che «tutti parlano di calcio, ma pochi sanno parlare di calciatori». Non sono tra i “pochi” di Pagliari, ma qualche motivo personale per scegliere i migliori del mese di gennaio ce l'ho.

1. Keita Baldé Diao

Se l'avete visto giocare in tv e vi è piaciuto molto, vedendolo dal vivo potreste innamorarvene sul serio. Sembra piccolo, ma è un'illusione. È giovane e questo è incontestabile (è del '95. Reja, quando è nato, ne aveva 50 e allenava da 15). Si trova qui e non tra le stelle nascenti del pallone globale per scherzo. Nel vero senso della parola, perché altrimenti sarebbe al Barcellona. Ma nella cantera creano talenti e anche un po' robot, quindi uno che mette i cubetti del ghiaccio nel letto del compagno di squadra durante una tournée in Qatar va spedito altrove anche se nel frattempo ha segnato quasi 300 gol. E dal Cornelia, società satellite, il senegalese naturalizzato spagnolo rifiuta di tornare, finendo alla Lazio che paga (sì, Lotito paga: non è un ossimoro) 300mila euro e lo porta a casa, affidandolo a un maestro come Bollini (ora secondo di Reja) senza poterlo far giocare perché in attesa del passaporto comunitario. Il punto è che se si pensa a quello che ha fatto Keita contro il Chievo (assist, quasi gol di tacco e gol) non vale per questa classifica perché è all'alba di febbraio, ma basta allora la partita con la Juve e quella sensazione di bellezza a ogni tocco. Keita, che vanta anche due schiaffi da Radu per una litigata nello spogliatoio durante Lazio-Livorno, ha un sinistro dolce e un destro che pure rende. Soprattutto quando non segna (contro la Juve) e gioca solo cinque minuti più due di recupero mostra tutto il suo talento: è un pericolo nascente ogni volta, sa sempre quello che deve fare, sanno quando cercarlo o meglio lo cercano perché lui decida cosa fare. Fare tutto questo in poco tempo è un dono.

2. Dries Mertens

A me il Psv ricorda la gioventù e un sacco di campioni che ho visto partire da lì. Se molti avessero la sincerità come dono direbbero (io, ad esempio, lo dico) che l'arrivo del belga tascabile non sembrava aprire le porte a qualcosa di buonissimo. Di utile, però nel dubbio era meglio aspettare. Gennaio, ad esempio. Mese della consacrazione da subito. Doppietta alla Samp (primo gol di destro in corsa su assist di Higuaín, secondo su punizione che a Napoli se uno sotto il metro e settanta segna su punizione si accende tutto, anche se calcia di destro) e sorrisi larghi e un altro gol al Verona con un destro a giro (che uno del Napoli che segna al Verona, poi...) la settimana dopo. Il punto è che ora Mertens è innamorato di Napoli e viceversa e di chi si è lanciato nei giudizi si può sorridere. Uno su tutti si è guadagnato spazio una condivisione dopo l'altra: Eziolino Capuano, allenatore pittoresco e netto. Sette mesi fa ha detto che «Mertens non giocherà più di otto partite da titolare» sottolineando di conoscerlo bene, confermando la tesi la settimana dopo sempre con lo stesso sprezzo della pronuncia (pure di Strootman), confermandolo a novembre sotto la pressione (in ogni senso) di Anna Falchi prima di fare una mezza marcia indietro dopo la doppietta alla Samp. Ecco perché Mertens sorride. Non solo per Capuano. Quella è una ragione in più.

3. Amauri Carvalho de Oliveira

Amauri era forte. Fortissimo. Al punto che lo abbiamo conteso alla Nazionale brasiliana perché lo volevamo per noi (una sola partita, peraltro: amichevole contro la Costa d'Avorio). Amauri era la favola del ragazzo cresciuto lavorando in un supermercato, in una fabbrica di carbonella, nel settore metallurgico e come muratore, che doveva aiutare la famiglia e giocare a pallone. E che a un certo punto sembra essere pronto al salto e dal Palermo passa alla Juve, ma comincia invece a scendere, anzi a rotolare. Come una palla di neve che diventa valanga. Di Amauri si ghigna, a un certo punto. Però sapeva segnare, non può averlo dimenticato. Infatti la sua è la storia di tanti attaccanti emotivi: in grado di sbagliare tutto o di indovinare sempre, che se segnano possono segnare ancora, se falliscono un gol possono anche non farne mai più. A un certo punto, gennaio ovviamente, il brasiliano che poi è un italiano segna. Nel giorno dell'Epifania, contro il Torino usando tutta la rabbia come forza fisica per sopravvivere alle sportellate e segnare, 1.540 minuti dopo l'ultima volta (la sua più lunga astinenza in serie A), senza poi fermarsi: quattro gol in quattro partite, il Parma secondo per rendimento nel primo mese del 2014 e lui che ringrazia i figli che gli predicono i gol, soprattutto Hugo, che già segna e fa di cognome Amauri e degli imprevisti della vita da attaccante ha capito molto dagli ultimi anni del papà. Segnatevi il nome, di Hugo Amauri.

4. I ragazzi di Birindelli

Alessandro Birindelli, da giocatore, ha sempre dato l'idea di essersi guadagnato tutto. Si è costruito una carriera nella Juve partendo dall'Empoli, resistendo a gravissimi infortuni (la caviglia ko gli costò una stagione intera) e all'umiliazione della serie B, che pure affrontò da bianconero. Da allenatore si va facendo, ma questo non è l'argomento. I suoi ragazzi sono tra i migliori del mese perché hanno uno degli allenatori migliori per chi è piccolo. Con la squadra esordienti del Pisa Birindelli aveva già fatto parlare di sé per aver ritirato qualche settimana fa la sua squadra dal campo perché i genitori litigavano sugli spalti. Adesso sono stati i piccoli calciatori a dare l'esempio: di fronte all'arbitro esordiente (con tanto di tutor) che fischia un rigore al Pisa per un contatto tra portiere e attaccante che in realtà non c'è, loro ammettono la svista, aiutano il debuttante e quel rigore non lo tirano, perché non è giusto. Poi il Pisa ha vinto lo stesso, ma a pensarci bene lo aveva fatto già prima.

5. Giuseppe Rossi

Pepito ha giocato solo una partita a gennaio, il 5 contro il Livorno. E ha rischiato di finire lì la stagione (infortunio al ginocchio già operato, fallo di Rinaudo che gli è costato l'appellativo di farabutto da Della Valle). Ma quando Federico Pastorello, il suo procuratore, ha fatto sapere che l'intervento al ginocchio era scongiurato ha fatto felice chi ama il pallone.

Perché Giuseppe Rossi è già stato troppo lontano dall'Italia e ce lo siamo goduti poco, perché vederlo in campo è sempre una gioia, oltre che gol (è ancora il capocannoniere del torneo, nonostante lo stop). E perché arriva il Mondiale. E un Rossi in attacco serve sempre.

Il ruolo del Mese

di Emiliano Battazzi (@e_batta)

Sì, è vero, a gennaio sono andati forte anche il centravanti e il difensore centrale, ma più di tutti si è affermato un ruolo antico e affascinante, qualcosa che c'è sempre stato e sembrava non esserci più (che per fortuna è tornato, a testimonianza che anche nel calcio "nulla si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma"). L’ala, quel ruolo considerato estinto negli anni '90 e relegato nelle fiabe per bambini, che in tanti anni di assenza era stato rimpiazzato da altri ruoli somiglianti ma più adatti al 4-4-2 o il 5-3-2.

Si è trattato di un declino inevitabile, secondo "Rafa" Benítez: «la classica ala furba e veloce tendeva ad aggredire i difensori che erano meno preparati dei difensori moderni. Oggigiorno la preparazione fisica, tecnica e tattica è molto più completa e i giocatori possono dare di più. Inoltre ricorrono a commettere falli per fermare gli avversari». In base alla spiegazione dell’allenatore spagnolo, con l’evoluzione di schemi più sofisticati e il boom della marcatura a zona, l’ala ha però perso posizioni nelle idee degli allenatori, che hanno ritenuto più opportuno affidare la spinta sulle fasce alla collaborazione tra terzini e interni di centrocampo, e così eccoci al 5-3-2 (o 3-5-2). In questo caso, non basta più un normale terzino difensivo, ne serve uno che corra molto e con qualità offensive, in base all’idea che è più facile insegnare a difendere a un giocatore d’attacco: si impara subito a distruggere, non a costruire.

Alfabeto della fascia: un’ala destra salta il terzino sinistro. L’ala è Garrincha.

In Serie A molti adottano il 3-5-2, dal Parma al Chievo, ma soprattutto la Juventus, con terzini a tutto campo, molto bravi in entrambe le fasi, vera evoluzione della specie. Ma il fascino delle ali è quello di giocatori che sulla fascia fanno il finimondo e saltano l’uomo come ragione di vita e anche se poi non segnano ti ci hanno fatto credere davvero. Insomma, sarebbe bello se nella trequarti avversaria ci fosse qualcosa di meglio di Jonathan.

Qualcosa c’è, in effetti, a partire proprio dal Napoli e sembra quasi che Benítez abbia descritto un processo evolutivo che non condivide. Nel rispondere a un commento di un tifoso del Liverpool, sostiene che gli sarebbe piaciuto molto avere delle ali nel suo periodo ai Reds, ma per un motivo o per un altro Babel, Riera e Pennant non sono andati benissimo e non è riuscito ad acquistare Malouda. In realtà, Rafa non userebbe la difesa a 3 neppure se allenasse la Nazionale cantanti, e quindi la questione del terzino-ala per lui non si pone. E adesso gli hanno messo le ali oppure no?

Il Napoli schiera tre giocatori dietro la punta: sulla fascia destra gioca spesso Callejon, una seconda punta mobile adattata all’esterno; sulla fascia sinistra si alternano Insigne e Mertens, giocatore che potrebbe tranquillamente rientrare nel concetto di ala. Il belga nel mese di gennaio ha effettuato ben 15 dribbling, più di affermati specialisti della fascia (Valencia, Di Maria) e persino più di CR7 (fossi in lui tornerei subito in Belgio per raccontarlo agli amici). Mertens può giocare anche sulla fascia destra o dietro la punta centrale, ma sulla sinistra rende al massimo. Il suo obiettivo è allargare la difesa avversaria, saltare l’uomo e poi passare la palla per il taglio di uno degli altri davanti; oppure, semplicemente, e molto più spesso, accentrarsi e tirare in porta con il suo piede preferito. Il cross è una soluzione quasi estrema, visto che il Napoli non ha un centravanti con le caratteristiche di Llorente, ed infatti la media del belga è piuttosto bassa (0,7 cross a partita).

E poi arriviamo a lui, di cui ormai si è detto tutto, il giocatore che più ricorda l’ala pura di una volta: Gervinho.

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L’ivoriano è l’unico ad avere grande libertà tattica nella Roma: ricerca sistematica dell’1 contro 1, giocate spettacolari ma utili (no alle foche a centrocampo), gioca poco con la squadra ma molto per la squadra (in media circa 27 passaggi utili contro i 40 di Mertens, solo a gennaio). La sua presenza è fondamentale per i compagni, per la capacità di saltare l’uomo (2,6 dribbling a partita, tra i migliori 10 del campionato), ribaltare immediatamente l’azione da difensiva ad offensiva, servire assist decisivi (5 da inizio stagione). Per chi segue il campionato, ormai modalità di gioco e qualità di Gervinho sono evidenti.

A gennaio però qualcosa è accaduto, e forse anche da dicembre, insomma gli avversari hanno capito come si dovrebbe affrontare un’ala come lui (e in generale la Roma): linea difensiva bassa (non lasciargli campo per i contropiede), cioè difensori che aspettano sulla propria. I raddoppi di marcatura (ormai sistematici) riducono le sue possibilità di saltare l’uomo: a gennaio la media dribbling (riusciti) di Gervinho è di 1,5 a partita, quasi la metà di quella stagionale. Inoltre, gli avversari lo spingono spesso lontano dalla trequarti, ed è così costretto ad iniziare l’azione quasi sulla linea della metà campo, a volte persino nella propria. Da Verona (partita d’andata all’Olimpico, pochi pallini rossi a ridosso della metà campo, solo 4 in quella della Roma) a Verona (ritorno al Bentegodi) qualcosa è cambiato:

Grafico Squawka delle zone più “calpestate” da Gervinho: in alto Roma-Verona nel girone di andata, in basso il ritorno Verona-Roma. Si vede bene come Gervinho abbia dovuto arretrare la linea di partenza delle sue corse.

Nonostante tutto, Gervinho ha segnato un gol al Verona e fornito 3 assist da rete ai compagni in 4 partite: è difficile fermare un’ala. Nel quarto di finale di Coppa Italia, inoltre, c’è stata un’evoluzione: la sua posizione media è stata quella del centravanti (lasciando così spazi sulle fasce ai due terzini, visto che per le ali non c’erano grandi possibilità di gioco) ed il gol che ha eliminato la Juve è stato da vero 9, anche nel movimento.

Ad agosto spacciato per un bidone, ora Gervinho è paragonato a qualunque giocatore del passato, spesso anche a caso: eppure ha uno stile tutto suo, spesso scattoso, poco elegante; a noi spettatori le sue mosse sembrano incomprensibili, fino a quando l’opera è finita e Gervinho ha fatto un triplo slalom con assist finale e allora tutti pronti a complimentarsi. Come succedeva, per fare un esempio “alto”, con Jackson Pollock. Le parole dell'artista americano, nel 1951, potrebbe tranquillamente pronunciarle Gervinho oggi, 2014, per descrivere il suo stile di gioco: «Mi trovo più a mio agio in spazi ampi».

Quindi, umile suggerimento per la presentazione della futura maglia Nike della Roma: al MoMA di New York, con Gervinho e sullo sfondo “The She-Wolf”.

Calcio e arte contemporanea: Gervinho il Pollock della fascia.

I Peggiori Tweet del Mese

di Matteo Gagliardi (@stai_zitta)

Per cominciare al meglio il 2014 non c'è niente di più motivante che la disperazione dei calciatori sull'Internet. Gennaio, mese di poesia, di minacce e post-sbornia. Ma soprattutto il mese in cui è nato Salvatore Fresi, al quale abbiamo intitolato il nostro premio: "peggior twitter dell'anno”, anche se più che un profilo sembra un virus. Buona lettura.

5. L'hangover di Buffon

4. Questa foto

3. Basta infami solo Bellomo

2. L'haiku di Willy (dall'alto verso il basso è Mario Luzi, dal basso verso l'alto è Stendardo)

1. Il giorno prima porta sfiga

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