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Classificone 3/4: I migliori Over 35
25 mar 2015
25 mar 2015
I migliori "anziani" della Serie A. Ritorna il Classificone, la rubrica più amata de l'Ultimo Uomo. Sempre più glaciale, intelligente e senza tempo.
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Quando il quindicenne Martin Odegaard è stato presentato dal Real Madrid ha dichiarato di non sentire la pressione di giocare in una squadra simile. Le sue parole mi hanno lasciato un certo sapore di desolazione per un’industria che

e

. È una dichiarazione che mi sarei aspettato da un calciatore all’apice della sua carriera, magari con diversi trofei alle spalle, che ha già provato tutto ciò che il calcio comporta: vittorie esaltanti, delusioni cocenti, acciacchi fisici, aspettative deluse.

 

Questa top five dei migliori giocatori della Serie A con più di 35 anni è pensata per essere un antidoto a questa fabbrica di infelicità. La sua “ragione sociale” mi ha portato a non selezionare i migliori over 35 in assoluto.

 

Non troverete quindi quei giocatori che hanno fatto la storia dei club in cui giocano ritagliandosi spazi da protagonisti anche grazie all’eredità che già sanno di lasciare. Non ci saranno quindi Totti, Buffon, Pirlo e Di Natale. Nella classifica troverete solo quei giocatori che, nonostante la carriera e la carta d’identità li condannassero al ruolo di comprimari, hanno deciso di buttarsi alle spalle tutto ciò che avevano già vissuto (e che Odegaard sembra conoscere già) decidendo di competere ad armi pari con i giovani rampolli a cui dovevano fare da padri nobili.

 



C’è una tradizione consolidata di calciatori italiani dalle doti tecniche sopra la media rinchiusi in carriere provinciali. Penso a Di Natale, a Cozza, allo stesso Diamanti. Non conosco le ragioni calcistico-sociali che tengono viva questa tradizione. Quello che so è che Franco Brienza ci rientra. Un passato fatto soprattutto di Palermo, in particolare dello storico Palermo di Guidolin, è arrivato a Cesena quando sembrava all’apice del suo declino.

 

Doveva fare da chioccia ai tanti baby che compongono l’attacco bianconero: Marilungo, Defrel, Djuric, Rodríguez. E invece si è ritrovato ancora una volta ad essere una delle architravi della propria squadra, in veste sia di creatore (rifornendo di assist la torre centrale, uno tra Djuric e Rodríguez) che di finalizzatore (sfruttando le spizzate della torre di cui sopra). Cinque goal e cinque assist in poco più di 1600 minuti giocati. Brienza è uno degli ultimi avamposti nella guerra già persa contro l’attaccante-moderno-che-sa-fare-tutto. Un attaccante come Defrel, insomma. Grazie a Brienza, il Cesena ci riporta a tempi dimenticati in cui l’attacco era dogmaticamente composto da un attaccante alto, forte fiscamente a spizzare le palle alte e un altro veloce e tecnico, preferibilmente col baricentro basso, a inserirsi in profondità e a tirare dalla distanza.

 



Se si va sulla sua pagina Wikipedia si trova scritto che Maresca «può giocare in tutti i ruoli del centrocampo, con particolare preferenza per quello di regista con caratteristiche offensive». Effettivamente è difficile descrivere Maresca da un punto di vista tecnico-tattico. È un regista che si inserisce, un interditore dai piedi buoni, un mediano che rifinisce. Tutte circonlocuzioni un po’ vintage che da qualche anno sono state sostituite dal neologismo plasticoso “tuttocampista”.

 

Mi piace pensare che Maresca, dopo aver attraversato anni di anonimato tra l’Italia, la Spagna e la Grecia, abbia iniziato ad essere riconosciuto solo oggi, a 35 anni, proprio grazie alla definitiva consacrazione di questo ruolo che fino a qualche anno fa non era inquadrabile tatticamente.

 

Più onestamente si può dire che è l’anello di congiunzione tra il mediano anni 90 e il tuttocampista dei nostri tempi. Maresca ha donato saggezza ad un centrocampo che senza di lui sembra avere l’unica funzione di dare palla al duo Dybala-Vázquez. Completa Barreto in fase offensiva e Bolzoni e Rigoni in fase difensiva. È il giocatore del Palermo con la più alta accuratezza nei passaggi (84%) e il più alto numero di passaggi riusciti a partita (42) e riesce ancora a fare

.

 



Due Champions League, due Coppe del mondo per club, due Supercoppe europee, tre Liga spagnole, due Coppe di Spagna, quattro Supercoppe di Spagna, una Coppa di Francia. Questa è la bacheca personale di Seydou Keita. Arrivato a Roma a parametro zero dal Valencia, teoricamente per fare il quinto centrocampista di una squadra destinata allo scudetto.

 

La versione ufficiale vorrebbe quindi un Keita venuto all’ombra del Colosseo unicamente per allargare la sua già immensa distesa di trofei senza sporcarsi nemmeno gli scarpini. La storia recente della Roma e del maliano ha però ribaltato la versione ufficiale sostituendola con una ufficiosa.

 

Keita è venuto a Roma, consapevole prima di tutti delle difficoltà della squadra, per portare la sua mentalità vincente ed evitare la debacle totale. In meno di sette mesi è diventato perno in uno dei centrocampi più competitivi d’Europa (nella Roma è secondo solo a Pjanic per accuratezza dei passaggi e numero di passaggi riusciti a partita, quinto in tutta la Serie A), terzo capitano in un club storicamente etnocentrico, allenatore in campo in una squadra piena di senatori, idolo indiscusso dei tifosi più esigenti d’Italia.

 



Se si guardano le

ci si accorge che è assolutamente identico a com’è oggi: sguardo perso ma concentrato, mento all’insù, capelli un po’ spettinati. Allo stesso modo, il tedesco sembra giocare sempre allo stesso modo, quasi immune ad ogni condizionamento esterno. C’era chi si illudeva che dopo aver vinto finalmente il Mondiale, che è sempre sembrato il suo obiettivo principale in carriera, si rilassasse. Alla fine sarebbe stato un riposo meritato dopo 36 anni passati a segnare 235 goal tra Germania e Italia.

 

Questo doveva essere l’anno del declino, del progressivo allontanamento dal campo da gioco. Invece Klose ha accettato serenamente la competizione con Djordjevic continuando a fare ciò che ha sempre fatto: segnare, con la naturalezza di chi sta svolgendo un normalissimo lavoro d’ufficio. Undici goal (e sei assist) tra campionato e Coppa Italia. Già tre in più rispetto alla passata stagione.

 



Se Franco Brienza fa parte della categoria dei calciatori italiani molto tecnici dalla carriera provinciale, Luca Toni rientra invece in quella (anch’essa in via d’estinzione) dei giocatori del tutto ineleganti che segnano caterve di goal. Se il capostipite di questa categoria è Pippo Inzaghi, Toni rappresenta l’esemplare più potente fisicamente. A Roma veniva chiamato “intruppone” proprio per la sua capacità di vincere qualunque tipo di rimpallo con l’avversario barcamenandosi con il corpo. Da quando è a Verona ha segnato 33 goal, praticamente con ogni parte del corpo permessa dal regolamento. L’anno scorso si diceva che stesse unicamente traendo giovamento dell’esplosione di Iturbe, Romulo e Jorginho. Solo quest’anno, con il Verona che è solo il cadavere della squadra dello scorso anno, ci si è resi conto di quanto fosse realmente importante. Senza i suoi tredici goal e quattro assist, il Verona probabilmente sarebbe ancor più invischiato nelle acque torbide della zona retrocessione. E visto che non è mai tardi per scrollarsi di dosso le etichette, a 37 anni suonati ha deciso di fare un cucchiaio a Diego López.

 
 

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