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Classici: Milan - Atlético Nacional '89
03 ago 2015
03 ago 2015
Nuova puntata di Classici, rubrica nella quale analizziamo grandi partite del passato. Stavolta abbiamo riguardato la finale di Intercontinentale tra il Milan di Sacchi e l'Atlético Nacional di Pacho Maturana.
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Quando penso a Pacho Maturana e ad Arrigo Sacchi, alle loro affinità elettive in quanto a filosofia calcistica, al loro essere stati forgiati dal e nel medesimo credo, non posso fare a meno di farmi venire in mente Julio Cortázar e Adolfo Bioy Casares.

 

Nel 1956, agli albori del suo lungo periodo di volontario esilio parigino, Julio Cortázar scrisse un racconto che si intitola

, e che comincia così: «A Petrone piacque l’albergo Cervantes per ragioni che sarebbero riuscite sgradite ad altri». Nel prosieguo del racconto Petrone, un commesso viaggiatore, durante la notte sente il pianto di un neonato provenire da dietro una porta serrata, nascosta da un armadio.

 

Negli stessi mesi, forse giorni in cui Cortázar scriveva

, dall’altra parte dell’oceano, a Buenos Aires, Adolfo Bioy Casares concepiva un racconto che si chiama

(o

): nel racconto di Bioy Casares un commesso viaggiatore arriva a Montevideo (la città in cui si trova l’albergo Cervantes di Cortázar), e quando l’autista lo deposita di fronte all’hotel La Alhambra dice: «Avrei giurato d’aver ordinato al tassista di portarmi all’albergo Cervantes». Anche il personaggio di Bioy Casares, durante la notte, sente voci provenire dalla stanza accanto.

 

«Le racconterò una cosa su Cortázar: nel ’56 lui era in Francia, io a Buenos Aires e abbiamo scritto un racconto identico. [...] Passo dopo passo, tutto era simile, fatto che ci rallegrò entrambi», raccontò in un’intervista Bioy Casares trent’anni più tardi.

 

Sacchi e Maturana, come Bioy Casares e Cortázar, erano figli di una stessa tradizione: foraggiati dallo stesso milieu culturale, sono stati capaci di creare qualcosa di simile e allo stesso tempo diverso agli antipodi geografici l’uno dell’altro. Il calcio sacchiano e quello dell’odontoiatra di Medellín si somigliano come l’italiano e il cocoliche parlato dai tanos di Buenos Aires. O come i commessi viaggiatori dei due racconti.

 

https://www.youtube.com/watch?v=5kKCU3IB2BE

 

Sul finire degli anni Ottanta, e nel principiare dei Novanta, con le radici ben piantate nel terroir concimato dalle idee di calcio totale di Rinus Michels, il calcio zonale era un po’ l’albergo Cervantes di Montevideo di Bioy Casares e Cortázar.

 

Guardare la finale della Coppa Intercontinentale del 1989 tra Atlético Nacional de Medellín e Milan è stato come leggere in contemporanea i due racconti, cercare i nessi, sbalordirsi delle coincidenze tra due stili di gioco che si sono fatti amare, come nel caso di Petrone, per ragioni che sarebbero risultate sgradite ad altri.

 



L’Atlético Nacional è stata la prima squadra del versante Pacifico del subcontinente dell’America Latina a vincere il corrispettivo australe della Coppa dei Campioni, la Copa Libertadores, nel 1989. Altre colombiane ci avevano provato, per quattro volte avevano lambito il successo, ma nessun’altra ci era mai riuscita prima.

 


Il capitano Alexis García riceve la Coppa nell’improvvisato banchetto di premiazione installato al centro del campo.


 

Quella degli alviverde non è stata la vittoria di una squadra, né di una città, né di un’organizzazione malavitosa e padronale, come i più maligni suggeriscono, ma di tutto un Paese e, più nello specifico, di un movimento calcistico.

 

In limine alla finale di ritorno, dopo essere stati sconfitti per 2 a 0 nella gara d’andata ad Asunción contro i paraguayani dell’Olimpia, i calciatori del Nacional erano fermamente convinti che la serata avrebbe avuto un epilogo assai felice, anche se erano stati costretti ad abbandonare il prato amico dell’Atanasio Girardot, che non raggiungeva la capacità minima di cinquantamila posti necessaria per ospitare una finale, e spostarsi fino a Bogotá. La loro sicurezza muoveva i passi dal fatto tutto il Paese, insindacabilmente, facesse il tifo per loro.

 

L’Atlético Nacional non era partito propriamente con il piede giusto. Nella fase a gironi, all’epoca composti da quattro squadre provenienti da due Paesi diversi, una specie di doppio derby tra due nazioni, che nella fattispecie specifica erano Colombia ed Ecuador (rappresentato da Emelec e LDU Quito), aveva inanellato tre pareggi per 1-1 consecutivi e una sconfitta contro i Millonarios di Bogotá. Poi si era sbloccato, aveva passato il turno e nella fase a eliminazione diretta si era sbarazzata degli argentini del Racing, la Académia, era uscito indenne dallo scontro fratricida ancora con i Millonarios e in semifinale aveva demolito il Danubio de Montevideo.

 

Ribaltare lo svantaggio con i paraguayani significava, per certi versi, riabilitare il nome del Paese. Per questo non ci viene complicato comprendere l’animo del telecronista, che quando Leonel Álvarez insacca il rigore decisivo si commuove cantilenando: «Mi patria se queda con la Copa», «Colombia es campeón de América».

 

https://www.youtube.com/watch?v=6pCiC4Lfm7s&feature=player_detailpage#t=188

Musica niente male.


 

Buoni sette undicesimi di quella squadra costituivano l’ossatura della Selección reduce da un’inattesa, perché insperata, qualificazione alla Coppa del Mondo di Italia ’90, che mancava da 28 anni.

 

Uno dei seleccionados dell’Atlético Nacional era Leonel Álvarez, quello che quando si appresta a calciare il rigore decisivo, il diciassettesimo dell’interminabile serie, il telecronista descrive come pronto a fare il suo ingresso «en la puerta de la gloria».

 

In un

abbastanza strappalacrime Doña Fabiola, sua madre, ricorda di essere stata colta da un malore nel vedere il figlio a così stretto contatto con la Storia, di essere svenuta prima del rigore decisivo e di aver dato a tutti l’impressione di stare per morire d’infarto. Leo, in una parentesi abbastanza lunga di tempo che va dai suoi due ai sette anni, è stato muto, nel senso che non ha proferito parola. Un’auto lo aveva investito quando aveva due anni, i medici avevano sentenziato che avrebbe potuto avere problemi mentali, per i postumi dell’incidente. Il mutismo, forse causato dallo shock, gli aveva negato molta spensieratezza e amici, ma regalato un sacco di tempo libero per esercitarsi con il pallone tra i piedi. Poi, a sette anni, miracolosamente era tornato a parlare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=mx8nbhyOrNA&feature=player_detailpage#t=80

Usuriaga, storia di un talento sprecato senza niente di romantico.


 

Un altro protagonista di quella Libertadores era stato Albeiro Usuriaga, autore sette reti nella competizione (tre in meno del capocannoniere, Pato Aguilera del Peñarol), di cui quattro nella semifinale contro il Danubio e uno pesantissimo, quello del 2-0, nei tempi regolamentari della finale contro l’Olimpia. Quindici anni dopo la vittoria sarebbe stato ucciso, freddato da sette colpi di pistola da un quattordicenne per ragioni oscure, probabilmente avulse dal calcio, mentre giocava a domino in una casa di un quartiere di Cali.

 



I sette undicesimi diventano otto se consideriamo, nella dozzina di nomi che compongono una formazione, anche il direttore tecnico.

 

Francisco Pacho Maturana era stato un calciatore discreto, difensore centrale con l’Atlético Nacional, che quando aveva appeso le scarpe al chiodo, nel 1983, aveva pensato di terminare gli studi e tentare una carriera nell’odontoiatria. Tre anni più tardi non aveva resistito al richiamo del campo e si era seduto in panchina: dopo una stagione con l’Once Caldas era stato ingaggiato dall’Atlético Nacional e, in contemporanea, dalla Federazione Calcistica Colombiana, che gli aveva fatto guidare l’U-23 nel torneo preolimpico e la Nazionale maggiore nella Copa América del 1987.

 

Un aspetto che assimila Maturana a Rinus Michels (e se vogliamo anche a Sacchi, in maniera proattiva) risiede nella sua convinzione, da direttore tecnico della Nazionale, nel puntare su un blocco di calciatori alle sue dipendenze durante tutta la settimana, cioè sui calciatori del suo club: così come la Clockwork Oranje poteva disporre di molti ingranaggi provenienti dall’Ajax, nei Cafeteros era preponderante la Rosca Paisa, vale a dire un gruppo di calciatori di Medellín, più specificamente dell’Atlético: Higuita, Perea, Escobar, Leo Álvarez e lo stesso Usuriaga, soprannominato Palomo, versione beta di quel tipo di calciatore che nella sua espressione 2.0 sarebbe diventato Faustino Asprilla e, con meno fortuna, nella versione 2.1, Victor Ibarbo.

 

https://www.youtube.com/watch?v=TEYKTcg5fVQ

Un gol che vale quasi 30 anni.


 

La Colombia aveva ottenuto la qualificazione a Italia ’90 sbarazzandosi, nei play-off che all’epoca avevano ancora l’affascinante nome di “spareggi”, di Israele. Il gol decisivo, che aveva privato Israele di una storica qualificazione, portava la firma proprio di Albeiro Usuriaga.

 

A diretta testimonianza di quanto per Maturana contassero disciplina e meccanismi più dell’individualismo esasperato che storicamente aveva fin lì caratterizzato il calcio latino, e quindi—coerentemente—giocatori che sapessero fare squadra, nonostante la rete storica, l’attaccante dell’Atlético sarebbe stato escluso dalla spedizione italiana: «Da una parte c’è la sua forza di carattere, dall’altra la pochezza del suo contributo al gioco di squadra», avrebbe detto Maturana.

 

Palomo avrebbe appreso, sulla sua pelle, tutta la forza rivoluzionaria del maturanesimo: era in corso l’edificazione, nelle parole di

, de «l’unico vero modello di calcio totale sudamericano».

 



La doppia chance della Colombia ai Mondiali e dell’Atlético Nacional a giocarsi un Mondiale (di club) costituiva per il Paese intero una possibilità di redenzione, o quantomeno di ridefinizione della percezione negli occhi dell’osservatore esterno. Dire Colombia, in quegli anni, significava alludere in maniera più o meno velata alle collusioni tra vita sociale (e quindi anche calcistica) e malavita, con il Cartello di Medellín, con l’universo sommerso del narcotraffico. A ridosso della gara tra Milan e Nacional, i quotidiani italiani non si esentarono dai j’accuse, costringendo l’ambasciatore colombiano in Italia a esporsi per evitare l’incidente diplomatico.

 

L’Atlético di Maturana, proprio in virtù della presenza di Maturana, che non aveva mai nascosto le sue simpatie marxiste-leniniste, e di uomini come Andrés Escobar, di buona famiglia, educati, colti, si proponeva di ribaltare i paradigmi: sul campo neutro di un enorme stadio di Tokyo, metafora edulcorata dell’Occidente civilizzato, per la Colombia sarebbe andata in scena una pièce che avrebbe parlato di abilitazione (calcistica) e riabilitazione (culturale).

 

Sì, ma come giocava l’Atlético Nacional? La risposta, che più o meno è nella domanda «come giocava il Milan?», l’ha data anche Daniele V. Morrone

sulla semifinale di quella Coppa Campioni che avrebbe laureato il Milan campione d’Europa, la partita contro il Real. Fluidità, cambio di ruoli, pressing sul portatore di palla, compattezza delle linee: automatismi che si possono riconoscere, transitivamente, nel gioco di entrambe le contendenti.

 

«Quando ero calciatore giocavamo con la paura. Chi marca questo? Chi marca quello? No, come allenatore volevo un sistema che permettesse di esprimerci al meglio», ha raccontato Maturana, nascondendo sotto l’aneddoto passatista i dettami, in nuce, della sua idea di calcio.

 

In un articolo sul

, poi modulato all’interno del suo prezioso saggio sul Barça, Sandro Modeo sintetizza in alcune brevi formule, quasi degli hashtag, i tratti distintivi del calcio di Maturana, che somigliavano molto da vicino a quello di Sacchi: attendismo scientifico, uso chirurgico del contropiede, zonismo convinto.

 

L’immagine più suggestiva che regala Modeo, o almeno quella che più mi entusiasma, dipinge le squadre di Sacchi e Maturana come metà simmetriche di uno stesso corpo. È una didascalia quasi biologica, eppure riscontrabile in maniera adamantina in lunghi tratti di quella finale di Intercontinentale.

 

Intervistato prima dello scontro, Sacchi aveva detto del Nacional: «In genere curano il possesso palla, da quelle parti. Qui si va oltre, il Nacional è una squadra corta, anzi cortissima».

 

Il fraseggio continuato tra i difensori centrali e i centrocampisti incaricati di innescare le manovre, consegnato alla storia fútbolistica col nome—antesignano dell’ispanico tiqui-taca—di Tempo-Toque, trovò la sua massima sublimazione nella partita contro il Milan. Anche se resto convinto che la più bella espressione coniata per cercare di dare un nome a quel modo di giocare dei Puros Criollos sia quella sciorinata dai telecronisti colombiani durante la telecronaca della finale Intercontinentale: Juego Cumbre. Per “cumbre” si intende il punto più alto, o il maggior grado di perfezione, che si possa raggiungere.

 



L’Atlético Nacional che scese in campo a Tokyo per disputare la ventottesima edizione della Coppa Intercontinentale non era neppure la stessa squadra che aveva vinto ai rigori contro l’Olimpia.

 

Tra i pali, anche se sembra un eufemismo, un riduttivismo, c’era René Higuita. La difesa, rigorosamente a quattro, si schierava da destra a sinistra con il "chonto" Herrera, Escobar, Geovanis Cassiani (che aveva preso il posto di Perea) e Gómez; a centrocampo, in posizioni fluide e mai stabili per un tempo più lungo di dieci minuti, Arango, Leo Álvarez, il "chicho" Pérez e il capitano Alexis García, con John Jairo Trellez supportato, in avanti, da Arboleda, giovanissimo rincalzo lanciato nella mischia da titolare al posto del Palomo Usuriaga. Per Arboleda e Cassiani si trattava dell’esordio internazionale. Per un attimo era stato in forse anche Escobar, che aveva rimediato una contusione a una caviglia in allenamento.

 

L’assenza monstre, nel Milan, era quella di Gullit: ma in generale, tra i rossoneri, si respirava un’aria frizzante di ottimismo e serenità.

 

Nello specialone dedicato dalle tre emittenti televisive colombiane del tempo alla copertura dell’evento, oltre a interviste surreali ai calciatori realizzate sotto templi scintoisti e a una chiacchierata nonsense con il direttore delle trasmissioni giapponese in un avveniristico studio televisivo, l’inviato intervista alcuni tifosi italiani che confessano di conoscere «solo il portiere».

 

I due allenatori vengono coinvolti in uno scambio di battute da terzo tempo, una parentesi ricca di convenevoli e reciproche attestazioni di stima. Maturana elogia Sacchi: «Chiunque ami il calcio dovrebbe rendergli omaggio», dice succhiando ogni lettera come fosse di zucchero filato. Sacchi, dalla sua, sostiene come il collega «ha creato il calcio colombiano, che non è mai esistito nella storia colombiana», rendendo forse a Maturana un onore delle armi così plateale da sembrare posticcio. Pacho si scherma: «Speriamo di essere degni rivali della migliore squadra del mondo».

 

https://youtu.be/5kKCU3IB2BE?t=17m

Non capita a tutti di essere definiti “Grande giocatore” da Sacchi. Chiedete a Ibrahimovic.


 

Poi c’è Usuriaga, il cui rapporto con Maturana è già ormai a quello stadio Non-Rifacciamo-Un-Letto-Ormai-Disfatto, che si fa scattare una foto con Sacchi. Arrigo lo incensa un po’, più per cavalleria che con reale convinzione, e Usuriaga ruffianissimo sfodera uno di quei sorrisi che sembra possano cascargli le orecchie da un momento all’altro.

 

Nel turbine di disorientamento che provocano i Grandi Appuntamenti, in realtà Maturana sembra essere l’unico davvero convinto dei mezzi dei suoi giocatori, che al contrario appaiono ingenuamente inconsapevoli, più attenti a mettersi in mostra per riuscire a strappare un ingaggio in Europa che a puntare alla vittoria finale.

 

Il resoconto dell’inviato li dipinge preoccupati dal freddo, e tutti intenti a negoziare con il governo l’eventuale introduzione in patria, ovviamente senza pagare le tasse, della Toyota Carina messa in palio dall’organizzazione per il MVP della finale.

 



Credo che raramente, in una finale di Intercontinentale, si abbia avuto l’impressione repentina che le gerarchie costituite prima dell’inizio della gara potessero essere sovvertite con tanta facilità come nel caso di Milan - Atlético Nacional. L’inizio di gara della Verdolaga è aggressivo, quadrato, ordinato. Per certi versi spettacolare.

 

Già al 3’ René Higuita si esibisce in un’uscita in tackle scivolato, poi fronteggia Donadoni fino a bloccare la palla, sradicandogliela dai piedi, all’altezza dell’incrocio tra linea dell’area di rigore e linea di fondo, cioè il posto meno scontato in cui ci si aspetta di trovare un portiere al 3' di una finale.

 

Non faccio fatica a immaginare quanti estimatori contino i video che immortalano, play-by-play, le giocate di René Higuita in quella partita. Il telecronista usa più volte l’aggettivo, a mio parere alquanto svilente, “pittoresco”. Altra espressione ricorrente: «Lo spettacolo nello spettacolo».

 

La prima conclusione semplicistica che si tende a trarre su René Higuita è che il soprannome "Loco", pazzo, fosse del tutto meritato. Ma credo che sia una considerazione cementificatasi soprattutto dopo il patatrac naif contro il Camerun nel Mondiale che si sarebbe disputato solo sei mesi più tardi. Perché se lo si osserva contro il Milan, invece, si fa fatica a comprendere dove risieda la sottile linea di demarcazione che separa la pazzia dal genio razionale.

 

https://www.youtube.com/watch?v=tT790tEixVA

Il lato oscuro dello scorpione.


 

La seconda conclusione semplicistica è che tutte quelle clownerie fossero dettate da una scialba volontà di conquistarsi visibilità. Ciò che, piuttosto, spesso si tace su Higuita è la grande verità di enunciata proprio da Maturana: «Il calcio che giocava René aveva senso, significava molto per il resto della squadra. E viceversa».

 

Higuita era l’incarnazione moderna e sudamericana del sweeper-keeper à la Jongbloed, il portiere bravo con i piedi capace di disimpegnarsi nel ruolo di libero. Se era davvero matto, c’è da dire, lo era nella misura in cui era matto "El Loco" Gatti, eppure allo stesso tempo necessario al gioco della sua squadra nella misura in cui Gatti lo era in quelle (il Boca, e poi la Selección Albiceleste) allenate da Menotti: un registra arretrato, il primo creatore di gioco, il primo palleggiatore. Del quale i compagni si fidavano ciecamente, come Costacurta, Tassotti e Maldini di Baresi.

 

René Higuita era il Duemila proiettato nel calcio degli anni ’90, un Neuer primitivo e forse per questo più umano, che dava l’impressione di giocare al calcio, sempre per citare Maturana, come si gioca nei campetti dietro casa. Che quando fa rima con spensieratezza è, nove su dieci, un pregio.

 

Mi sono reso conto, analizzando la partita, di aver segnato un sacco di giocate di Higuita: un’uscita con una combo testa-piede intorno al 10’, che strappa sorriso di tensione a telecronisti; un’altra uscita, di petto, al 15’. Poi, dal quarto d’ora in poi, ho realizzato di essere vittima di un pregiudizio, di un incantamento nostalgico, e allora ho cominciato a far caso a Leonel Álvarez.

 

Leo, che nelle battute iniziali sembra essere schierato da laterale destro di centrocampo, col passare dei minuti tende—in virtù di quella fluidità dei ruoli tipica dello stile di gioco di Maturana, e di Sacchi—a spostarsi al centro. In realtà gioca più basso di quanto ricordassi, e in generale tocca la palla spesso, dialogando con gli altri centrocampisti, innescando triangolazioni veloci che si traducono spesso in verticalizzazioni. Sarebbe interessante analizzare il numero di third-passes, cioè di passaggi precedenti a un passaggio chiave, in quella partita. L’impressione è che Leo sia sempre l’acino più brillante nel grappolo di centrocampisti appesi a maturare al centro del campo del Nacional.

 



Il Milan, nella prima mezz’ora di gioco, sembra sorpreso dalla reattività del Nacional: gli lascia l’iniziativa, e la naturale conclusione è quella di un’atrofizzazione di tutti i gangli vitali del match, primo su tutti l’annullamento, da parte di Escobar, del Pallone d’oro van Basten.

 

Escobar, quel giorno, aveva soltanto ventidue anni. Di lui Maturana avrebbe detto: «Possedeva capacità calcistiche, umane e morali da leader. Era un colombiano non verace, diverso, nuovo». A me, la sfida con van Basten, è parsa una sfida tra gentiluomini, tra bravi ragazzi.

 


Un’immagine di Leonel Álvarez molto basso, quasi in posizione di terzo centrale difensivo, mirabile interprete ante-litteram della salida lavolpiana.


 

Così come Baresi era l’epicentro della manovra, il play-basso, nel gioco di Sacchi, Leo lo era in quello di Maturana: in realtà la vera colonna vertebrale del Nacional si snodava in quella zona ristretta di quindici metri in cui Higuita, Escobar e Álvarez si intercambiavano per dare inizio alla manovra. Quando era René a impostare, Escobar e Geovanis si allargavano sulle fasce laterali: a pensarci bene, quel movimento di Higuita era quasi un ascenso lavolpiano.

 

Per tutto il primo tempo della gara le vere stanze dei bottoni di Milan e Atlético risiedono nella difesa: a centrocampo Ancelotti soffre tantissimo Arango, che lo tallona e non gli permette di dipingere la seconda scena del dittico rottura-costruzione. Van Basten viene cercato solo con lanci lunghi, e spesso sterili.

 

I centrocampisti di entrambe le squadre si annullano, specie a partire dalla mezz’ora, quando Maturana capisce che per soffocare sul nascere i tentativi di creazione di gioco del Milan la soluzione più saggia è quella di schierare la sua squadra in maniera speculare—più speculare di quanto già non fosse—a quella di Sacchi. Per questo il 4-4-2 si trasforma spesso in un 4-2-2-2, con i laterali Álvarez e Pérez stretti verso il centro del campo.

 



All’inizio della ripresa Maturana decide di sostituire l’acerbo Arboleda con il Palomo Usuriaga. L’intuizione, cioè sfruttare la velocità fulminante di Albeiro nelle transizioni offensive in contropiede, è coerente, ma non del tutto fruttuosa, perché il Milan prende le misure e inizia a farsi pericoloso in attacco. L’Atlético, per fronteggiare il ritorno di fiamma dei rossoneri, alza la linea dei centrocampisti come l’esercito austro-ungarico avanzava le linee di trincea durante la notte, più o meno con la stessa gradazione di rischio.

 

Ma a differenza di quanto avvenuto in altre circostanze, la didascalicità calcistica di Sacchi non riesce a essere incisiva alla maniera della goccia che perfora la roccia, forse perché l’Atlético Nacional è una roccia scivolosa, o peggio ancora perché è una squadra fatta della stessa materia di cui è fatta la goccia: liquida, e quindi imperforabile.

 

La grande, che poi assume i connotati di mastodontica in quanto unica, occasione per passare in vantaggio l’Atlético Nacional ce l’ha al quarto d’ora del secondo tempo, quando Usuriaga dal vertice destro dell’area offre un assist a Trellez, che però non si fa trovare lucido.

 

https://youtu.be/5kKCU3IB2BE?t=1h23m34s

 

Cose che mi piacciono della narrativa dei telecronisti su questa occasione: la definizione di “pase de la muerte” per l’assist di Usuriaga, e poi il poetico passaggio in cui dicono «Avesse voluto l’Onnipotente sarebbe potuto essere il primo, negro», che non si capisce se si riferiscono al primo gol o al primo nero a regalare la vittoria nella Coppa.

 

Rotto il ghiaccio delle occasioni, ora la partita è più vibrante. Al 30’ Evani, subentrato per Fuser, inquadra lo specchio della porta, ma Higuita si fa trovare molto reattivo nella sua maniera di essere reattivo: dapprima respinge goffamente con il petto, anche se poi si immortale in un tackle a spazzare, gesto che ripeterà anche intorno al 90’ su van Basten.

 



, all’indomani della gara, la definì come una partita dominata da una “noiosissima tensione”, che mi sembra un ossimoro azzeccato nella misura in cui gli strilli debbano avere una certe porzione di sensazionalismo, ma anche ingenerosa.

 

Di fatto anche i supplementari sono stati divertenti, tutt’altro che noiosi e forse neppure tesi, dato che gli uomini del Nacional hanno continuato a giocarsela come se la pressione non li sfiorasse, non gli appartenesse.

 

Quando Leo, a pochi minuti dalla fine, stende Marco Simone, che si era liberato prima di lui e poi di Pérez, al limite dell’area, le telecamere lo sorprendono con una faccia felice. I telecronisti sono orgogliosi di lui e del resto della squadra: «Se la sta giocando da vero guappo contro il Milan, eh?», si chiedono l’un l’altro.

 

Sugli sviluppi di quella punizione Ancelotti calcia alto sopra la traversa, ma anziché una sensazione di sollievo, nell’aria che respirano i colombiani comincia a propagarsi il pulviscolo atmosferico, finissimo e letale, dell’ineluttabilità che ti coglie (e punisce) a un passo dalla Storia.

 

Avvolto in quella nebbia appiccicosa, arriva il gol della vittoria finale: Costacurta appoggia a Evani, che cede la palla a Rijkaard, che a sua volta, con un’accelerazione della giocata da strappo decisivo, da momento topico, imbecca van Basten, che viene atterrato al limite dell’area.

 

La punizione—non bella, per balistica ed estetica, ma efficace nella maniera in cui sanno essere efficaci certi tiri senza pretese—di Evani gli varrà una Toyota Carina, e alla sua squadra il titolo di club campione del mondo.

 

http://www.dailymotion.com/video/x150igo_milan-atletico-nacional-1-0-d-t-s-gol-di-evani_sport

 

I telecronisti salmodiano il dolore dell’ingiustizia, e a me sembra davvero un peccato che l’uomo più esterno della barriera, quello a cui non è riuscito di deviare il tiro di Evani, debba esser stato proprio il capitano Alexis.

 



Durante i Mondiali di Italia ’90 Arrigo Sacchi fu avvistato più volte presso il ritiro della Colombia: la sfida di Intercontinentale aveva reso possibile che tra i due tecnici, Sacchi e Maturana, si instaurasse un rapporto che forse sarebbe eccessivo definire d’amicizia, ma sicuramente di stima e collaborazione. I preparatori atletici dello staff di Sacchi, soprattutto, rubarono preziosi suggerimenti ai loro colleghi colombiani. «Tatticamente abbiamo molti punti di coincidenza. Anche a me piace la zona dinamica, la pressione, il pressing costante dei giocatori», disse Sacchi a

. Uno stile di gioco che necessitava un’elevata performatività atletica degli interpreti.

 

Maturana e il Milan incrociarono i propri destini ancora una volta, nel ’94, in un’amichevole di preparazione al Mondiale statunitense, quello nel quale la Colombia si presentava da outsider e sarebbe invece uscita al primo turno, per via del malcapitato autogol di Escobar e tutto quello che, direttamente o indirettamente, ne sarebbe derivato. In quella partita, per tutto il primo tempo la Colombia asfissiò ogni tentativo di pressing e contrasto rossonero con il Tempo-Toque: allo scadere dei primi quarantacinque minuti le statistiche sul possesso palla dicevano che i Cafeteros avevano totalizzato il 90%.

 

Nel 2014 l’Atlético Nacional ha organizzato una giornata commemorativa per la squadra campione della Libertadores ’89: c’erano tutti i giocatori che potevano esserci.

 

Maturana, a chiosa dell’evento, in risposta a chi gli chiedeva come fosse cambiata la sua idea di calcio, a venticinque anni di distanza, con la sua aria da guru triste ha citato le parole di "Volver" del tanguero Carlos Gardel: «Venti anni non sono niente».

 

 

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