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Classici: Brasile - Argentina '90
02 lug 2019
02 lug 2019
Abbiamo rivisto la partita leggendaria giocata ai Mondiali in Italia del 1990.
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Brasil, decime que se siente

Tener en casa a tu papá

Te juro que aunque pasen los años

Nunca nos vamos a olvidar

Que el Diego te gambeteó

Que Cani te vacunó

Que estás llorando desde Italia hasta hoy

Amico, Beniamino, Bimbo, Ciao, Dribbly. La creazione bislacca del pubblicitario veneto Lucio Boscardin, la stilizzazione di un calciatore tramite una serie di cubi verdi, bianchi e rossi con un pallone al posto della testa, ha bisogno di un nome. Siamo nel 1989 e la creatura ne è ancora priva, nonostante il Mondiale italiano sia alle porte. Il disegno vincente è stato scelto tra circa 50.000 bozzetti da una commissione composta da due designer d’eccellenza come Sergio Pininfarina e Marco Zanuso, dal critico d’arte Federico Zeri, dal disegnatore Armando Testa e da Franco Carraro: del resto, perché rinunciare a Franco Carraro? In un afflato referendario, si era ritenuto giusto che fossero gli italiani a sceglierlo, esprimendo la preferenza con i classici segni 1 e 2 in undici concorsi del Totocalcio. Il futuro Ciao avrebbe per anni diviso l’opinione pubblica: per alcuni frutto di un genio visionario, per altri, molti altri, qualcosa di inguardabile.

A vederlo così dinoccolato, forse anche il nome Dribbly avrebbe avuto il suo perché.

Non ha avuto la stessa fortuna lo Stadio Delle Alpi di Torino, che fin da subito ha messo in mostra tutti i suoi difetti: la visibilità pessima, i costi esorbitanti per la manutenzione, addirittura un impianto di irrigazione pensato così male da finire per allagare il campo e diventare un’insidia per la tenuta del manto erboso. Come Ciao, almeno inizialmente, non ha un nome. L’Acqua Marcia, la concessionaria che ha costruito l’impianto, aveva commissionato alla società S3-Acta cinque proposte tra cui scegliere. Se possibile, il parco-nomi si era rivelato ancora peggiore della mascotte: Agorà, Zeus, Eracles, Summit, Des Alpes.

Era stata organizzata una serata per invitare i cittadini di Torino a votare il preferito, con tanto di presenza sul palco di Armando Testa (ancora lui) e Roberto D’Agostino. I 500 torinesi accorsi al Romano avevano dimostrato di gradire il giusto – si andava da «Dedicatelo a Chiambretti» a «Chiamatelo paiassu» - e la farsa era proseguita quando, nei giorni successivi, si era scoperto che il nome era stato già scelto un mese prima, italianizzando quel Des Alpes: la denominazione era stata comunicata in largo anticipo a Poste Italiane per la stampa del francobollo commemorativo.

È in questo teatro dell’assurdo, in uno stadio durato la miseria di diciannove anni con una visibilità improponibile e una serie di problemi strutturali che ne hanno segnato la repentina fine, che è andato in scena l’unico scontro a eliminazione diretta della storia dei Mondiali tra Argentina e Brasile. Una pagina importantissima di una rivalità che non accenna a placarsi, un fuoco che arde da decenni. E se qualcuno ha scritto e cantato che "Torino vuol dire Napoli che va in montagna", non poteva che finire con "el Pibe de Oro" in festa. Diego Armando Maradona, la sua astuzia luciferina, la realtà che si mescola alla leggenda, una borraccia misteriosa, uno slalom divino, una partita rimasta nell’epica di due colossi del calcio mondiale.

Il match nella sua versione integrale.

Il percorso

Maestro del trash talking in campo, quando era una delle colonne dell’Estudiantes, che aveva portato l’arte della provocazione a un nuovo livello, laureatosi in Medicina a Buenos Aires e ginecologo per qualche anno, Carlos Bilardo è il commissario tecnico di un’Argentina tra le meno talentuose di tutti i tempi, eccezion fatta per l’artista meglio noto come Diego Armando Maradona, ancorché prossimo alla fase crepuscolare. Se in pochi credevano alle possibilità dell’Albiceleste nel 1986, quando un "Diez" in stato di grazia era stato capace di trascinare i suoi fino alla vittoria, figurarsi all’alba del Mondiale italiano, con una rosa ancora meno dotata.

L’apertura del torneo non aveva fatto altro che confermare tutti i dubbi: un Camerun ridotto in dieci prima e in nove poi aveva sconfitto i campioni in carica, piegati da uno stacco paranormale di François Omam-Biyik e da una tragica papera di Nery Pumpido. Il pubblico di San Siro aveva spinto i "Leoni Indomabili" a una delle più grandi sorprese della storia del Mondiale, l’Argentina aveva avuto bisogno di una tana più amichevole per ritrovarsi. Nulla di più adatto del San Paolo di Napoli, la casa di Diego.

Al resto ci aveva pensato il destino, manifestatosi sotto forma di infortunio: Pumpido aveva dovuto lasciare il campo dopo 11 minuti della gara contro l’Unione Sovietica, dentro Sergio Javier Goycochea, un uomo di Maradona. Scattante come una molla, bello come un modello, cognome dalle lampanti origini basche. Non era stata sua la parata più importante del match: colpo di testa di Kuznetsov a una manciata di secondi dall’infortunio di Pumpido e Diego ci aveva rimesso la mano come contro Shilton nel 1986, con l’arbitro Fredriksson a due passi eppure complice del reato. «Ma quale furto, rubare è un’altra cosa: è stato un gesto istintivo in un momento in cui ero sconvolto per l’infortunio a Pumpido». Troglio e Burruchaga avevano poi archiviato la pratica, prima dell’1-1 contro la Romania ancora al San Paolo, sufficiente per strappare il terzo posto nel girone e il sudato accesso agli ottavi.

Da 2.17, le immagini dell’angolo incriminato. Inconcepibile la svista dell’arbitro, alla luce della sua posizione.

Non c’era grande entusiasmo neanche attorno al Brasile, ma il cammino autorevole nel girone C aveva spazzato via qualche incertezza, con Careca in forma straordinaria. Era stato proprio lui a battezzare il Delle Alpi con il primo match ufficiale giocato nel nuovo impianto dopo l’inaugurazione del 31 maggio 1990: un’improbabile selezione JuveToro aveva piegato il Porto 4-3 con Haris Skoro e Angelo Alessio sugli scudi.

Doppietta del centravanti del Napoli all’esordio contro la Svezia, zampata del granata Müller in un Brasile-Costa Rica passato alla storia per le maglie bianconere dei "Ticos", idea geniale di una vecchia volpe come Bora Milutinovic per avere dalla sua il tifo degli juventini accorsi al Delle Alpi, quindi ancora Müller a piegare la Scozia. Alla guida della Seleçao c’è Sebastião Lazaroni, futuro bersaglio del sarcasmo della Gialappa’s Band nella sua esperienza alla Fiorentina: aveva messo in bacheca la Coppa America 1989 battendo l’Uruguay con la firma di Romario nella partita decisiva del girone finale, riportando i verdeoro a un successo che mancava dal lontano 1950.

Eppure, non era un Brasile che scaldava i cuori, quello visto nel pre Mondiale: fischi a San Paolo per la vittoria sofferta sul 2-1 e critiche dei tifosi nei confronti del c.t., reo di non aver convocato Joao Paulo, rampante attaccante del Bari, e pubblico in rivolta a Rio de Janeiro per il 3-3 contro la Germania Est. Nel mirino, il suo assetto tattico, con il libero, due marcatori e due esterni costretti a coprire tutta la fascia. Sarebbe poi diventato di moda, ma questa è un’altra storia.

Entrambe le squadre, alla vigilia del torneo, avevano atteso con ansia un attaccante: Bilardo si era arreso soltanto all’ultimo momento al fatto di non poter portare in Italia Jorge Valdano, reduce da ben tre stagioni di inattività. Uno degli eroi del 1986 era stato comunque aggregato al gruppo ed era andato a segno in qualche test in famiglia, ma a due settimane dal torneo si era deciso di mandare in fumo un piano di recupero durato di fatto più di sei mesi. Valdano aveva lavorato come un pazzo tra piscina e palestra, partecipando anche a un’amichevole contro il Monaco nel gennaio del 1990, ma un infortunio patito nel match d’addio di Zico aveva guastato notevolmente i piani: «Ho nuotato per sei mesi, sono annegato proprio quando stavo per raggiungere la riva».

Una decisione che aveva scatenato l’ira di Diego Armando Maradona: «Il gruppo è crollato insieme con me e con Valdano, escluso dopo sette mesi di inutili, enormi sacrifici, nel momento in cui correva più di tutti. Non posso cancellare il bene che voglio a Bilardo, rispetto una decisione che non condivido ma qualcosa si è rotto. Poiché non ho peli sulla lingua, quei figli di buonadonna che sostengono sia io a comandare nell'Argentina, a fare il bello e cattivo tempo, a escludere Ramon Diaz per convocare i miei amici, adesso hanno la risposta: Valdano, il mio migliore amico, torna a casa. Ho paura di rimanere solo. Ho chiesto scusa a Jorge, ero stato io a cercare di convincerlo a riprendere a giocare per aiutarci a cercare di rivincere il titolo. Sono andato a trovarlo nella sua stanza, era distrutto: ho rivisto in lui il Maradona diciassettenne in lacrime che lasciava il ritiro nel 1978, depennato da Menotti».

Il Brasile aveva aspettato con ansia un segnale di risveglio da parte di Romario, assente da tre mesi per infortunio. Con la squadra in ritiro in un convento di Gubbio, il primo test italiano era stato organizzato a Terni, contro una selezione mista di giocatori di Ternana, Gubbio e Perugia, tutte in Serie C. Nello stupore generale, il Brasile aveva perso, colpito al cuore da una freccia scagliata su punizione da Edoardo Artistico detto Ciccio, anni 21 e una carriera futura da specialista della B e da saltuario frequentatore della Serie A. Per Romario soltanto 22 minuti in tandem con Bebeto, la squadra era poi migliorata nella seconda parte della preparazione, ad Asti. A prendere la scena, almeno mediaticamente, Renato Portaluppi, ex meteora nella Roma, rilanciatosi nel Flamengo: «Perché non avete visto il vero Renato in Italia? Chiedetelo a Massaro e Giannini che non mi passavano mai la palla». A differenza di Valdano, Romario era stato poi inserito nei 22: titolare solo nel terzo incontro con la Scozia e poi sostituito dal match-winner Müller.

El bidón de Branco

L’Argentina prepara la sfida da dentro o fuori nel ritiro di Trigoria. Le condizioni fisiche di Maradona sono un problema, toccato duro a più riprese da Rotariu nel match con la Romania. Ha la caviglia della gamba sinistra gonfia, una brutta contusione al ginocchio e una forma globale tutt’altro che convincente. Non avrà neanche più il pubblico di Napoli a sostenerlo, visto che il terzo posto nel girone, contrapposto al primo del Brasile, obbliga l’Argentina a traslocare a Torino per l’ottavo di finale.

Si troverà di fronte due grandi amici come Careca e Alemão, colonne dei verdeoro che grazie al cammino nella fase iniziale del torneo hanno potuto dimenticare le fatiche della vigilia. I precedenti non fanno sorridere Diego, che non ha mai vinto in carriera contro il Brasile: tre sconfitte e un misero pareggio raccattato al Mundialito ’81. «I risultati ci dicono che sono più forti di noi, ma nel calcio esistono i miracoli e io ci credo, perché in questo Mondiale i favoriti sulla carta muoiono sul campo».

Il pubblico brasiliano, a dirla tutta, non gradisce questa versione annacquata e difensivista proposta da Lazaroni. La torcida ha fischiato durante le sfide con Costa Rica e Scozia, la stampa attacca il c.t. appena possibile: tutti vivono come un’offesa alla loro tradizione l’assetto abbottonato con cui il Brasile affronta un Mondiale in cui, per assurdo, è l’Italia a fornire spettacolo.

Lazaroni viene tormentato in ogni conferenza stampa, non c’è intervista in cui non gli venga chiesto di inserire la terza punta con Careca e Müller, che sia Bebeto, Romario o Renato. Anche José Altafini, impegnato nell’analisi del Mondiale per Telemontecarlo, ci va giù pesante: «Lazaroni ha frenato quella che i tifosi hanno sempre considerato una macchina da gol. Agli occhi della gente si è comportato come il ministro che qui in Italia ha imposto il limite dei 110 chilometri orari. Dobbiamo passare dalla lambada al samba».

Nelle dichiarazioni dei protagonisti brasiliani alla vigilia dello scontro con Maradona e compagni c’è molta convinzione, da Dunga - «Non è il caso di studiare marcature particolari per Maradona» - a Ricardo Rocha: «Ci interessa quando gioca, mai quando parla». Lazaroni ci mette il carico: «Devo dire è migliorato in questo Mondiale, ora sa usare due mani: la sinistra per segnare, la destra per parare».

L’Argentina sa di giocarsi tutto o quasi, "el Narigón" Bilardo mette in chiaro il peso della posta in palio: «Per l’Argentina è la sfida più importante del decennio, non giochiamo per la classifica ma per una questione di vita o di morte». Gli chiedono delle marcature di Müller e Careca, e Bilardo dà una risposta criptica: «Mi piace molto anche Branco…». Branco, all’anagrafe, è Cláudio Ibrahim Vaz Leal. È passato in Italia per un biennio con la maglia del Brescia, prima di accettare la chiamata del Porto. È l’esterno sinistro della formazione di Lazaroni, lui e Jorginho sono due giocatori fondamentali per il 5-3-2 del tecnico. A differenza del terzino destro, può anche vantare un mancino al tritolo su calcio piazzato.

Il Brasile inizia benissimo il match. Dopo tre minuti Careca semina il panico ma viene arginato sul più bello dal "Goyco", che al 19’ deve ringraziare il palo: cross di Branco da sinistra, incornata di Dunga, in odor di Juventus da qualche mese su forte pressione del nuovo tecnico Maifredi, e legno pieno. Maradona è un fantasma, le rare sortite offensive dell’Argentina si devono alle sfuriate di Troglio, bravo a lavorare negli spazi lasciati da Caniggia: hanno già giocato insieme a Verona prima del trasferimento del centrocampista alla Lazio, nel 1989.

In qualche piega della partita, durante il primo tempo, una delle leggende metropolitane della storia dei Mondiali prende vita. La ricostruzione più realistica la colloca al 39’, quando proprio Troglio cerca il triangolo con un compagno poco dopo aver superato il centrocampo. Ricardo Rocha lo abbatte e scatta il cartellino giallo, e mentre l’argentino è a terra Maradona parlotta con Branco. Il terzino ha sete, a Torino fa molto caldo per essere fine giugno, Giusti gli passa una borraccia. Claudio, ignaro, beve. Da lì in poi, e per tutto il secondo tempo, Branco prosegue il match stordito, incapace di infilare due giocate decenti in fila: «Quell’acqua aveva un sapore amaro, però non ci badai. In pochi minuti avvertii un malessere. Mi girava la testa, le gambe erano strane: a tratti mi sentivo un leone, a tratti ero sul punto di svenire. Chiesi il cambio all’intervallo ma Lazaroni mi intimò di tenere duro».

Cosa sia realmente accaduto, in quel primo tempo di Brasile-Argentina, rimane un mistero, perché lo stesso Branco non riesce a collocare con precisione l’attimo passato alla storia: secondo il futuro terzino del Genoa sarebbe avvenuto non dopo il fallo subito da Troglio, ma in seguito a un intervento subito proprio da Maradona. Una ricostruzione che stona anche con la rivelazione postuma di Diego: «I brasiliani venivano a bere alla nostra panchina, quando è venuto Branco gli ho detto che poteva bere e si è scolato tutto. Poi è arrivato Olarticoechea e gli ho gridato: “No, no, non da quella borraccia”. A partire da quel momento, Branco era stralunato, tirava le punizioni e stramazzava a terra. Dopo la partita, quando ci siamo incrociati, mi ha fatto segno che era colpa mia, ma io gli ho risposto di no. C’era un buon rapporto tra noi e non ne abbiamo più parlato. Qualcuno mise del Roipnol nell’acqua e finì tutto in vacca».

Una confessione, quella di Maradona, arrivata soltanto nel 2005. Per quindici anni, Branco è stato preso per pazzo. «Più ne parlavo, più sentivo scetticismo attorno a me». Una conferma gliel’aveva data in realtà Oscar Ruggeri già nel 1992: «Mi pare fossi all’aeroporto di Rio. Ridacchiando, mi disse: “Ehi Claudio, che scherzetto che ti abbiamo combinato in Italia”, raccontandomi che quella borraccia aveva un tappo di colore diverso perché dentro c’era un sedativo. Ma non avevo registrato le sue parole». Acqua e sonnifero, in sostanza. Due indizi che portavano a un grande architetto: Carlos Bilardo, laureato in medicina, commissario tecnico dell’Argentina, pronto a tutto pur di vincere. Un’accusa che "el Narigón" ha respinto goffamente: «Non so cosa sia accaduto, ma questo non significa che il fatto in sé non si sia realmente verificato. Non posso certo dire che non sia successo». Nell’immaginario collettivo brasiliano e argentino, la partita del Delle Alpi rimane quella del "bidón de Branco", la borraccia di Branco.

Le immagini del possibile avvelenamento di Branco. Forse.

¡Caniggia, ahora o nunca!

Resta comunque un tempo da giocare, a prescindere da Branco, e l’Argentina non sembra avere benzina in corpo. Un tiro-cross di Careca, malamente smanacciato da Goycochea, invece di infilarsi sotto l’incrocio dei pali viene nuovamente respinto dal legno, come il colpo di testa perfetto di Dunga. È forse la miglior incarnazione del Brasile nel Mondiale, ma qualcuno sta proteggendo l’Argentina e il suo portiere con un intervento divino. L’azione prosegue, Alemão spara un missile terra-aria e ancora una volta è il palo a dire di no ai verdeoro. Un colpo di testa di Careca dà l’illusione del gol ai tantissimi brasiliani presenti al Delle Alpi, per il vantaggio della squadra di Lazaroni sembra davvero questione di minuti.

Ma lo aveva detto Maradona prima della partita, nel calcio esistono i miracoli. Diego rinviene dopo ottanta minuti di oblio. Riceve palla nel cerchio di centrocampo, salta Alemão, resiste a un intervento da dietro e vede Caniggia tagliare in due da destra la difesa brasiliana andando nella direzione opposta. Il libero del Brasile fa per seguire la scheggia impazzita con il numero 8 sulle spalle ma si pianta di colpo, mentre Maradona conduce il contropiede andando verso lo spazio lasciato libero da Caniggia, seguito da un timido raddoppio di marcatura. La capacità superiore di Diego di leggere le situazioni proposte dalle difese avversarie diventa fondamentale: Maradona aumenta leggermente il passo e quando sta per vedere il pallone sfuggire dal suo controllo si allunga in scivolata, dandogli un colpetto con il piede destro, per una volta nobile quanto il mancino. Caniggia è solo davanti a Taffarel, lo salta con un dribbling essenziale molto anni ’90 e deposita in rete a porta vuota.

Il relato di Marcelo Araujo cadenza a meraviglia l’azione di Maradona e Caniggia. "Maradona. Alemão que no. Sigue Diego, picò Caniggia. Vamos Diego, lo estaban agarrando. Caniggia la ley de la ventaja. ¡Caniggia, ahora o nunca! El triunfo, Caniggia, gooooooool".

Con un’azione capolavoro, nonostante una caviglia imbottita di novocaina, Diego Armando Maradona fa saltare il banco, manda a casa il Brasile e regala a Claudio Paul Caniggia la prima pagina di storia di quel Mondiale. L’Argentina vince la partita delle contraddizioni: il Brasile esce dopo aver dato spettacolo, almeno per una volta, e Lazaroni a fine conferenza stampa singhiozza come un bambino. «Chiedo scusa a tutti quelli che ho deluso, ma ci è mancato solo il gol. Mi risulta difficile commentare una giornata simile». Nella stanza accanto, Renato Portaluppi gli vomita addosso tutto il suo disgusto mentre mangia un panino e fa gli occhi dolci a una giornalista: «Dovevo entrare prima. Perché non è successo? E proprio a me lo chiedete? Andate a domandarlo a quello là». Stavolta non può accusare Giannini o Massaro.

Maradona potrebbe fare il gradasso e per una volta, incredibilmente, spreca l’assist. «Il Brasile non meritava di perdere, ma questo è il calcio. Abbiamo battuto uno squadrone e non può essere merito di un solo giocatore: la difesa è stata brava come il centrocampo, Caniggia ha fatto un gol difficilissimo. Ho dato il massimo che potevo in queste condizioni, l’ematoma sulla caviglia non accenna a sparire ed è difficile anche fare infiltrazioni. Non credo che mi vedrete al 100% in questo Mondiale».

A fine partita, invece di gioire, ha abbracciato Careca: «L’ho visto piangere e ho preferito correre a consolarlo, sono sicuro che avrebbe fatto lo stesso se avesse vinto il Brasile. L’amicizia non si gioca in novanta minuti». Un’Argentina sgangherata come poche altre volte arriverà fino alla finale, passando da Firenze e dall’amata Napoli: avanti ai rigori contro la Jugoslavia, identico epilogo contro l’Italia.

All’Olimpico, nell’ultimo atto del torneo, il pubblico italiano riserverà alla nazionale sudamericana e al suo fuoriclasse l’accoglienza peggiore possibile: i fischi durante l’inno, una vergogna in mondovisione. Maradona masticherà amaro durante trenta secondi interminabili, aspettando la telecamera: «Hijos de puta!», urlerà con la faccia carica di rabbia. Il suo lungo addio all’Italia, iniziato un anno prima con il lunghissimo tira e molla con Ferlaino, vive un momento chiave all’Olimpico. Si concretizzerà qualche mese più tardi, con la squalifica per doping: stessa fine, due anni dopo, per l’altro eroe del Delle Alpi, Caniggia. Una circostanza che Diego avrebbe poi voluto sottolineare nel film-documentario girato da Emir Kusturica nel 2008, dando del mafioso al presidente della FIGC Matarrese.

Quella danza sublime sul prato del Delle Alpi sarebbe poi tornata d’attualità all’improvviso durante il Mondiale brasiliano del 2014, in un coro che preconizzava la vittoria del torneo da parte dell’Argentina: profezia smentita ancora una volta in finale dalla Germania, proprio come nel 1990. Quel coro, divenuto virale in tutto il mondo, ricordava a tutta la torcida verdeoro cos’era accaduto in quel rovente pomeriggio torinese: que el Diego te gambeteó, que Cani te vacunó, que estás llorando desde Italia hasta hoy.

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