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Niccolò Scarpelli

La rinascita di Christian Wood

Dopo anni a sprecare occasioni, ora il lungo degli Houston Rockets può davvero fare il…

Al suo primo possesso ufficiale con la maglia degli Houston Rockets, Christian Wood gioca un pick and roll centrale con James Harden. Dopo il raddoppio della difesa dei Portland Trail Blazers sul “Barba”, Wood si ritrova in una situazione di quattro contro tre: il suo tentativo di riapertura nell’angolo non va a buon fine visto che la palla viene deviata dall’ex di turno Robert Covington, ma Wood è bravo e reattivo a riprendere il pallone dopo la deflection, rimettere a posto i piedi e alzare un floater morbidissimo che si conclude con i suoi primi due punti texani.

 

Trenta secondi dopo, stesso schema e stesso scarico di Harden. Stavolta Wood non esita e si porta a casa punti e ferro con una schiacciata esplosiva. Al terzo possesso offensivo giocato soltanto un’autentica “mazzata” di Jusuf Nurkic gli impedisce di segnare. Al quinto possesso Wood riceve sul ribaltamento di campo di Brodric Thomas a circa otto metri dal canestro e spara da tre senza esitazioni. Il tiro finisce sul secondo ferro, ma Wood è abbastanza attivo da prendere il rimbalzo sul suo stesso errore.

 

Poi arriva il sesto possesso offensivo giocato con i Rockets, proprio agli inizi del secondo quarto. È un isolamento dopo un gioco rotto, con Wood che si ritrova accoppiato contro Gary Trent Jr. La coordinazione con la quale cambia perno e mette palla per terra, attaccando lo spazio al di là dell’anca sinistra del difensore di Portland, è sublime e gli permette di prendere velocità. Wood poi fa due piccoli passetti quasi sul posto, come se dovesse ritrovare l’equilibrio, prima di esplodere il terzo tempo che gli permette di segnare eludendo il (tardivo e passivo) aiuto dal lato debole di Carmelo Anthony ed Enes Kanter.

 

 

Un biglietto da visita niente male per un “esordiente”.

 

Questo è l’impatto che Wood ha avuto, e sta avendo, sull’attacco degli Houston Rockets. Nelle sue prime cinque partite in Texas il nativo di Long Beach ha messo insieme 23.8 punti, 10 rimbalzi, 2 assist e 2.3 stoppate tirando con oltre il 55% dal campo. La completezza del suo repertorio offensivo, sommata a un atletismo quasi feroce, da rinnegato, fanno di Wood già in questo momento il miglior lungo con il quale Harden abbia condiviso il campo nei suoi anni di Houston. Ma oltre all’ironia della situazione, visto che il loro sodalizio rischia di interrompersi da un momento all’altro stante la richiesta di scambio di Harden, la cosa davvero intrigante è che il vero limite del talento di Wood ci è ancora oggi sconosciuto.

 

I margini di miglioramento sono evidenti, sia per quanto riguarda la tecnica sia in termini di comprensione del gioco. E intrigante è la parola giusta perché una giocata come quella descritta nel suo primissimo possesso, con il tentativo di ribaltamento del campo in movimento dopo il blocco, era qualcosa di impensabile per il suo bagaglio tecnico-emotivo anche soltanto fino a 18 mesi fa. Nell’ultimo anno e mezzo Wood ha spazzato via molte delle nubi che oscuravano il suo talento e già da prima della sosta forzata per via della pandemia aveva iniziato a mostrare il suo lato migliore. Ma fino a dove può arrivare Wood? Qual è davvero il suo potenziale? E soprattutto: la sua presenza può davvero cambiare il futuro prossimo di una franchigia che sembra sul punto di dire addio al suo totem e mettersi davanti a un foglio bianco per ripartire da capo?

 

Mettersi alle spalle le cattive abitudini 

Questa dovrebbe essere la parte in cui si fa notare che i Rockets, per portarselo a casa, hanno sborsato 41 milioni di dollari per i prossimi tre anni. Sebbene sia passato un po’ sottotraccia, Wood è stato una delle principali firme dell’ultima free agency, forse addirittura la più importante. Le 62 partite giocate con la maglia dei Detroit Pistons gli avevano permesso di rivelarsi ai radar del sottosuolo NBA – 22 punti e 10.6 rimbalzi per 36 minuti con oltre il 56% dal campo, frutto anche del 38.7% dalla lunga distanza – e in molti erano del parere che il giovane da UNLV fosse sul punto di diventare un giocatore di livello.

 

Ma quando si mettono consacrazione e Wood nella stessa frase bisogna sempre andarci cauti, perché se è vero che il talento non gli è mai mancato, per arrivare davvero a stabilirsi in pianta stabile nella lega non si può fare affidamento sul solo potenziale. Wood ha sempre avuto tutto il necessario per farcela: braccia lunghissime, una struttura elastica da grande atleta, un’eccellente capacità di esplodere in verticale abbinata a mani morbide e una coordinazione motoria discreta. Insomma, 208 centimetri di creta modellabile da mettere a disposizione del primo acquirente disponibile. Invece, come spesso accade nelle grandi storie di redenzione, la sua strada è stata molto più tortuosa e complessa, partendo dal fallimento totale della notte del Draft 2015, quando nessuna tra le 30 organizzazioni NBA si convinse abbastanza da dargli un’occasione.

E pensare che anche la sua ragazza lo lasciò quel giorno.

 

Gli scout che lo avevano visto nei due anni a Las Vegas l’avevano sempre trovato immaturo, indisciplinato, troppo grezzo e senza la voglia di impegnarsi davvero per migliorare. La totalità della sua esperienza di gioco era fondata sulla metà campo offensiva, tanto che nelle serate in cui i tiri non gli entravano il suo apporto in campo diventava nullo o inconsistente. Anche ai provini pre-Draft il suo atteggiamento era stato pessimo, presentandosi persino in ritardo agli incontri e non lasciando altra scelta ai (pochi) dirigenti delle franchigie NBA interessate a lui di cancellarlo dalle loro liste, perché se c’è qualcosa di veramente triste è vedere qualcuno sprecare il proprio talento.

 

Wood verrà poi preso da Philadelphia, ma più perché sotto la gestione Sam Hinkie i Sixers una chance non la volevano negare proprio a nessuno che per reale interesse. La sua diaspora toccherà anche le sponde di Charlotte e Milwaukee e soprattutto la Cina, dove viene tagliato dai Fujian Sturgeons prima ancora di giocare una partita. Nella sceneggiatura della sua giovane carriera quello è senza dubbio il punto più basso; e non soltanto perché decidere di spostarsi dall’altra parte del mondo soltanto per vedersi chiudere l’ennesima porta in faccia deve avergli fatto un male tremendo, ma perché, come dimostrano le partite giocate in G-League nei suoi primi tre anni dopo il college, gli ingredienti sembravano esserci davvero tutti.

 

 

Guardate questa azione, sempre dalla prima partita stagionale contro Portland: quanti altri giocatori oltre a Giannis Antetokounmpo e forse Anthony Davis sarebbero in grado di fare un coast-to-coast del genere? 

 

Eppure, ancora oggi, Wood ha giocato più minuti in G-League che nella NBA. Ovviamente questo dato è destinato a cambiare molto presto, ma dimostra anche quanto sia difficile arrivare al successo, quanto un giocatore debba volerlo, quanto la NBA sia una competizione che richiede il massimo livello di disponibilità fisica e mentale. Nessuno escluso.

 

Contraerea micidiale

Prima di arrivare a Detroit, Wood aveva giocato appena 503 minuti da professionista e non fosse stato per le condizioni malconce di Joe Johnson (col quale vinse il ballottaggio per l’ultimo posto a roster disponibile) probabilmente la porta si sarebbe chiusa un’altra volta. Invece, grazie alla fiducia dimostratagli da Dwane Casey – magari non il miglior stratega in circolazione, ma senza dubbio un grande comunicatore, soprattutto quando si tratta di entrare sottopelle a ragazzi di colore che, per un motivo o un altro, non sono mai riusciti a raggiungere il proprio massimo potenziale – Wood ha iniziato a ritagliarsi il proprio spazio, lavorando duramente per ogni minuto (a ogni distrazione difensiva tornava a sedersi in panchina) e finendo con l’esplodere del tutto una volta ceduto Andre Drummond alla trade deadline.

Il video dove viene definito il “Nuovo Unicorno” della NBA che non potete non aver visto.

 

L’aggressività messa in ogni salto, in ogni taglio verso il canestro è quella di un giocatore che sembra avere un bisogno quasi fisiologico di schiacciare (o ricacciare) i suoi stessi demoni dentro al canestro. Oltre il 78% della sua produzione offensiva deriva dai tagli verso il ferro, e laddove la scorsa stagione concludeva col 77% in queste prime partite sta tirando con il 84%. Numeri probabilmente impossibili da sostenere per tutta la stagione, ma la gamma delle sue soluzioni è davvero molto estesa.

 

Wood può usare la verticalità per agguantare i lob che le guardie scagliano nei pressi del ferro e possiede l’esplosività laterale per battere il diretto rivale dal palleggio. È troppo veloce per i centri monodimensionali e troppo potente ed elastico per gli esterni, e la sua capacità di aprirsi sul perimetro gli permette di mandare fuori fase le difese. Soprattutto quando riesce a essere consistente nel tiro pesante: nella sua esperienza in Michigan, Wood ha tirato con il 40% in situazioni di catch and shoot, un numero in contraddizione con quanto visto prima e che, come dimostra questo inizio di stagione (6/17 complessivo da tre), deve ancora trovare una risposta definitiva.

 

 

Tre triple diverse tra loro, fungendo da decoy (la prima) sul lato debole e facendo “pop” sul gioco a due con Wall (seconda clip). La più preoccupante per le difese avversarie è ovviamente la terza, perché se quel tiro diventasse quantomeno rispettabile le possibilità di contenerlo in avvicinamento ridurrebbero ulteriormente.

 

I limiti nella produzione esterna al pitturato sono anche quelli che, per il momento, sconsigliano l’utilizzo di fianco a un altro lungo di ruolo. Wood possiede il potenziale per diventare un’arma offensiva à-la-Anthony Davis, capace di spaziare il campo per i centri classici e di muoversi in area nei quintetti più mobili e piccoli, ma per adesso la collocazione migliore per massimizzare il suo impatto è circondarlo di esterni e lasciare che la sua velocità – intesa sia come laterale, di piedi, che di esecuzione motoria – faccia a pezzi i centri avversari.

 

Essere accoppiato con i “5” nella metà campo difensiva lo porta a soffrire un po’ in termini di tonnellaggio (uno dei miglioramenti più urgenti è guadagnare qualche chilo nella parte superiore del corpo di modo da assorbire ancora meglio i contatti), ma se il suo strapotere fisico era già abbastanza evidente a Detroit con Langston Galloway, Bruce Brown e Derrick Rose come compagni di squadra, nelle partite giocate con i Rockets i suoi giochi a due con Harden e John Wall (a proposito di resurrezioni!) gli hanno permesso di diventare ancora più dominante.  

 

È troppo presto per prendersi il futuro della franchigia?

La vera domanda da porsi adesso è: quanto diventerà dominante? I suoi numeri offensivi, per quanto ottimi, possono traslarsi anche in vittorie importanti (tradotto: quelle che servono da maggio in poi)? Siamo davanti a una stella “in the making” oppure a una delle ultime creazioni offensive di una lega traboccante di talento? La scelta dei Rockets di prendere Wood di modo da tornare-ad-avere-un-centro-senza-ammettere-di-aver-fallito-l’esperimento-di-giocare-senza-centri aveva molto senso già prima che il ragazzo dimostrasse di poter convertire in oro tutto quello che gravita attorno al ferro. Ma un conto è aggiungere un’arma al proprio arsenale offensivo; un’altra è mettere le mani su un giovane di talento sul quale rifondare in vista dei prossimi anni; e un altro ancora ritrovarsi con un potenziale All-Star che potrebbe renderti molto più competitivo di quanto ti saresti aspettato.

Tweet che sono invecchiati bene, per una volta.

 

Wood è tutt’altro che un prodotto completo. Non soltanto il suo fisico deve trovare una collocazione definitiva, ma il suo gioco è ancora piuttosto acerbo e parziale: i limiti nella visione del campo restano evidenti tanto quelli in termini di creazione pura dal palleggio. Probabilmente Wood non diventerà mai un “Point Center” nel senso stretto del termine e lo stesso si potrebbe dire sulla costruzione (o meno) di un jumper affidabile. Nella metà campo difensiva le sue letture lontano dalla palla sono ancora primordiali e spesso sembra perdere l’orientamento senza alcun motivo apparente. Essere un giocatore istintivo e possedere doti atletiche superlative può salvargli la vita in determinate occasioni, magari permettergli di rimediare ad alcuni errori di posizionamento con dei balzi felini; ma per diventare davvero un giocatore vincente c’è bisogno di una crescita completa, hardware e software.

 

La buona notizia, sia per lui che per i Rockets, è che avendo compiuto 25 anni lo scorso aprile Wood deve ancora entrare nel prime tecnico della propria carriera. Aspettarsi un ulteriore crescita, o anche solo una migliore smussatura, limatura dei limiti a vantaggio dei pregi non è solo auspicabile, ma possibile. Ancora una volta, però, Wood deve dimostrarlo di volerlo. Il “salto” (termine appropriato) in avanti fatto fino a questo momento gli ha permesso di inserirsi con facilità tra i migliori 50 giocatori della lega – il che, dati gli esordi, non era né scontato né così facile da raggiungere. Ma perché “accontentarsi” quando si può ottenere di più?

 

Sembra il mantra della sua carriera, una lunga e costante ricerca dello step successivo, quello finale, quello decisivo, quello che gli permette di cancellare una volta per tutte le etichette negative e riscrivere il proprio futuro. Wood può riuscirci, soprattutto in un’organizzazione storicamente importante e vincente come quella dei Rockets. Dipende solo da lui. Come sempre.  

 

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Nasce a Firenze nel 1990, si è fatto adottare dagli sport americani ancora in fasce. Scrive e parla di NBA con la speranza di ritrovare se stesso.