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Redazione
Chiudiamo il calcio?
08 apr 2015
08 apr 2015
Dopo i fatti del week-end una tavola rotonda su ultras e curve. Sono davvero il male del calcio?
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In seguito agli scontri tra i tifosi del Panathinaikos e quelli dell'Olympiakos dello scorso 22 febbraio, il premier greco Alexis Tsipras ha annunciato una misura di sicurezza estrema: chiudere il campionato greco, fermare il calcio. Una settimana prima i tifosi del Feyenoord in trasferta a Roma avevano danneggiato la Barcaccia di piazza di Spagna e nonostante Tsipras sia tornato sui suoi passi, la sua decisione è stata interpretata come il segno di una raggiunta criticità nei rapporti tra istituzioni e mondo ultras.

 

Ma anche al suo interno il mondo ultras sembra complesso e problematico: ieri la Curva Sud è stata chiusa per un turno in seguito a uno striscione contro la madre di Ciro Esposito che non ha trovato un fronte comune con nessuna tifoseria organizzata. La sera del 4 aprile dei tifosi non identificati hanno sparato sul pullman del Fenerbahce, ferendo gravemente l’autista. Anche qui il campionato è stato sospeso per almeno una settimana.

 

Per questo abbiamo organizzato una tavola rotonda per discutere di un tema sul quale in Italia, per quanto se ne parli, sembra difficile costruire un dialogo. Nella prima parte affrontiamo il problema dei costi sociali e della separazione tra il mondo del tifo e il resto della società. Nella seconda parte parliamo del problema dell'esclusione degli ultras dalla cultura calcistica.

 





 



Un ex calciatore argentino durante un'intervista mi ha detto: «Il problema è che certa gente ha il cervello così».

, accompagnato da un eloquente gesto delle mani che significava:

. Stavamo parlando di quel che è successo a Rosario durante un Central – Tigre: un tifoso dagli spalti del Gigante de Arroyito ha lanciato un accendino contro l’allenatore ospite, che però ha chiesto all’arbitro di

perché: «Non si può dare più importanza a un codardo che a trentacinquemila persone».

 

Sbeccare una fontana del Bernini, lanciare banane gonfiabili o fumogeni o accendini dentro a un campo da calcio sono fatti che con il calcio c’azzeccano poco. Hanno più a vedere, forse, con la civiltà

, e poi con la pubblica sicurezza. Il legame pallone-violenza, dopotutto, è solo contingente. Fermare il gioco, però, è una dinamica punitiva universale, e perciò facile da comprendere anche per chi ha il cervello

: lo faceva anche nostra madre quando ci facevamo prendere troppo la mano, intimandoci di riporre tutti i giocattoli.

 

Nel marzo di un anno fa anche

aveva fermato il calcio, e lì la situazione si era chiusa con un segnale forte di Bauzá, il Presidente della Federcalcio, che aveva rassegnato le dimissioni. Per qualcuno la mossa di Tsipras è una finezza politica illuminata, Totti si è rammaricato che in Italia «

». Con tutto quel che significa dire: Italia, buon senso,

.

 



Il lato oscuro della “dinamica punitiva universale”, per usare la definizione di Fabrizio, è che si chiude tutto per non sapere bene cosa fare, e la situazione non migliora, come dimostra proprio il caso greco: è la terza volta che il campionato viene sospeso da settembre. Forse è troppo per parlare di misura demagogica, ma i governi hanno gli strumenti per aggiustare, invece che chiudere, un sistema che funziona male.

 

È vero, la violenza non ha nulla a che vedere con il calcio, e le banane in campo o i vandalismi nelle piazze sono problemi di civiltà. Non possiamo negare, però, che il calcio è un innesco, come ha spiegato benissimo il giornalista americano Bill Buford in un libro tradotto in Italia con il titolo

. Negli anni ’80 Buford riuscì ad introdursi nel mondo degli hooligans inglesi, vivendoci per 8 anni. Anche lui sostiene di aver avvertito una sorta di piacere in gruppi di maschi giovani e spesso ubriachi che distruggevano cose o attaccavano altri gruppi di persone. Intervistato recentemente dalla rivista spagnola

, ha ribadito che il calcio funziona solo da pretesto, ma che si tratta di una violenza connaturata all'essere umano e slegata da altri fattori sociali (ad esempio la disoccupazione). Allora forse non è sbagliato pensare che possa essere la legge a sradicare la violenza dell'uomo.

 



Mi collego a Buford citando uno studioso italiano, Alessandro Dal Lago, che già venticinque anni fa fece uscire

. È importante avere ben chiaro che quella dello stadio è una dimensione rituale, dove gli enunciati non vanno interpretati in maniera letterale ma simbolica, e dove l’unica dialettica valida è quella amico/nemico. Non c'è una logica: quando i tifosi del Feyenord hanno tirato una banana gonfiabile a Gervinho, in campo la loro squadra aveva sei giocatori di origine africana. È dentro una dimensione simbolica

che va collegata la violenza di cui si parla, che infatti nella maggior parte di casi rimane simbolica. I tifosi esprimono anche delle sottoculture strutturate e complesse, con propri valori e visioni del mondo. E le sottoculture rispondono il più delle volte a esigenze identitarie e anti-repressive, quindi sarebbe un controsenso rispondere attraverso misure repressive. Ovviamente, dato che lo stadio fa parte della società, vanno rispettati i vari codici civili e penali. Le leggi già ci sono: NON pisciare su una fontana del Bernini; NON sparare; NON provare a uccidere i giocatori avversari con degli accendini.

 



 



A questo punto, però, dobbiamo distinguere tra i tifosi, a cui interessa la squadra, e gli ultras, a cui interessa la curva. È vero che della sottocultura ultras non si sottolineano quasi mai aspetti come la creatività e la cura, ma è anche vero che nessun ultrà considererebbe la sua curva un distaccamento dell’accademia di belle arti. Per gli ultras è centrale quella “mentalità” che, concretamente, si manifesta in un codice cavalleresco che parla il linguaggio dell’onore, del cameratismo, della gerarchia, del coraggio, del sacrificio (per questo molte curve si collocano politicamente a destra). C’è, comunque, un sistema di regolazione interno e nessun ultrà difenderebbe le azioni dei tifosi dei Feyenoord, perché tutti concordano che rovinare i monumenti non sia “mentalità”. Il fatto è che tutti però concordano che in trasferta sia molto mentalità occupare le piazze avversarie, in modo aggressivo, spavaldo e ovviamente alcolico. Il danno al monumento è l'eccesso di qualcuno che, per usare un’espressione romana, “non s’è regolato”.

 

Forse il problema con la sottocultura ultras sta qui: gli incidenti sono colpa di qualcuno che non si regola, ma le condizioni preliminari del singolo gesto sconsiderato sono approvate da tutta la comunità cui appartiene. Per il resto della società, però, il problema sono già quelle condizioni preliminari (organizzarsi per seguire un evento sportivo all'insegna dell'aggressività). E non me la sento di dargli torto.

 



Ho l'impressione che il tema della violenza, riferito al calcio e agli ultras, diventi volutamente fuorviante. Innanzitutto (e ci sono evidenze empiriche a confermarlo) la violenza ultras, almeno nel contesto dell’Europa occidentale, si è ridotta notevolmente per numero di episodi e per dimensioni, riducendosi per lo più a quella “rituale” di cui parlava il citato Dal Lago. In secondo luogo, va evidenziata la dimensione identitaria e “resistente” di certe manifestazioni, anche violente, legate al calcio e al tifo, nate e rafforzatesi proprio in contrapposizione a un generale (non solo nell'ambito del calcio) tentativo di omologazione.

 

Ancor più che nel contesto europeo occidentale, dove tale contrapposizione è per forza di cose più sfumata, questa tendenza è evidente nella violenza ultras che caratterizza paesi come l’Egitto, la Turchia o l’Ucraina. Paesi in cui gli ultras e la violenza ultras si sono rivelate pratiche a tutti gli effetti politiche, mettendosi al servizio dei processi di trasformazione. In Egitto in particolare, la violenza ultras, affinata in più di un decennio di contrapposizione con le forze di sicurezza, è tornata utile quando si è trattato di tenere la piazza e rovesciare il regime. Tuttora (gli ultimi incidenti con morti al Cairo lo dimostrano) questa violenza è vista come minaccia alla restaurazione, e nonostante i tentativi di ridurre tutto alla dimensione dell’ordine pubblico, i violenti ultras rappresentano un pericoloso oppositore politico da abbattere. Se non si tiene conti di questi casi, si rischia di non trovare nessun senso alla violenza.

 



Mi sembra interessante, giunti a questo punto, ribaltare la prospettiva: e se quei confini di cui parlavamo in precedenza, fossero proprio gli ultras a tenerli sotto controllo? E lo dico con la consapevolezza di quanto sia rischioso come ragionamento.

 

A settembre la Curva Sud della Roma ha diramato

nel quale si è presa la responsabilità di molti gesti sconsiderati degli ultimi anni (ultimo e più grave di tutti l’omicidio di Ciro Esposito) sottolineando la necessità e il desiderio di avere un maggiore controllo sui propri comportamenti. Abbiamo visto anche sabato le difficoltà della Curva Sud, che portano a galla delle infiltrazioni fasciste: lo striscione contro la madre del ragazzo ha trovato un filo comune non con altri gruppi ultras ma con

, rendendo ancora più problematico il contesto. Ma al di là del fatto preciso, mi chiedo che argomenti avremmo contro il tifo organizzato se il tifo organizzato stesso riuscisse a gestire il problema della violenza. La domanda può anche essere letta all'inverso: la violenza è parte necessaria della cultura ultras? Gli ultras sono disposti a rinunciare ad alcuni aspetti della loro tradizione, a evitare che il calcio si riduca a valvola di sfogo degli strati sociali più frustrati?

 





 



La mia impressione è che la violenza legata al calcio sia andata diminuendo man mano che il sensazionalismo mediatico su di essa aumentava. Naturalmente ci vorrebbe uno studio più approfondito ma la relazione tra le due cose mi sembra inversamente proporzionale. Al tempo stesso, però, la trasformazione graduale del calcio in un prodotto prettamente televisivo ha reso sempre meno accettabile qualsiasi violenza. Anche la violenza verbale, che prima riguardava solo chi andava di persona allo stadio, adesso è motivo di discussione pubblica. Non è un problema solo del calcio, ovviamente, ma nel calcio la percezione di massa è influenzata allo stesso modo da fatti più o meno gravi, più o meno isolati e meritevoli di essere portati in primo piano.

 

Poi, lo stesso paradosso italiano degli stadi vuoti è di natura televisiva. Lo stadio pieno non ha più valore in quanto tale (nemmeno economico data la bassissima incidenza della vendita dei biglietti sui ricavi dei club) ma in quanto rende il prodotto televisivo più bello, di valore più alto. Il paradosso risiede nel fatto che l'obiettivo non è più quello di portare più persone possibile allo stadio quanto quello di rimpicciolire gli stadi per averli sempre pieni o almeno farli sembrare tali. In questo senso, il fatto che la prima squadra d'Italia abbia optato per uno stadio da poco più di quarantamila posti mi sembra rivelante. Se si continua di questo passo alle tv e alle società sportive non resterà (ma in parte sta già succedendo) che pagare figuranti per riempire i seggiolini, introdurre i cori finti nell'audio televisivo e far ideare le coreografie al proprio ufficio marketing, tanto per colorare lo sfondo dell'immagine quando i giocatori entrano in campo.

 



Vado in Curva Nord, a Bergamo, saltuariamente, da quando ho 12 anni, ma non mi sono mai considerato un ultrà e mi ritengo “meno tifoso” di chi dedica tutta la propria energia all'essere ultrà (nella vita non solo alla partita). Quella degli ultras è una missione vera e propria e alcuni di quelli che conosco si occupano, oltre alla curva, di volontariato e raccolta fondi. Un esempio sono i soldi e l'aiuto donato a L'Aquila in occasione del terremoto. L'Aquila rugby, oggi, gioca con il logo della Curva Nord sulla maglia.

 

Ovviamente sono contrario alla violenza allo stadio, non è proprio nel mio carattere, ma credo che se da una parte negli ultimi anni la violenza negli stadi è diminuita (basta ricordare la famosa “trasferta dei genoani” del 1981, quando ventimila tifosi del Genoa tentarono di fare irruzione in curva nord, con le Brigate Neroazzurre che hanno resistito tipo

: che si direbbe oggi se succedesse una cosa del genere?) dall'altra si sta cercando di reprimere il tifo organizzato in ogni modo possibile, anche con metodi di repressione che giudicheremmo intollerabili in qualsiasi altro ambito della vita pubblica.

 

Anche il fatto che la curva della mia squadra sia rimasta chiusa per mesi mi sembra l'ennesima esagerazione di un questore capace di chiudere persino il “baretto” fuori dallo stadio perché secondo lui è un “covo di delinquenti”. Si è creata la paradossale situazione delle curve mezze vuote e gli ultras attivi in strada. Forse la versione ufficiale non combacia esattamente con la verità.

 



 



Riprendo la distinzione introdotta da Alessandro tra ultras e tifosi: il punto è che il tifoso tifa la squadra come fosse un’entità esterna, gli ultras invece tifano la squadra come fosse una cosa propria (Marco ha appena detto che gli ultras “dedicano la vita” alla squadra).

 

Lo scopo non è influenzare il risultato sul campo (l’idea del “dodicesimo uomo”), ma va oltre: è come se i risultati della squadra, come qualsiasi altra cosa che riguardi la squadra, fosse

affare loro. Mi viene in mente quell’episodio estremo dei giocatori del Genoa invitati dalla curva a restituire la maglia che (sineddoche del club e della sua storia) appartiene a loro. Gli ultras si sentono custodi e garanti dell’identità del club.

 

Il calcio moderno non la pensa così. Se il calcio diventa intrattenimento, e le squadre aziende, il tifoso è solo un cliente. Stiamo assistendo a un conflitto tra visioni diverse del calcio, i conflitti di cui parliamo derivano, almeno in parte, da questo. La logica controculturale degli ultras fa resistenza al cambiamento economico e culturale (Carlo ha parlato di tifo come forma di resistenza), in mezzo ci siamo noi, che vogliamo andare allo stadio con i bambini ma vogliamo anche i cori e le coreografie e, almeno come possibilità, le proteste dei tifosi più appassionati nei confronti di dirigenti che non hanno per forza a cuore l'aspetto simbolico del calcio.

 



Se lo svuotamento degli stadi è un problema tipicamente italiano, il trend generale è quello evidenziato da Emanuele, di una sostituzione di tifosi. In Premier League le squadre più avanti nel processo di evoluzione che chiamiamo calcio moderno, hanno stadi e tifosi sempre più anonimi ma anche sempre meno violenti (anche sul piano verbale). Durante la partita di Champions League tra Manchester City e Roma era impressionante il silenzio tombale dell'Etihad, soprattutto paragonato ai cori dei tifosi ospiti. Ed è chiaro che nel processo di generale trasformazione del calcio da fenomeno identitario a forma di intrattenimento il prezzo dei biglietti ha un peso rilevante.

 

Il vuoto che lascerebbe un'eventuale esclusione degli ultras dagli stadi potrebbe essere colmata da un tipo di pubblico meno interessato (o forse sarebbe meglio dire “devoto”) alla squadra e quindi meno propenso alla violenza. E non per tutti sarebbe un dramma: non ricordo chi diceva che «i tifosi veri stanno nei pub». Ma gli ultras, paradossalmente, non avrebbero bisogno di entrare allo stadio della partita giocata, potrebbero comunque non estinguersi, adattandosi semplicemente a una vita fuori dallo stadio. Magari,

dallo stadio,

dello stadio; oppure sotto le sedi societarie dei loro club, fuori dai centri di allenamento, nelle piazze più belle delle città che ospitano le partite.

 



A questo proposito è interessante il ribaltamento effettuato dai tifosi della Lazio lo scorso anno, quando in segno di contestazione al presidente Lotito la Curva Nord è riuscita a svuotare l’intero stadio per buona parte del girone di ritorno. Durante quei mesi lo scontro maggiore non era tra contestatori e “lotitiani” (considerati peggio dei romanisti) ma tra quelli che sostenevano che in questo modo si abbandonasse la squadra e quei tifosi in possesso di un'immaginaria patente del vero tifo: «Vuoi tanto andare allo stadio ma in trasferta non ti ho mai visto».

 

È interessante anche notare che uno stadio quasi vuoto per diversi mesi, disertato persino da molti abbonati, va contro quella mutazione antropologica che il calcio moderno diretto a famiglie e abbonati pay tv si auspica. D’altro canto sono emerse le diverse concezioni del tifo che separano internamente anche coloro che si vorrebbero uniti sotto un'unica bandiera. Qualcuno voleva sì contestare il presidente, ma faceva fatica a sottomettersi alla volontà del collettivo, chiamata “il diktat della curva”. Una logica di pensiero tipica della militanza politica, più che dell’amore per una squadra che per tanti, anche se condivisibile, rimane qualcosa di intimo e individuale.

 



Torno a parlare di Argentina perché mi pare che il tema del “tener aguante” tra i tifosi al di là dell’Atlantico somigli tantissimo alla scala di valori che dominano le curve da noi. C’è un coro dei tifosi del San Lorenzo che fa: «No soy de River, no soy de Boca, ni de Racing, Independiente, ni San Lorenzo: soy Gasolero y nada más». Cantano

.

tifano il San Lorenzo, dicono, ma si sentono

, parte dello stadio Pedro Bidegain, che ad Almagro tutti conoscono come

. Padroni, in un certo senso. Il sentimento della possessività non solo legittima, ma sublima l’afflato riottoso, quasi lo giustifica. La loro è una condizione, in primis, di classe, oltre che di mentalità, in cui la

ha un forte valore connotativo.

 

È evidente che esista una scala dell’accettazione, tanto all’esterno quanto all’interno di questo sistema, in virtù della quale passare il segno significa creare crepe, e crolli (d’autorevolezza e di sostegno anche da parte di chi è esterno all'identità di curva). Ma è anche vero che la direzione verso la quale si sta incamminando il calcio sta arginando il ruolo stesso dei tifosi. E se anche comuni tifosi (quelli con il minor potere d'acquisto, sostanzialmente) stanno finendo esclusi da questo processo evolutivo, figuriamoci gli ultras. Allora forse la violenza, e la spinta uguale e contraria della repressione, sono il canto del cigno di un mondo che vede la sua stessa ragion d’essere minata alla base. Alla fine, vale per tutti la massima di George Berkeley: «Esse est percipi»,

. Che poi è anche il titolo di un racconto di Borges e Bioy Casares in cui immaginano che gli stadi non esistano più e che il calcio sia tutta una messinscena per le televisioni. Un racconto scritto negli anni '60.

 
 

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