In diretta sulla televisione nazionale inglese ci sono quattro ragazzi brutti, che indossano maglie del West Ham e suonano un punk semplice e senza pretese. Sono i primi di maggio del 1980 e i Cockney Rejects (“i reietti di Londra”) non sono entrati per sbaglio nello studio della BBC, né a Top Of The Pops si sono improvvisamente bevuti il cervello. Il fatto è che quei quattro punk sono riusciti a infilare nella Top 40 inglese ben due singoli.
Il primo si chiama “The Cockney Ripp Off” ed è un’ironica accusa alla mancanza di street credibility dei ben più famosi colleghi Sham 69; il secondo è il loro successo più grande, ineguagliato in oltre vent’anni di carriera: “I’m Forever Blowing Bubbles”, cover dello storico inno del West Ham United. La loro versione è talmente iconica che il gruppo verrà invitato a suonarla dopo l’ultima partita giocata dagli hammers nel loro storico stadio, Upton Park.
Qualche sera dopo la messa in onda di quella puntata di Top Of The Pops il gruppo deve suonare a Birmingham, al Cedar Club, un posto che oggi non esiste più ma che quella sera è completamente esaurito. Più di cinquecento persone affollano il locale nell’Inghilterra del nord: tre quarti di loro sono tifosi del Birmingham e sono lì per fare la pelle ai Cockney Rejects.
Poco dopo l’inizio dell’esibizione parte un lancio di oggetti, dapprima innocui come bicchieri di plastica, poi sempre più pericolosi e possibilmente letali - soprattutto posaceneri di vetro. È a quel punto che il frontman del gruppo, il cantante ed ex pugile Jeff Geggus, soprannominato “Stinky”, interrompe l’esibizione per mettere le cose in chiaro: afferma senza mezzi termini che se ci sono dei problemi tra gruppo e pubblico ci si può vedere fuori dal locale per risolverli. Quello di cui si accorge subito dopo è che suo fratello Mick, anche lui un ex pugile e il chitarrista della band, è già in mezzo alla folla a fare a cazzotti con tutti.
Scoppia il finimondo. Per una ventina di minuti i pochi londinesi, gruppo stesso e fan, riescono nonostante la minoranza numerica a tenere testa a più di un centinaio di persone, fino all’arrivo della polizia che seda gli animi ed evita la tragedia - ma non che i membri del gruppo rimedino profonde cicatrici, visibili tutt’oggi.
Quella che passa alla storia come “la battaglia di Birmingham” è dovuta solo in parte all’alcol o all’eccitazione fuori controllo dovuta ad un concerto: alla base dello scontro c’è il calcio. L’esplosione in popolarità della versione dell’inno della squadra, unita allo sfoggio costante della propria fede calcistica, mettono paradossalmente fine all’ascesa dei Cockney Rejects fin lì velocissima, costringendoli ad annullare una lunga serie di concerti. Un’inattività fatale per un gruppo giovane e in ascesa. Possono sembrare una serie di avvenimenti senza senso se letti oggi, ma per il contesto culturale inglese a cavallo tra gli anni settanta e ottanta si tratta della norma ed è anzi molto più strano che non sia successo qualcosa di più grave e irrimediabile.
I fratelli Jeff e Mick Geggus nascono e crescono a Stratford, nell’East-London, a pochi centinaia di metri da Upton Park, casa degli hammers fino al 2016: non c’era nessuna alternativa a diventare tifosi del West Ham. Durante la pre-adolescenza diventano a tutti gli effetti degli hooligan, unendosi all’Inter City Firm, il gruppo ultrà degli hammers. Tra la fine degli anni settanta e durante gli anni ottanta il fenomeno del tifo violento organizzato, ormai fuori controllo, si è trasformato facendosi specchio grottesco della politica economica della Tatcher: invece di chiamarsi “gang” o “band” i gruppi si sono autodenominati “firm”, ovvero “azienda”; durante gli scontri tra rivali ci si lascia a vicenda dei biglietti da visita ironici in stile aziendale, un modo per mettere la firma, per paura che il “lavoro” svolto non venisse riconosciuto. L’organizzazione dei gruppi ricalca lo stile militare, ci sono delle gerarchie da rispettare e un codice etico non scritto alla base.
C’è anche un’uniforme non ufficiale, che parte dall’abbigliamento tipico della cultura skinhead per arrivare (durante gli anni ottanta e novanta) a quello che è diventato uno stile riconosciuto ed influente, il “casual”, basato sull’uso di abbigliamento sportivo di brand europei come Fila, Adidas, Ellesse, Tacchini, unito a marchi inglesi di alta sartoria come Burberry o Aquascutum. Uno stile nato con una finalità pratica, ovvero essere meno identificabili dalle forze dell’ordine che avevano cominciato ad impedire agli skinhead l’accesso alle partite. Più in generale c’era la ricerca di un’immagine tribale, che incutesse timore e fosse riconoscibile.
Chitarre e “martelli”
I membri della prima formazione dei Cockney Rejects si conoscono proprio attraverso il tifo. Quello che suonano insieme ad innumerevoli altri gruppi del periodo come The Exploited, Cock Sparrer o i Sham 69, è una risposta alla commercializzazione del fenomeno punk, una sua evoluzione sotto il governo Tatcher. I suoni sono quelli del primo punk, ruvidi e semplici, quasi Rock and Roll, lontani in modo apertamente polemico dalle sperimentazioni del Post-Punk.
Le tematiche dei gruppi sono crude: si parla della vita sotto la Lady di ferro, del degrado urbano, della violenza per le strade (ci si riferisce al genere anche come ‘street punk’), della forbice ormai ampissima tra classi sociali e la conseguente territorialità estrema che ne deriva. Il nome del genere, Oi, è involontariamente ispirato proprio da una canzone dei Cockney Rejects.
In un articolo dei Wu Ming pubblicato su un vecchio numero de Il Mucchio Selvaggio ci si concentra sui fraintendimenti circa il genere Oi, spesso associato ad estremismi di destra. Nel pezzo è riportata una frase dello scrittore skinhead George Marshall: «Probabilmente per la prima volta, chi stava sul palco e chi stava tra il pubblico era la stessa gente». Un concetto tanto semplice quanto incredibile che spiega anche in modo perfetto la vicinanza tra il tifo organizzato e i gruppi punk.
Musica e calcio in quegli anni erano un tutt’uno, e cementati soprattutto da un elemento, quello della violenza. Durante gli anni sessanta, con l’esplosione del movimento skinhead, il binomio era reggae/ska e calcio. A partire dalla fine degli anni settanta e durante gli ottanta le sonorità ballabili e positive della musica jamaicana furono sostituite dalle chitarre distorte e da urla sgraziate, riflesso della disillusione del periodo storico figlio delle illusioni del decennio precedente.
Nei primi due album dei Cockney Rejects, almeno quattro brani sono riservati alla loro squadra del cuore e ai compagni di hooliganismo, gli altri spesso vi hanno comunque fatto riferimento in modo più o meno diretto. Prendiamo un po' di titoli:“Fighting in the streets”, “West Side Boys”, “In the Underworld”, “Urban Guerrilla”, “We Are The Firm”, “War On The Terrace” - dove per ‘terrace’ si intendono gli spalti. Nel 1980, l’anno in cui i Cockney pubblicarono i primi due dischi, a causa delle aggressive politiche economiche della Tatcher (aumento dell’iva, incremento del tasso di interesse, tassazione indiretta) che colpirono soprattutto l’industria manufatturiera, la disoccupazione raddoppiò.
Il primo nome del West Ham United era proprio quello del cantiere navale in cui i suoi giocatori erano impiegati: Thames Ironworks. Nel frattempo, la “Lady di ferro” intraprese una campagna di demonizzazione mediatica delle classi sociali popolari, proprio quelle colpite dalle sue politiche, per cui tutto ciò che proveniva da quella enorme massa di persone era ridotto al male puro. In testa ovviamente la violenza nel calcio, e a seguire le sottoculture musicali e giovanili - due movimenti che non facevano nulla per distinguersi l’uno dall’altro o emanciparsi dalla propria immagine violenta.
People say I'm crazy
But I love what I do […]
Just an urban guerilla […]
Some folk call it anarchy
I just call it fun
Don't give a f*ck about the law
I wanna kill someone
Cockney Rejects, Urban Guerrilla
La rivincita dei reietti
Qualche giorno prima dell’esibizione dei Cockney Rejects a Top Of The Pops, il West Ham ha vinto la finale di FA Cup contro l’Arsenal: un giorno che il cantante Jeff Turner descriverà semplicemente come “il più bello della mia vita”.
In quegli anni la squadra dell’east end londinese (decisamente lontano dall’essere la zona cool e gentrificata di oggi) affronta un periodo buio, relegata a partire dal 1978 nella Division Two. La gloria dei tempi in cui Bobby Moore indossava la fascia della squadra è decisamente lontana, ma il livello di talento presente in quel West Ham è comunque mediamente più alto della divisione in cui si trova a competere. Verso la strada per la finale infatti riescono ad eliminare anche Everton ed Aston Villa, all’epoca tra le squadre inglesi più forti in assoluto.
Molti dei giocatori più iconici degli anni settanta hanno seguito la squadra nella serie minore e oggi sono leggende del club: parliamo ad esempio del capitano Billy Bonds, di Alan Devonshire e ovviamente di Trevor Brooking, fuoriclasse della squadra e autore dell’unico gol della partita, quello decisivo. Osservare oggi le immagini della finale è davvero impressionante. Più di centomila persone a riempire uno stadio che appare oltre i limiti delle proprie capacità; bandiere ovunque, tanto che ci si chiede se qualcuno riesca effettivamente a vedere il campo; un frastuono assordante che si trasforma in un boato all’ingresso delle squadre, su un prato verde poco curato illuminato da un rarissimo sole splendente.
Il commentatore nell’introdurre la partita descrive il West Ham come un club “orgoglioso delle sue origini che affondano nell’est della capitale, un quartiere prevalentemente portuale ma” continua “anche una zona negli ultimi anni estremamente depressa, svalutata” nonostante questa definizione, si affretta ad aggiungere come “le persone lì siano estremamente dotate di buon cuore”.
La vittoria è un momento storico, sia perché è la prima volta che una squadra vince la coppa senza appartenere alla massima serie inglese, sia perché è una rivincita impensabile per quella classe sociale di “reietti” del sud est londinese, tifosi della squadra dalle origini operaie per eccellenza; come se non bastasse contro l’Arsenal, vincitore delle ultime due edizioni, la squadra più titolata di Londra e la più tifata, prevalentemente dalla classe media nonostante le origini operaie - uno stereotipo questo che sopravvive anche oggi. Nelle parole di Nick Hornby, grande tifoso dell’Arsenal: «Qualsiasi tifoso dell’Arsenal, dal più giovane al più vecchio, sa che nessuno ci vuole, e quest’antipatia la respiriamo quotidianamente intorno a noi» in questo frammento di Febbre a 90° descrisse come la vittoria del West Ham come una specie di liberazione nazionale: «San Trevor [Brooking] d’Inghilterra segnò l’unico gol e uccise l’odioso mostro, gli Unni furono respinti, i bambini poterono nuovamente dormire sonni tranquilli nei loro letti».
In Inghilterra si fa di tutto per far finta che il massimo campionato di calcio britannico sia nato nel 1992 con l’istituzione dell’attuale Premier League, un mostro economico che fattura miliardi di sterline in tutto il mondo, si ignorano o quasi (di sicuro negli organi ufficiali) i centoventi anni di storia di una competizione partita nel 1899. Del resto dopo i gravissimi episodi delle stragi di Heysel e Hillsborug il governo Thatcher volle mettere un punto all’esperienza dell’hooliganismo. In realtà in larga parte fu lo stesso movimento ad implodere sotto la follia della propria violenza, con le figure storiche delle “firm” più importanti che si allontanarono da quel mondo già a partire dalla metà degli anni ottanta (molti non di propria volontà ma perché arrestati per reati legati alle loro attività).
Come spiegano Wu Ming e Alexis Petridis, la distorsione della narrativa circa il fenomeno street punk, mano a mano infiltrato da esponenti del Fronte Nazionale e da vari gruppi di estrema destra che se ne appropriarono con la forza, risulta essere la principale causa della damnatio memoriae a cui sembra destinato il genere musicale, nonostante questa deriva estremista sia ampiamente dimostrata come figlia di una forzatura storica.
Un esempio quasi troppo scontato è quello di Cass Pennant, figlio di emigrati jamaicani, stretto amico dei Cockney Rejects e capo dell’Intercity Firm. Nella prima puntata del documentario, visibile sul Netflix, “The Real Football Factories”, Cass nega la teoria (non negando ovviamente le eccezioni) secondo cui la maggioranza del tifo organizzato e delle sottoculture del tempo fossero razziste: «ti dico cosa voleva dire essere nero: lo ero una volta che uscivo fuori da Upton Park. Quando lasciavo lo stadio o i miei amici e mi allontanavo ero un negro. Quando ero dentro Upton Park i miei colori erano semplicemente porpora e blu».
Estendendo il concetto espresso da George Marshall, possiamo dire che in quegli anni chi stava sul palco, chi era tra il pubblico e infine chi era sulle terraces a tifare ( e spesso anche chi era in campo) erano sempre le stesse persone. Un’identificazione fortissima che dipinge un chiaro ritratto della Londra e per estensione dell’Inghilterra di quegli anni e che forse fa apparire la sera in cui i reietti di Londra rischiarono di morire a Birmingham per colpa di una maglietta del West Ham indossata in diretta sulla televisione nazionale un po’ meno incomprensibile.
La battaglia di Birmingham fu forse la prima estrema e profetica manifestazione del clima che si sarebbe vissuto negli anni successivi. Un disagio sociale terribile e profondamente radicato ma anche una vitalità estrema, al punto che non bastarono gli anni novanta con le loro droghe sintetiche e la musica elettronica per scrollarsi di dosso del tutto il decennio precedente.