«Il mondo è pieno di triangoli, non di quadrati. Se vedete come viene rappresentato Dio, è un triangolo con un occhio al centro che vede tutto. Perché ha le tre direzioni dello spazio, e questo è il fondamento del DNA del Barça»
Paco Seirul•lo
Il quarto di finale di Champions League tra Barcellona e PSG è uno dei più attesi di questa stagione, anche e soprattutto per il rapporto tra le due squadre. Parliamo di una delle poche rivalità extra-nazionali in circolazione. Due squadre che si odiano piuttosto apertamente, a tutti i livelli della piramide: dalla tifoserie alle dirigenze.
La vigilia del match però è stata assorbita da una polemica tutta interna alla galassia Barcellona, tra l'ex allenatore blaugrana, Luis Enrique, e l'attuale allenatore blaugrana, Xavi. L'assist è arrivato dalla stampa ma il tecnico asturiano si è tuffato nel conflitto con gusto sorprendente, quello di chi forse cova del risentimento da tempo. «Chi rappresenta meglio lo stile del Barcellona?» ha detto con tempi teatrali prefetti: «senza dubbio io. Guardate le cifre del possesso, il pressing alto e i titoli. So che alcuni non sono d'accordo, ma i dati ci sono». Solitamente gli allenatori tendono a un linea quasi corporativista, soprattutto nei pre e post partita dispensano elogi all’avversario. Non conviene davvero a nessuno prima dei match alzare così tanto la tensione. Solo i grandi maestri della comunicazione, tipo Mourinho, riuscivano a gestire questo tipo di emotività.
Le parole di Luis Enrique sono la miccia per la polemica con Xavi.
Come sempre quando si parla di Barcellona, si parla di calcio per portare avanti delle guerre di religione - o, più prosaicamente, dei conflitti tra sette e fazioni.
Come scritto da Juan I. Irigoyen su El País a Luis Enrique piace il conflitto, a Xavi no. Il tecnico asturiano vive in costante tensione tensione, alla continua ricerca di adrenalina per poter rendere al massimo; Xavi invece ha bisogno di lavorare in tempo di tregua costante, con la sensazione di avere tutto sempre sotto controllo. Erano così anche in campo. Entrambi sono figli del Barcellona di van Gaal. Il tecnico aveva individuato in Luis Enrique uno dei giocatori chiave per stile di gioco e carisma, mentre vedeva in Xavi il futuro, tanto da promuoverlo in prima squadra a scapito di Pep Guardiola. Luis Enrique in campo è focoso e istintivo, Xavi tranquillo e razionale. Erano la personificazione delle due anime conflittuali insite nella natura di van Gaal, due entità scisse che non riescono a comunicare. Come allenatore Luis Enrique ha reso il Barcellona una squadra più verticale, ha spostato il peso della manovra dal centro del campo - dal triangolo Messi, Xavi, Iniesta - al tridente offensivo Messi, Suárez, Neymar. Per farlo, tra le altre cose, ha messo in panchina Xavi, alla sua ultima stagione. Uno dei pilastri del miglior Barcellona della storia.
«È la mia squadra e il leader sono io» pare abbia detto Luis Enrique alla prima chiacchierata con lo spogliatoio del Barcellona nel 2014. Un messaggio recepito come una frecciata ai senatori, soprattutto al console Xavi, il capitano della squadra. Si narra che poi in privato Xavi abbia chiesto di parlare con Luis Enrique del suo ruolo e che tra le frasi uscite dalla bocca di Luis Enrique ci sia stata l’ormai famosa: «Si te quieras quedar, quédate. Pero no me toques los cojones». Non penso serva traduzione.
Xavi ha sempre smorzato i toni, e ha provato a ripulire questa immagine: «All'inizio è stato un anno difficile, poi tutto si è risolto in modo incredibile. Sapendo che era il mio ultimo anno, speravo che finisse bene e in effetti è stato un film, un triplete e la vittoria della Champions League da capitano. Ho avuto un rapporto incredibile con Luis, credo di averlo aiutato molto come capitano nei momenti difficili. Lo ricordo con orgoglio». È una dichiarazione di questi giorni. Bisogna ricordare però che Luis Enrique come suo allenatore al Barcellona ha scelto di metterlo in panchina in favore di Rakitic, scelta che ha coinciso con la volata al triplete, vissuta da Xavi “solo” come riserva di lusso.
Odorando il sangue, i giornalisti si sono affrettati a chiedere una replica a Xavi, che però ha cercato di mostrarsi conciliante, di provare a spegnere la polemica sul nascere: «L'ho visto, è Luis Enrique. Lo conoscete già, lo conosco anch'io. Ho un ottimo rapporto con lui. Ha tutto il mio rispetto ed è uno dei migliori allenatori al mondo. Ha una squadra per vincere la Champions League o, almeno, questa è l'intenzione. Abbiamo di fronte un avversario molto difficile. Entrambi cerchiamo la stessa cosa. Entrambi possiamo vantare questo DNA, così come Pep Guardiola o Mikel Arteta. Siamo quattro allenatori con il DNA del Barça nei quarti di finale di Champions League. Domani cercheremo la stessa cosa: presseremo alto, con la costruzione dal basso... Cerchiamo questo DNA, è la cosa di cui siamo più orgogliosi». Le parole non sono però dirette a Luis Enrique, ma al mondo esterno; vogliono spegnere la cosa sul nascere perché Xavi vuole evitare di riaccendere la guerra intestina che sta accompagnando la sua stagione.
Le parole Luis Enrique servono per rilanciare la sua immagine proprio nel momento in cui Xavi sta per chiudere la sua esperienza come allenatore del Barcellona, ma anche proprio per minare la base del rapporto tra Xavi e quello che viene definito “entorno”, quell'insieme che in Italia definiamo "ambiente, o addirittura “intorno” cioè la definizione che Xavi stesso ha coniato per descrivere il sottoinsieme delle tante persone che lavorano dentro il club.
Luis Enrique sa benissimo dove colpire. Dopo il Napoli Xavi si è scagliato contro i giornalisti che scrivono del Barcellona, che in passato lo hanno accusato di giocar male e di aggrapparsi ai risultati. Luis Enrique sa che quello dello stile, del modo in cui si fa giocare il Barça, è un tasto dolente. Lo sa perché lo ha vissuto in prima persona. Quanto si è fedeli all'identità storica del club, come si porta avanti il nome del Barcellona nella storia attraverso lo stile tattico. Sono questioni che a Barcellona, capirete, sono più rilevanti che altrove. Luis Enrique è andato a colpire lì perché sa che è il punto in cui fa più male.
Xavi ha dichiarato di voler lasciare la squadra a fine stagione, e lo ha fatto anche per togliersi di dosso le pressioni dell'"entorno" e responsabilizzare "l'intorno". Perché da sempre chi allena il Barcellona deve guardarsi tanto dal fuoco nemico quanto da quello amico. Guardiola ha lasciato dopo 4 stagioni perché logorato dalla guerra con Mourinho, certo, ma anche perché non si sentiva protetto dalla dirigenza. Per lui Sandro Rosell non era cruyffista, e quindi non era in sostanza fedele al DNA del Barcellona.
Paco Seirul•lo, uno dei discepoli di Johan Cruyff che dopo aver ricevuto per sua bocca il verbo ne ha per più di 40 anni ha preservato i suoi insegnamenti all’interno del club, ha da poco scritto un libro intitolato ADN Barça (DNA in catalano) e nel giro di presentazioni ha rilasciato un’intervista che non è passata inosservata: «La verità è che mi ha sorpreso che Xavi sia diventato un allenatore, perché non si è mai troppo interrogato. Pep era interessato. Iniesta era interessato e Busquets lo era sempre. Questa è stata la mia esperienza, a essere sincero». Questo fa eco alla sensazione, guardando il Barcellona di Xavi in questi anni, che l’allenatore catalano “senta” il gioco di posizione più che capirlo. Che ci sia nato e che quindi per lui sia naturale come bere, ma che faccia fatica a materializzare la metodologia per riportarlo in campo. Xavi conosce il gioco di posizione, ma non lo ha mai problematizzato. Il Barcellona, talvolta, sembra eseguire meccanicamente delle direttive, ma non riesce ad avere una manovra che disordina realmente gli avversari. È una squadra che si sfalda non appena è costretta ad andare oltre la lettura iniziale. Come se mancassero alcuni degli ingredienti fondamentali che rendono riportino allo stile del Barcellona ideale: l’utilizzo continuo di triangoli tra le linee, i cambi di posizione con l’avanzare della manovra. Guarda caso tutto quello in cui Xavi stesso era maestro in campo. Non è insomma una squadra con un gioco di posizione sofisticato. Per questo le parole di Luis Enrique fanno male.
Torniamo sempre qui: il Barcellona è una delle pochissime squadre al mondo per cui è normale che nasca una polemica sulla natura stessa della forma di giocare, di gestire la squadra, quanto è più aderente a un ideale tramandato da generazioni. E allora l’accusa più grave che si può muovere a un allenatore nel Barcellona non è tanto di essere inadeguato nei risultati, ma nella forma. Lo stile di gioco non è negoziabile. Quando lo stile verticale di Luis Enrique non ha più funzionato è stato pubblicamente bacchettato: quello stile non aderiva a come voleva giocare il Barcellona. E oggi che Xavi è criticato per le stesse cose è come se volesse dire: "non era poi così male quando c'ero io".
Questo è il piano della polemica che ha provato a rimarcare Luis Enrique, tanto contro Xavi quanto per rilanciarsi contro l'ambiente. Sembra una disputa tra filosofi scolastici medievali e forse è la cosa più vicina che possiamo avere al giorno d’oggi. Nessuna squadra al mondo ha sviluppato nel tempo un rapporto tanto stretto tra lo stile di gioco e l'identità della squadra. La definizione di DNA del Barcellona serve per definire sé stessa ma anche come metro di giudizio per chi fa parte o deve fare parte della squadra: per giudicare un giocatore che deve arrivare tra i tifosi la prima domanda è se ha il DNA da Barcellona, un modo per dire se è all’altezza di vestirne la maglia non soltanto in termini tecnici, ma anche di stile. Per questo diversi grandi campioni vengono rigettati dal sistema e dall'ambiente. La Masia non è soltanto le giovanili del Barcellona, ma è il posto in cui viene coltivato e preservato il DNA della squadra. L’allenatore non è soltanto quello che mette in campo i giocatori, ma è chi deve materializzare in campo lo stile del Barcellona, dare forma a un'idea.
Dall’arrivo di Cruyff l’allenatore non deve soltanto vincere, ma deve farlo giocando in un certo modo. Anche a distanza di anni Luis Enrique ci ha tenuto a ricordare che il suo modo era comunque aderente, fedele alla linea, che quindi non è stato un eretico o sicuramente che non lo è più di Xavi, l’auto proclamato difensore dello stile. L’ha fatto ben consapevole del polverone che avrebbe alzato. Spera che questo questo gli dia un leggero vantaggio in questa sfida da cui, lo sanno tutti, dipende la sua stagione e quella di Xavi.