Chi ha perso il 2016?
Arrivati alla fine, chi è stato il peggiore dell’anno sportivo?
- La Cina alle Olimpiadi di Rio
“A pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”, diceva lo statista. La Cina alle Olimpiadi di Rio ha deluso, prima di tutti i suoi stessi cittadini che hanno mugugnato sui social network dell’Impero (non c’è più religione, si fa per dire). Persino l’account Twitter di China News si è scatenato: «Ci supera negli ori persino la Gran Bretagna», la stessa che qualche tempo prima veniva definita «Un vecchio impero in declino».
I fatto dicono che quelli brasiliani sono stati i primi Giochi dove non è arrivato neppure un titolo individuale nella ginnastica, solo argenti e bronzi. L’atletica ha regalato appena sei podi, unico punto fermo il tennistavolo e ci mancherebbe. I freddi numeri parlano di 70 podi raggiunti (26 ori), terzo posto nel medagliere dietro ai sudditi di Sua Maestà e gli inarrivabili Usa. Un calo drastico rispetto a otto anni fa, quando nei giochi di casa i cinesi si assicurarono 100 medaglie tonde con il pazzesco risultato di 51 ori, prima e unica volta in vetta alla classifica finale. A Londra i titoli furono 39 e i podi 89.
Il dragone in ritirata se da una parte mostra una generazione di sportivi esplosi nel 2008, ancora competitivi quattro anni dopo, ma privi di ricambio oggi, dall’altra fa crescere il sospetto che l’aver puntato molto sullo sport prima di ospitare i Giochi non si trattasse soltanto di investimenti in infrastrutture e squadre. D’altronde la Cina non è nuova alla creazione in vitro di atleti e interi movimenti sportivi nati e finiti nel giro di qualche stagione (ricordate i mezzofondisti nutriti a zuppa di tartaruga?).
Alcuni media di Stato hanno detto che è si tratta di un piano che prevede un ricambio generazionale e una riforma del modo in cui lo sport è gestito in Cina. Altri commentatori sempre cinesi hanno parlato della sconfitta come di una componente importante dello sport, utile a far crescere il movimento sportivo cinese. Insomma va tutto bene nel celeste impero. Da queste parti ci teniamo il dubbio e diamo appuntamento a Tokyo 2020.
(GC)
- Marc Wilmots
La fortuna aiuta gli audaci, ma spesso la sfortuna si accanisce con i più deboli. Marc Wilmots ha avuto l’opportunità di allenare la nazionale belga della generazione d’oro e, se il mondiale in Brasile poteva essere considerato una tappa di avvicinamento di un gruppo di giovani calciatori di talento verso la piena maturità, l’Europeo in Francia era davvero la prima occasione per vincere qualcosa o comunque provare seriamente a farlo. La prima sfortuna per l’inadeguato Wilmots è stata quella di incontrare subito, alla partita di esordio, l’Italia di Antonio Conte, su cui pochi avrebbero scommesso, ma in realtà, non troppo sorprendentemente, la migliore nazionale del continente per organizzazione tattica. La peggiore squadra possibile per mettere in evidenza tutte le carenze tattiche del Belgio e spostare la partita dal campo del talento individuale a quello della strategia. La latente convinzione che il Belgio fosse allenato male era quindi confermata dal match con l’Italia. Con i riflettori puntati addosso e stavolta, con un pizzico di fortuna nell’accoppiamento agli ottavi, la squadra di Wilmots giungeva ai quarti di finale contro il Galles e nemmeno il vantaggio iniziale segnato da Nainggolan evitava una clamorosa sconfitta per i Diavoli Rossi.
Avere a disposizione De Bruyne, Hazard, Ferreira Carrasco, Mertens, Lukaku, Witsel, Demebelè, Alderweireld e altri ancora può essere davvero una fortuna per un allenatore, ma può trasformarsi in una vera iattura, se il talento a disposizione evidenzia per contrasto l’incapacità di fornire un piano razionale per sfruttarlo in campo. In altro periodo Marc Wilmots sarebbe stato solamente uno dei tanti allenatori che passano inosservati di una nazionale di medio livello europeo. Sfortunatamente per lui, le enormi doti di questa generazione di calciatori belgi cristallizzeranno Marc Wilmots nell’emblema del fatto che in un gioco di strategia qual è il calcio, l’allenatore conta sempre qualcosa.
(FB)
- Simone Zaza
Come molte delle cose che ci hanno colpito quest’anno, quello che ha colpito Simone Zaza è tanto surreale, quanto stupido e alla fine piccolo: un calcio di rigore. Un evento così slegato dalle altre dinamiche di gioco – quelle che servirebbero a giudicare un calciatore – da aver ispirato anche una canzone.
È però difficile spiegare la parabola che ha portato Simone Zaza nella categoria dei flop senza cadere nella trappola retorica da cantautorato. Una parabola che ha toccato il suo punto più alto sempre nel 2016 quando il suo sinistro secco ha certificato il sorpasso della Juventus sul Napoli indirizzando la corsa scudetto e che è rimasta alta anche quando Zaza ha smesso di segnare (da quel giorno Zaza ha segnato solo un altro gol, al Carpi) tanto da poter alzare la voce con Allegri e guadagnarsi l’Europeo, fino a precipitare rovinosamente a causa della giustapposizione di una serie di eventi catastrofici quali l’entrata al centoventesimo minuto appositamente per tirare uno dei cinque rigori che dovevano permettere all’Italia di battere la Germania e il successivo errore; ma soprattutto che l’errore sia stato preceduto da una buffa rincorsa perfetta per i meme,
Eppure non possiamo pensare che sia tutto qui, che Zaza sia diventato un flop dopo uno sciagurato rigore, perché non è tutto qui. Zaza sta in questa categoria soprattutto perché ha scelto – o qualcuno ha scelto per lui – di passare dall’essere il quarto attaccante che entrava per mandare a fuoco gli ultimi quindici minuti di una partita di Serie A (cosa per cui sembra essere nato) ad essere una falsa speranza per una nave che sta affondando nella tempesta della Premier League.
Forse perché l’esplosività di Zaza è eccezionale in Italia ma non in Inghilterra, forse perché si è ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, forse perché Zaza ha dei limiti palesi, ma non l’umiltà per riconoscere questi limiti; forse per una somma di tutte queste cose, l’esperienza a Londra ha ridotto le quotazioni del giocatore ai minimi termini. Mentre noi festeggiamo il Santo Natale Simone Zaza è diventato uno di quei regali che nessuno vuole, una insalatiera parecchio grossa e brutta, da riciclare allo zio lontano che non vedi da tanto e che tanto somiglia a Prandelli. Nella speranza che lui sappia come usarla, perché è pur sempre un’insalatiera che può pressare chiunque.
(MDO)
- Frank de Boer
Ogni anno è “il peggior anno di sempre”. È un difetto di prospettiva che ci portiamo dietro da sempre, come hanno fatto notare sia il New Yorker che Newsweek, e che in questo 2016 sembra aver acquisito una risonanza ancora superiore. Sono tanti gli avvenimenti di quest’anno che in effetti sono stati un vero disastro, ma il più delle volte è un tic e non esiste nessun parametro oggettivo per stabilire che un anno è peggiore del precedente. Questo non vale per Frank de Boer, per cui questo 2016 è stato davvero un anno di merda.
Lo avrebbe dovuto capire quando è marzo si è rotto il tendine d’achille giocando a calcio-tennis, costringendolo ad allenare a bordo di un motorino.
Però fino a maggio le cose sembravano andare bene. De Boer aveva già deciso di lasciare i “lancieri” ma nel frattempo era vicinissimo a vincere il suo quinto campionato. All’ultima giornata bastava vincere contro il De Graafshaap. Ma l’Ajax è riuscito a pareggiare e a farsi scippare il titolo dal PSV. De Boer in conferenza stampa ha definito l’esperienza un incubo paragonabile alla sconfitta della sua Olanda nel 2000 contro l’Italia. Questo qui sotto è il momento in cui ci ripensa:
Il peggio, che doveva ancora venire, è arrivato sotto forma di Inter: incarico accettato a due settimane dalla fine del mercato con un esonero pendente sopra la testa praticamente dal primo allenamento. È stato un conto alla rovescia. L’ultima apparizione pubblica di Frank de Boer risale a pochi giorni fa: è il galà dello sport olandese. De Boer deve annunciare lo sportivo olandese dell’anno, ma apre la busta al contrario spoilerandone il contenuto fra le risate generali.
(EA)
- Sebastian Vettel e la Ferrari
La Ferrari era attesa come la grande antagonista della Mercedes per il 2016 e, dopo un’ottima stagione di rilancio nel 2015, Raikkonen e soprattutto Vettel sembravano poter contendere ad armi quasi pari il titolo alle Mercedes di Hamilton e Rosberg. Non è andata così per svariati motivi.
– Innanzitutto la grande rivoluzione di progetto rispetto alla vecchia vettura ha portato inizialmente un oggettivo incremento di prestazione (non sufficiente comunque per raggiungere le Mercedes) ma al contempo una serie di problemi di affidabilità. Dapprima al turbo, con una turbina troppo grande che costringeva a tagliare potenza a fine rettilineo per non andare in crisi con l’affidabilità, e successivamente al cambio, reso unanimemente il migliore a livello prestazionale (insieme alla frizione rendeva anche le partenze della Ferrari le migliori in assoluto, alla pari di quelle di Alonso) ma fragilissimo fino a fine stagione (Suzuka, quintultima gara).
– Il rimpianto per la mancata vittoria di Vettel in Australia all’esordio non ha giovato all’autostima dell’ambiente. Anche se forse una vittoria così precoce avrebbe potuto creare un effetto boomerang ancora maggiore.
– A questo si è aggiunto un grave lutto che ha colpito il capo-progettista James Allison (la morte della moglie) e forse una diminuzione del suo impegno anche per altri motivi: Allison è stato preso dalla Mercedes per il 2017 e questo alimenta maliziosi sospetti.
– Inoltre rispetto al 2015 la Ferrari non ha avuto più la possibilità di fare test aerodinamici illimitati sottobanco con il team Haas, che dopo il debutto in Formula 1 ha subìto le stesse restrizioni di tutti gli altri. Nonostante questo, la cacciata di James Allison a metà Mondiale ha oggettivamente giovato alle prestazioni della Ferrari che, soprattutto in gara, a fine stagione ha ripreso un buon passo dopo la crisi di metà stagione, soprattutto grazie a un nuovo diffusore più rotondo implementato dal Gran Premio del Belgio. Ma non è bastato per battere la Red Bull nel Mondiale Costruttori.
Tutta questa frustrazione nell’ambiente ha trascinato verso il basso la concentrazione e il rendimento di Vettel. Errori in duelli con Hamilton sia ravvicinati (Australia) che a distanza (Canada), collisioni causate in partenza (Belgio e Malesia, escludo la Cina dove ha meno colpe), testacoda su chiazze bagnate (Gran Bretagna e Brasile), errore nel giro buono in qualifica in Cina, grosso rischio corso nel finale a Montecarlo di finire contro le barriere. A questo si aggiunge un confronto diretto sempre più negativo in qualifica contro Raikkonen, quello che era il suo porto sicuro nel 2015. Un gran rendimento nel passo gara da metà gara in poi nel finale di Mondiale ha salvato parzialmente la sua difficile stagione.
(FP)
- José Mourinho
“Mourinho at war”: un titolo per riassumere il 2016 di José da Setubal. I sei mesi di gardening al quale è stato costretto dall’esonero subito al Chelsea non lo hanno aiutato a canalizzare la sua rabbia. Che invece è sembrata accumularsi settimana dopo settimana, fino a travolgere chiunque, incolpevole, si ponesse sulla sua strada: ne ha fatto le spese Schweinsteiger, pretoriano di van Gaal, isolato prima del ritiro pre-campionato; poi è stato il turno di Mkhitaryan, prima fortemente voluto, poi ripudiato, poi ancora riammesso nelle grazie del portoghese; il solito battibecco semestrale con Wenger; un numero ormai incalcolabile di giornalisti.
Mourinho è in difficoltà ed ogni sua mossa sembra solo ingrossare il gorgo che sta per inghiottirlo. Le sue ultime squadre sono state ensemble perfettibili (il suo Chelsea iniziò la sua parabola discendente già verso la fine della stagione 2014-15 che li vide vincitori della Premier League). I suoi mind games non fanno più presa sugli altri allenatori, anzi gli si rivolgono contro.
Le cause del declino di José possono essere molteplici e nelle indiscrezioni di stampa ognuno ha individuato un problema differente: alcuni suoi ex giocatori hanno denigrato la sua scarsa varietà nella tattica offensiva; qualcun’altro ha ipotizzato che Mou non abbia sui giocatori di questa generazione lo stesso potere persuasivo che aveva su quella precedente. Io ho supposto che la separazione da Villas Boas lo avesse indebolito, ma sono stato smentito dai numeri: la media punti in campionato delle squadre di Mourinho nel periodo antecedente e seguente al divorzio è esattamente la stessa.
Mou sta rimettendo faticosamente insieme i pezzi del Manchester United dell’era post-Ferguson. Ad inizio stagione ha sbagliato delle scelte, ne ha pagato le conseguenze, ma ha saputo tornare sui suoi passi. Ora gonfia il petto, augurando a sé stesso un periodo allo United più lungo dell’attuale contratto e invitando i diseredati a restare nonostante la sessione di mercato di gennaio. Un mercato che potrebbe regalargli ancora qualche altro pezzo prezioso da mettere nella sua prestigiosa vetrina, e permettergli di dare l’assalto ad un posto Champions. José Mourinho potrebbe essere all’ultima chiamata importante della sua carriera.
(AG)
- Italbasket
Almeno fino al 31 agosto, giorno dell’inizio di EuroBasket 2017, l’ItalBasket resta la Nazionale più incompiuta di sempre. Con una quantità di talento individuale che poche volte abbiamo visto tutto insieme, questo gruppo anche nel 2016 non è riuscito a compiere quello step – più o meno lungo, mentale prima ancora che tecnico – che l’ha separato dal raggiungimento dell’obiettivo. Se in Francia nel 2015 un supplementare contro la Lituania è stato fatale per l’accesso alle semifinali continentali, un supplementare contro la Croazia a Torino si è frapposto tra gli azzurri e il sogno olimpico di Rio Quando il confine tra vittoria e sconfitta è così labile non è semplice metabolizzare il ko, anche a distanza di giorni, di settimane, di mesi.
Era il 5 agosto e Messina non aveva digerito l’eliminazione, ovviamente.
Ma ora bisogna mettere tutto alle spalle. Anche perché Belinelli, Gallinari, Bargnani, Datome – insomma gli over-29 – alla fine della prossima estate avranno l’ultima chiamata per portare a casa una medaglia. La grande difficoltà sarà trasformare questa pressione in energia positiva. Sperando di avere davvero tutti al top della condizione.
(DR)
- Graziano Pellé
È discutibile la posizione di Pellé, perché ha giocato un ottimo Europeo diventando forse il giocatore più rappresentativo dell’Italia di Conte… e però con quel rigore e la scelta di andare in Cina (anche se a cifre molto probabilmente diverse da quelle pubblicate dai giornali è salito senza che neanche ce ne accorgessimo al primo posto nel ranking Nemici del Popolo Italiano. Lui peggio di Zaza, che si è reso ridicolo ma non ha incarnato il peggiore dei vizi, l’unica cosa che il pubblico italiano non è disposto a perdonare: la mancanza di umiltà.
La ciliegina sulla torta è stata il litigio con il nuovo c.t. Ventura dopo una sostituzione, e Ventura che quasi a furor di popolo non lo ha più chiamato in Nazionale. Pellé è passato nel giro di pochi mesi da: “Oh ma quanto fatica Pellé! E poi hai visto come pulisce ogni lancio della difesa? Fa reparto da solo!”; a: “Il solito mercenario, e poi è pure una pippa che si crede un fenomeno”. Da idolo a nemesi, da versione migliore delle qualità italiche – il lavoratore che fa gavetta e mattone dopo mattone si costruisce una vita – alla peggiore rappresentazione della nostra vanità, a tronista senza talento in cerca di facile fama. Perfetta aderenza, quindi, alla parabola flop, che si deve prima innalzare sopra le teste degli spettatori e poi improvvisamente piegarsi su stessa, scendere sempre più in basso fino a sparire dalla nostra vista.
(AG)
- L’Argentina
di Fabrizio Gabrielli
L’ultimo colpo di machete sul corpo già martoriato del fútbol argentino l’ha dato l’AFIP, l’Administración Federal de Ingresos Públicos, l’Agenzia delle Entrate per intenderci, che ha deciso di sporgere denuncia penale sull’AFA, la federcalcio albiceleste, per una presunta evasione di più di 84 milioni di pesos, una cifra attorno ai 4 milioni di euro.
È difficile capire quanto la crisi della federcalcio – che se nel momento in cui l’ho fotografata l’estate scorsa preannunciava già sintomi di irreversibilità, ora va somigliando ogni istante che passa sempre di più a un coma farmacologico – sia più causa o conseguenza dell’annus horribilis del calcio argentino.
Né il Boca né il River sono riuscite a raggiungere l’obiettivo minimo stagionale, minimo in termini di mantenimento dell’autorevolezza continentale, che sarebbe stata la finale di Libertadores, travolte dai propri limiti quanto dalla portata mitopoietica dell’Independiente del Valle. L’anno prossimo, in seguito all’esilio forzato delle squadre messicane dalla Libertadores, tre posti rimarranno vacanti: Armando Pérez, il presidente del Comitato Normalizzatore, ne ha chiesto almeno uno per l’Argentina. Difficilmente lo otterrà.
I migliori calciatori della Primera Division stanno già mollando le cime, tutti più o meno in fuga da questo corralito dell’anima: Lo Celso sbarcherà in Europa, Carlitos in Cina insieme a Oscar Romero, D’Alessandro chi lo sa. Il Chacho Coudet, l’allenatore più interessante del campionato, ha rassegnato le dimissioni dal Rosario Central.
Ma l’ecatombe argentina di quest’anno è soprattutto, e fondamentalmente, nell’esplosione in rivoli di delusione malmostosa della grande bolla di sapone delle aspettative per la Copa América Centenario, alla quale arrivava da protagonista conclamata e vincitrice annunciata, e che ha invece perso, malamente, ancora una volta, in finale.
Ed è nel mese in cui abbiamo seriamente rischiato, senza rassegnarci mai davvero, che un contesto così malato, e una sindrome da complesso di inferiorità, potesse condurre all’inconcepibile ritiro del più forte calciatore del mondo dai palcoscenici internazionali.
Poteva essere nella tragedia, fortunatamente solo sfiorata, di un volo maldestramente cheap (due settimane prima della Chapecoense su quello stesso velivolo della LiMia, a prezzi stracciati, era salita la Selección). Ma è anche nell’abbandono del Tata Martino, e nelle difficoltà quasi patologiche di risalire la china del girone qualificatorio per i prossimi Mondiali con Bauza.
Insomma, questo è stato davvero l’anno peggiore della storia del calcio argentino.
Almeno fino al prossimo.
- Il movimento sportivo russo
Il 2016 è stato probabilmente il peggior anno della storia per la Russia sportiva. Tutto è nato dal cosiddetto rapporto MacLaren, cioè i risultati dell’investigazione promossa dalla WADA (la World Anti-Doping Agency) che hanno di fatto provato un sistema di “doping di Stato” in Russia. L’investigazione, coordinata dall’avvocato canadese Richard McLaren sulla base delle prove fornite da Grigory Rodchenkov (ex direttore del laboratorio anti-doping di Mosca, oggi in esilio volontario negli Stati Uniti) ha avuto effetti devastanti sullo sport russo come: la squalifica di 111 atleti alle Olimpiadi di Rio (tra cui l’intera nazionale d’atletica), il coinvolgimento potenziale di oltre mille atleti totali, il rifiuto da parte del Comitato Olimpico Internazionale ad organizzare eventi in Russia nel prossimo futuro.
Uno scandalo talmente ampio che ha iniziato anche a confluire in diversi rivoli secondari come quelli che hanno colpito alcuni dei simboli sportivi della Russia putiniana, come Maria Sharapova e le Olimpiadi di Sochi, adesso sotto osservazione dal Comitato Olimpico Internazionale per decine di campioni di urina manomessi. Non è un caso che proprio oggi Putin, nella sua abituale conferenza stampa di fine anno, abbia deciso di ritagliare un grosso spazio alla questione dichiarando che “la Russia non ha mai avuto un problema col doping” e che Rodchenkov “ha forzato gli atleti a prendere quelle sostanze”.
Ma il disastro russo nel 2016 non si chiude con le investigazioni della WADA. Bisogna aggiungere, infatti, le grosse difficoltà a completare gli stadi necessari per i Mondiali del 2018, la brutta figura rimediata dalla Russia sia dentro che fuori dal campo all’Europeo ed infine la sconfitta del campione russo Sergei Karjakin (uno degli atleti in assoluto più vicino a Putin) da parte di Magnus Carlsen nella finale dei mondiali di scacchi. Una disfatta su tutti i fronti.
(DS)