Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Chi è davvero Nicolò Barella
18 feb 2019
18 feb 2019
Il centrocampista del Cagliari è cercato da mezza Europa ma deve ancora crescere molto.
(articolo)
10 min
Dark mode
(ON)

Nicolò Barella ha da poco compiuto 22 anni ed è solo alla sua terza stagione in Serie A, ma è già riconosciuto praticamente all’unanimità come la next big thing del calcio italiano e il fatto che non giochi già in una “grande” è una cosa che lascia perplesse molte persone. A fine dicembre, Tuttomercatoweb ha tradotto questa frustrazione diffusa in un editoriale intitolato: “Qualcuno dia una big a Nicolò Barella”; e non è un caso che il suo nome sia quello che è più circolato tra i rumor della sessione di gennaio.

Napoli, Inter e Chelsea sono sembrate a turno vicinissime ad acquistarlo già a gennaio, ma alla fine il giovane centrocampista sardo è rimasto a Cagliari e ci rimarrà almeno fino a quest’estate, con buona pace dei tifosi e degli osservatori che pensano sia uno spreco lasciarlo in una squadra che lotta per non retrocedere.

Le voci insistenti di un trasferimento che lo hanno accompagnato negli ultimi sei mesi, unite al recente esordio in Nazionale maggiore, hanno fatto di Barella un pesce grosso in uno stagno relativamente piccolo. Il Cagliari tiene molto alla sua identità sarda, che nel campo si riflette con una Primavera molto attenta ai talenti locali: in questo senso il giovane centrocampista – nato a Cagliari e tifoso della squadra sarda - si inserisce in una tradizione che per i tifosi è facilmente riconoscibile.

Lui stesso, in una recente intervista a Sportweek, ha sottolineato l’importanza del fattore identitario: «Vivere e crescere in Sardegna vuol dire sentirsi parte di un popolo. Avverto la responsabilità quando scendo in campo per i colori del Cagliari, ma per me è un orgoglio. Come se mi sentissi spinto da un’intera comunità e dalla sua passione».

O ancora: «Ringrazio per la mia carriera Gianfranco Matteoli che mi ha portato al Cagliari, Gianfranco Zola che mi ha fatto esordire con la prima squadra, Gianluca Festa con cui ho debuttato in Serie A. Insomma: la mia è una storia di sardi».

È naturale che i tifosi del Cagliari ripongano gran parte delle proprie aspirazioni su Barella, che d’altra parte non è solo un simbolo del club sardo ma anche il talento più brillante della rosa allenata da Rolando Maran. Per questo sembra plausibile che il giovane centrocampista si senta investito anche in campo di responsabilità maggiori rispetto all’anno scorso, quando era ancora considerato solo una giovane promessa.

Come i problemi del Cagliari influiscono su Barella

Ma non è solo una questione psicologica, è lo stesso contesto tattico in cui sta avvenendo la sua crescita quest’anno che sembra chiedere a Barella di essere più influente, più decisivo per il gioco del Cagliari. Quest’estate la squadra sarda si è affidata in maniera molto decisa a Rolando Maran, un allenatore che a Verona è sembrato avere il talento di trasformare una squadra cronicamente in lotta per non retrocedere in una piccola rappresentante della classe media. La scommessa del club di Giulini, però, sta pagando forse meno di quanto ci si aspettasse.

Maran viene spesso scambiato per un allenatore speculativo e difensivista, ma il suo gioco richiede ai calciatori non solo una grande applicazione tattica ma anche una sensibilità tecnica non banale. Al Chievo, l’allenatore trentino aveva sperimentato con successo un calcio basato soprattutto su transizioni lunghe, che cercava di sorprendere gli avversari nei momenti di loro maggiore disorganizzazione, passando per i corridoi centrali, attraverso un utilizzo sistematico di veli, verticalizzazioni e uno-due corti. Un gioco che per funzionare ha bisogno di una grande pulizia tecnica in spazi stretti e in velocità, soprattutto a centrocampo.

Già quest’estate sembrava evidente che il Cagliari non avesse la stessa qualità del Chievo in mezzo al campo e va letta in questo senso la decisione di Maran da una parte di alzare il baricentro della squadra, puntando sul pressing alto come ulteriore fonte di gioco; e dall’altra di portare in Sardegna uno degli uomini chiave del suo centrocampo a Verona, e cioè Lucas Castro, per iniettare un po’ di creatività in un centrocampo che rischiava di essere troppo arido.

Nonostante ciò, il Cagliari ha avuto fin da subito gravi problemi di produzione offensiva: la squadra di Maran ha segnato 9 gol nelle prime 10 partite, prima che le cose peggiorassero ulteriormente con il grave infortunio al ginocchio di Castro che ha tolto alla squadra rossoblù l’unica oasi creativa del proprio gioco. Oggi il Cagliari è addirittura quintultimo per gol segnati (davanti a Frosinone, Bologna, Udinese e Chievo), penultimo Expected Goals (meglio solo del Frosinone) e terzultimo per numero di tiri (in questo caso, sono Frosinone e Parma a fare peggio).

Le speranze offensive di Maran si sono ridotte ai colpi di testa di Pavoletti: non a caso il Cagliari è una delle squadre che crossa di più in Serie A (21,6 a partita; sesta in questa classifica) e una di quelle con la più alta incidenza di colpi di testa sul totale dei tiri (ben il 25%).

A gennaio, il Cagliari ha provato a correre ai ripari portando in Sardegna un altro cardine del vecchio Chievo di Maran, Valter Birsa, e negli ultimi giorni di mercato anche Fabrizio Cacciatore lo ha seguito.

Così, nella desertificazione dell’attacco del Cagliari, Nicolò Barella è stato investito di responsabilità offensive e creative sempre più grandi, che ne hanno in qualche modo accentuato sia i suoi pregi che i difetti. Non sappiamo se sia stato una specifica scelta di Maran, che in un paio di occasioni lo ha addirittura schierato dietro le punte da trequartista puro, o se sia stato lui stesso a sentirsi investito di questa missione, per via delle responsabilità simboliche di cui parlavo all’inizio, e non è nemmeno detto che una cosa escluda necessariamente l’altra. In ogni caso, Barella ha aumentato di molto il suo volume gioco, ma senza lavorare veramente sui suoi limiti e i suoi difetti, di conseguenza estendendoli come un disegno su un palloncino che si gonfia (e con questa immagine non voglio alludere al modo di dire del "pallone gonfiato", perché a Barella si può dire tutto tranne che caratterialmente non sia disponibile e umile).

Certo, il gioco dinamico di progressioni e transizioni di Maran ha cavalcato anche alcuni punti di forza del gioco di Barella, a partire da quell’incredibile mix di equilibrio in spazi stretti ed esplosività sui primi passi che lo rende un centrocampista quasi unico nel panorama calcistico italiano. Il suo talento è entusiasmante soprattutto nelle situazioni di maggiore entropia, in cui Barella riesce ad uscire in verticale palla al piede, situazioni in cui la sua progressione assomiglia davvero ad una “una bottiglia di champagne appena stappata”, come ha detto il suo CT nell’Under 18, Francesco Rocca.

A volte sembra quasi che Barella giochi meglio al restringersi degli spazi e al contrarsi dei tempi per effettuare la giocata, con una coordinazione cervello-corpo che sembra davvero quella del fuoriclasse.

Il fatto che sia diventato il centro di influenza principale del gioco del Cagliari ha però reso ancora più evidente la sua natura di giocatore intimamente istintivo, che tende a sbagliare di più all’aumentare del tempo a disposizione per pensare.

Rispetto all’anno scorso, Barella ha aumentato il numero di passaggi effettuati (da 45,2 a 51,3 per 90 minuti), ma allo stesso tempo è diventato anche il primo centrocampista in Serie A per tocchi sbagliati (3,1 per 90 minuti) e palle perse (2 per 90 minuti), due statistiche in cui è di molto peggiorato rispetto alla scorsa stagione (in cui si attestavano rispettivamente a 1,9 e 1,3 ogni 90 minuti).

E tutto questo senza diventare effettivamente più creativo, dato che il numero di passaggi chiave è rimasto sostanzialmente stabile (passando da 1,1 a 1 per 90 minuti).

Anche in questa intervista rilasciata al canale ufficiale della Serie A, Barella parla molto del suo istinto, anche se in relazione al recupero del pallone.

L’imprecisione di Barella sembra dettata in primo luogo da un’ambizione smisurata, e probabilmente da un grande senso di responsabilità nei confronti delle fortune del Cagliari; ma così facendo finisce per disperdere l’apporto che può dare il suo talento alla squadra. Uno spreco ancora maggiore se pensiamo che non stiamo parlando di un calciatore senza visione di gioco, o sensibilità tecnica per realizzare passaggi complessi. Il paradosso, però, è che quando Barella rallenta e sembra ragionare di più, finisce o per scegliere soluzioni troppo difficili - e spesso sbagliate - o per commettere errori anche banali.

Il Cagliari gli chiede sempre di più di risolvere le cose, e Barella, provandoci, continua a rendere sempre più marcati i suoi limiti - sempre tenendo presente che il suo talento è tale che a volte qualcosa di eccezionale gli riesce, il punto è che non sembra essere questo lo stile più adatto alle sue caratteristiche.

L’aspetto in cui la tendenza di Barella a cercare la giocata decisiva ma fuori portata è più evidente è il tiro da fuori, forse proprio perché è il modo più veloce attraverso cui una mezzala può influire sulle fortune della propria squadra. Barella ha una grande tecnica di calcio, soprattutto quando riesce a colpire il pallone con il collo destro pieno - utilizzando la gamba come una mazza da baseball - e spesso gli piace provare il tiro da fuori area al volo, con soluzioni talvolta davvero eccessivamente complesse.

Quest’anno Barella sta provando queste soluzioni molto più spesso rispetto alla scorsa stagione: tira di più (1,5 volte ogni 90 minuti; l’anno scorso arrivava a 1 tiro in media), e soprattutto da fuori area (1,2 per 90 minuti), ma allo stesso tempo ha anche raddoppiato il numero di tiri fuori dallo specchio (passati da 0,4 a 0,8 per 90 minuti). L’ostinazione con cui cerca il gol si scontra non solo con la sfortuna di essere uno dei giocatori ad aver preso più pali in Serie A (3), ma anche con una realtà che lo vede ad una sola rete stagionale (una punizione deviata contro l’Atalanta). L’anno scorso Barella ha chiuso il campionato con 6 reti segnate.

Uno dei pali più clamorosi presi da Barella quest’anno, con un tiro al volo dalla trequarti dopo essersi alzato il pallone con il petto.

Quale futuro

Al di là delle voci di mercato, sarebbe veder giocare Barella in una squadra che non si aggrappi così disperatamente al suo talento. Un'idea possiamo in questo senso possiamo già farcela nelle sue partite con la Nazionale di Mancini, una squadra basata sul possesso che, almeno nelle intenzioni, cerca di risalire il campo con passaggi corti e in cui il margine di errore è per forza di cose ridotto al minimo.

Da quando ha esordito - lo scorso ottobre contro l’Ucraina, in amichevole - Barella è stato schierato da titolare in tutte e tre le partite successive, di cui due valide per la Nations League (contro Polonia e Portogallo).

Per adesso con la maglia azzurra abbiamo visto un giocatore più essenziale, ma forse meno spettacolare, impegnato soprattutto a consolidare il possesso con passaggi corti invece di portare il pallone in verticale come un rugbista, o tentare filtranti lunghi direttamente dal centrocampo. Abbiamo visto meno progressioni impetuose e anche meno tiri ambiziosi, nonostante anche Roberto Mancini gli abbia chiesto «qualche gol in più».

Insomma, abbiamo visto una versione ridotta di Barella: più pulita e prudente, ma anche meno dirompente ed esplosiva. Invece di una bottiglia di champagne appena stappata, abbiamo visto lo champagne versato in un calice, senza nemmeno una goccia fuori.

Oggi Barella si trova davanti una sfida difficile, che riguarda ovviamente anche Maran e Mancini, cioè quella di trovare un modo per superare i suoi limiti, ma senza dover sacrificare per forza le sue peculiarità. Un giocatore con la qualità e la coordinazione di Barella in spazi stretti non può che essere un patrimonio, come si dice, al di là dell’architettura tattica in cui è inserito, e in questo senso la voglia di vederlo in una grande squadra va oltre il semplice gossip di mercato. Alla fine, se è vero che gli allenatori diventano grandi grazie ai propri giocatori e ai loro talenti eccezionali, è vero anche e soprattutto il contrario.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura