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Carlo Maria Miele
Che succede al calcio ucraino
14 mag 2015
14 mag 2015
I conflitti in Ucraina stanno cambiando scenari e gerarchie di potere del calcio nazionale.
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Carlo Maria Miele
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La qualificazione alla finale di Europa League, il Napoli non la giocherà a Dnipropetrovsk, sede ufficiale del Dnipro, ma 400 chilometri più a nord, a Kiev. E non per una squalifica: semplicemente il Dnipro fa parte del folto gruppo di club ucraini “sfollati” dalla guerra, costretti ad abbandonare la propria città e il proprio stadio e a cercare ospitalità nelle più tranquille regioni dell’ovest.

 

In fondo quella del Dnipro è anche una delle situazioni migliori, visto che gioca in esilio solo le gare internazionali. È andata decisamente peggio ai tre club di Donetsk, lo Shakhtar, il Metalurg e l’Olimpik, che da oltre un anno giocano in trasferta anche le gare di campionato. Lo Shakhtar scende in campo a Kiev per le gare interne, mentre per quelle di Champions è stato ospitato a Lviv, a oltre 1200 chilometri di distanza. L’Illichivets di Mariupol, che pure sconta il fatto di trovarsi vicino al fronte, gioca al Meteor di Dnipropetrovsk. Stessa sorte toccata allo Zorya Luhansk, che si è visto costretto ad abbandonare l’Avanhard Stadium, pesantemente danneggiato dai colpi di mortaio, e oggi viene ospitato alternativamente alla Slavutych Arena di Zaporozhye o al Valeriy Lobanovskyi Stadium di Kiev. Solo da poche settimane all’elenco si è aggiunto il Chernomorets Odessa, sfrattato dal proprio stadio sul Mar Nero e dirottato sempre in una struttura della capitale, 450 chilometri più a nord.

 



L’instabilità va avanti da quasi due anni. Nel novembre del 2013 la decisione del presidente filorusso Viktor Yanukovich di sospendere il Dcfta, l’accordo di associazione e libero scambio tra Ucraina e Unione europea, ha dato il via al periodo di contestazioni noto col nome di Euromaidan, che hanno portato alla rimozione dello stesso Yanukovich, alla successiva crisi di Crimea e all’inizio del conflitto nelle regioni orientali del paese, tra separatisti filorussi e truppe di Kiev.

 



 

Da quel momento si è creata una linea di demarcazione ideale lungo il fiume Dnepr, che separa le regioni orientali colpite dal conflitto, dove sono sorte anche le due autoproclamatosi Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk, da quelle occidentali dove tuttora regna la pace. In un tale contesto il solo fatto che il campionato non si sia mai fermato rappresenta una sorta di miracolo. La crisi ha causato solo il rinvio della ripresa della stagione 2013/14, dopo la pausa invernale, posticipata di due settimane ma portata a termine regolarmente.

 

Più difficile è stato avviare il nuovo campionato, quello in corso, vista la defezione delle squadre della Crimea, tra cui il Tavriya Simferopol, vincitore nel 1992 della prima edizione della

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), inglobate dalla Federcalcio di Mosca (

, RFS) e iscritte alla terza divisione russa. La decisione è stata contestata dall’Ucraina, e non ha avuto il riconoscimento della Uefa. L’impasse si è risolto quando tutti i club hanno accettato la proposta dello Shakhtar di mettere da parte i club della Crimea e ridurre la lega nazionale a 14 squadre.

 

Oggi, dopo 23 giornate, in testa alla UPL ci sono le tre attuali potenze del calcio ucraino: Dinamo Kiev, Shakhtar Donetsk e Dnipro. Non tutto però fila regolarmente. Nei giorni scorsi l’allenatore dello Shakhtar, Mircea Lucescu, ha denunciato l’irregolarità del campionato in corso, affermando che «i club delle regioni settentrionali e centrali dell’Ucraina stanno avendo un grosso vantaggio rispetto a quelle dell’Est» e che «non vi è parità di condizioni». È probabile che la “disparità” a cui si riferisce Lucescu non dipenda unicamente dall’esilio coatto imposto al suo e a un’altra manciata di club, quanto anche allo spostamento delle leve del potere calcistico, che sta andando nella stessa direzione: da est a ovest.

 



Al momento in Ucraina a contendersi il potere del calcio ci sono due cordate. La prima è nota come “clan del Donbass” e fa capo al proprietario dello Shakhtar: Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco dell’Ucraina, con un patrimonio stimato di 6,5 miliardi di dollari.

 

La seconda è quella del “clan di Dnipropetrovsk” (anche noto come “Mafia ebraica”), le cui figure di riferimento sono il patron del Dnipro ed ex governatore di Dnipropetrovsk, Ihor Kolomoyskyi, e i fratelli Ihor e Hryhoriy Surkis, proprietari della Dinamo Kiev. Il confronto tra i due gruppi si gioca sul campo da calcio, ma anche nel mercato televisivo, in quello della finanza e, naturalmente, in politica.

 



 

Prima dell’inizio della crisi ucraina il timone della Federcalcio di Kiev (FFU) era rimasto saldamente nelle mani degli uomini di Akhmetov, con la presidenza di Anatoliy Konkov. A gennaio Konkov è stato rimosso (pagando in particolar modo il fatto di non essere riuscito a ottenere sanzioni contro i club della Crimea che avevano scelto di aderire al campionato russo), e rimpiazzato pro tempore da Andriy Pavelko, la cui carica è stata poi formalizzata con le elezioni di marzo.

 

Il 39enne neo presidente della FFU viene da Dnipropetrovsk, come i suoi sponsor politici, e rispetto al suo predecessore ha anche il merito di far parte del Blocco Poroshenko, il partito uscito vincitore dalle ultime elezioni del novembre scorso e attualmente al governo.

 



Dal punto di vista sportivo le gerarchie in Ucraina sono state sempre molto chiare. Prima del crollo dell’Unione Sovietica e poi fino a una decina di anni fa esisteva solo la Dinamo, circondata da una massa di club buoni solo a fare da comparse. Allora la Dinamo era una vera e propria succursale della Nazionale, una fucina di talenti fatti in casa e lo stesso apparato sportivo era organizzato in modo tale da far arrivare nel club in maglia bianca tutti i calciatori migliori del paese.

 

Come racconta l’ex calciatore e allenatore della Dinamo Josef Szabo in

, «a quel tempo c’era una sorta di piramide con la Dinamo in cima. Il patron del club era (il segretario del partito,

) Volodymyr Scherbytskyi. Era un grande appassionato di calcio e se c’era un grande giocatore allo Shakhtar o al Dnipro o in qualche altro club ucraino, faceva una telefonata e il giocatore arrivava a Kiev—senza nemmeno bisogno di soldi o cose del genere».

 

Quel sistema, specchio fedele dell’assetto monopartitico, è andato avanti per un po’ anche dopo la caduta dell’Unione sovietica. Alla Dinamo sono andate nove delle primi dieci edizioni della UPL, mentre al 1999 risale l’ultima generazione di fenomeni fatti in casa: quella di Andriy Shevchenko, Serhiy Rebrov, Oleh Luzhny e Vladyslav Vashchuk, che guidati dal colonnello Valeriy Lobanovskyi arrivarono fino alla semifinale di Champions League, sconfitti solo dal Bayern Monaco.

 



 

Di lì a poco le cose sarebbero cambiate. Shevchenko e gli altri pezzi pregiati furono venduti all’estero, mentre Lobanovskyi morì nel 2002 a causa di un ictus. Il dominio della Dinamo viene spazzato via dallo Shakhtar, simbolo dello strapotere dei nuovi oligarchi e in particolare del suo proprietario Rinat Akhmetov. È stato lui a creare lo Shakhtar quasi dal nulla. Mettendo in piedi un centro sportivo all’avanguardia, un nuovo stadio da 400 milioni di dollari e una serie di attrattive di lusso in grado di convincere un calciatore ad abbandonare i campionati che contano per trasferirsi in una remota regione mineraria dell’ex Unione Sovietica. A lui si deve anche il rinnovamento dell’immagine del club e la trasformazione da squadra del Donbass a riferimento per tutta l’Ucraina, simboleggiata dall’introduzione del nuovo logo in cui lo spelling russo del nome è stato rimpiazzato da quello ucraino.

 

Scorrendo l’albo d’oro del calcio ucraino è facile stabilire una vero e proprio momento di frattura, in cui si compie il sorpasso dello Shakhtar ai danni della Dinamo: dal 2002 a oggi la squadra di Kiev vince “solo” quattro delle ultime 13 edizioni della UPL. Le altre nove, compresa l’ultima, vanno proprio al club di Donetsk. Il passaggio di consegne, quasi formale, avviene il 7 maggio 2009: è in quella data che lo Shakhtar batte ed elimina la Dinamo nella semifinale tutta ucraina di Europa League, andando poi a vincere la coppa a Istanbul, contro il Werder Brema, 23 anni dopo l’ultimo successo internazionale ucraino. Sempre allo Shakhtar vanno tutte e cinque le successive edizioni della UPL, a dimostrazione di un dominio incontrastato.

 



In questa guerra a due ha provato a inserirsi il Dnipro di Kolomoyskyi, che però fino a oggi non è riuscito ad andare oltre al ruolo di disturbatore, raggiungendo al massimo il secondo posto, nel 1993 e lo scorso anno. Più facile è che il monopolio dello Shakhtar risenta del cambio di potere in atto. La crisi di due anni fa ha in parte spiazzato Akhmetov, che come parlamentare del Partito delle regioni di Yanukovich ha avuto difficoltà a smarcarsi dall’immagine di uomo del vecchio regime, e dopo lo scoppio del conflitto nelle regioni orientali è stato accusato di finanziare i separatisti filorussi. In risposta Akhmetov ha espresso pubblicamente il proprio sostegno per l’unità dell’Ucraina e ha condannato il “genocidio del Donbass”.

 

Anche la scelta di giocare a Lviv le gare internazionali non risponde solo a una esigenza pratica (la splendida Donbass Arena è stata colpita dai bombardamenti ed è inutilizzabile) ma anche a una politica, visto che Lviv è unanimemente considerate la “capitale” del nazionalismo ucraino.

 



 

Ma in questa fase di transizione l’Ucraina ha anche molto da perdere, pure sul piano calcistico. Già prima di Euromaidan la federazione aveva difficoltà a mettere assieme le 16 squadre per la massima serie, in regola dal punto di vista finanziario e delle infrastrutture, ma ancora di più oggi i club nazionali dipendono dalle fortune dell’oligarca o del clan di riferimento. Un esempio di quello che può accadere si è avuto all’inizio dello scorso campionato, quando il proprietario del Dnipro Kolomoyskyi, che nel frattempo aveva creato una rete di club medio-piccoli, ha deciso di disinvestire. A farne le spese è stato, tra gli altri, l’Arsenal di Kiev. Pur non avendo una storia nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei cugini della Dinamo, il fallimento della seconda squadra della capitale ha rappresentato un duro colpo per la credibilità del campionato, portato a termine con sole 15 squadre.

 

Nel frattempo è diventato sempre più difficile attrarre giocatori o trattenere quelli già sotto contratto. Lo scorso autunno sei giocatori dello Shakhtar (Douglas Costa, Fred, Dentinho, Alex Teixeira, Ismaily e Facundo Ferreyra) si erano rifiutati di tornare in Ucraina e hanno cambiato idea solo in seguito alle pressioni della proprietà, che aveva minacciato il ricorso a vie legali. Altri club non hanno la stessa capacità dissuasiva: il Chernomorets Odessa ha dovuto rescindere sei contratti, così come il Metalist di Kharkiv, che ha svenduto pezzi pregiati della sua rosa, come Sebastián Blanco e Jonathan Cristaldo.

 

E a fuggire, inevitabilmente, sono anche gli spettatori, visto che molte partite si giocano a centinaia di chilometri dalla città di riferimento. Il record negativo si è raggiunto quest’anno nella partita tra Fk Illichivets e Volyn Lutsk, giocata a Dnipropetrovsk: 45 spettatori.

 
 

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