Dopo i primi sessanta secondi, un minuto di studio - se così si può chiamare l’istintiva attenzione con cui potremmo avvicinare una mano al fuoco prima di infilarcela dentro per sentire quanto è caldo - l’incontro è iniziato davvero. Hanno aspettato i primi calci a vuoto, i primi ganci lasciati partire troppo da lontano, poi però hanno messo le teste, ognuno la propria testa, e i toraci, le costole, le gambe e ogni centimetro di pelle esposta pronta a gonfiarsi, tumefarsi, lacerarsi, a disposizione della violenza dell’altro. Justin Gaethje ha messo pressione a Michael Chandler, il primo fermo sulle gambe piantate nel tappeto elastico, il secondo saltellante, avanti e indietro, ma sempre un pezzettino più indietro che avanti, fino a trovarsi con le spalle alla rete. Allora Chandler non ha più avuto scelta, insieme a Gaethje hanno dato ai ventimila del Madison Square Garden, e ai milioni connessi in diretta, quello che si aspettavano. Chandler raggiunge Gaethje con un gancio destro, facendolo indietreggiare verso il centro dell’ottagono, e i due iniziano a scambiare da una distanza non più sicura. Quattro minuti dopo Chandler avrebbe raggiunto il proprio angolo sputando il sangue che gli usciva dalla bocca, con un taglio sul sopracciglio sinistro in cui si sarebbe potuta infilare una moneta; Gaethje strizzando gli occhi, boccheggiando come se avesse combattuto sott’acqua la prima ripresa, con la tibia già viola e la sua pelle diafana che si era arrossata persino sulla schiena.
«Michael senti», dice l’allenatore di Chandler tra primo e secondo round, dopo avergli chiesto di non sfidare Gaethje andandogli incontro con le braccia basse, «lo so che vuoi dimostrare di essere un duro. Ma non è questo il punto». E invece, il punto, era esattamentequello. O meglio: il punto è, sempre, anche quello, per gente come Michael Chandler e Justin Gaethje. Il loro incontro, senza nessun titolo in palio, aveva generato un’aspettativa pari se non superiore ai due match principali della serata - in cui due campioni difendevano la propria cintura. Era importante per la loro carriera, venivano entrambi da sconfitte e in una categoria di peso competitiva come quella dei Leggeri non è semplice rimanere rilevanti. Ma bisogna anche essere spettacolari, dare voglia al pubblico di guardare i tuoi incontri. Il sangue non basta. Col cazzo che Chandler ha alzato le braccia davanti a Gaethje. E col cazzo che Gaethje ha smesso di provare a colpirlo - lui più alto, ma con le braccia più corte, con un moto leggermente discensionale - con una veemenza tale che un paio di volte ha quasi perso l’equilibrio rischiando di finire faccia in avanti.
Questo è uno sport con solo due velocità: una troppo veloce, in cui si fatica a dare un nome alle cose - parafrasando Gertrude Stein, a un livello così profondo del combattimento un colpo è un colpo è un colpo, lo senti anche senza definirlo tecnicamente- e una rallentata, quella dei replay in cui l’elasticità dei corpi, la resistenza dei tessuti e delle forme che riconosciamo come umane, è messa a dura prova. Uomini come Michael Chandler e Justin Gaethje conoscono solo queste due modalità di essere, quella in cui provano a strapparsi frammenti di pelle l’un l’altro, lasciando una scia di particelle dietro ogni loro cazzotto, e quella in cui tutto si ferma, il pensiero rallenta fino quasi a interrompersi, in cui la sola che esiste è il respiro successivo, l’ossigeno da mandare nel sangue, e il sangue nei muscoli e nel cervello. È uno sport selvaggio, d’accordo, ma il coraggio, la forza, il rifiuto di prendere la strada più semplice, di rivelare la propria natura - la nostra natura - fragile, nobilitano ogni scambio. Nel combattimento le loro forze sembrano unite, stanno distruggendosi e al tempo stesso creando qualcosa di nuovo, sembra persino stiano collaborando per far durare la loro danza il più a lungo possibile.
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A metà della prima ripresa Chandler ha raggiunto Gaethje sulla mascella. Una spolverata energica sull’angolo di quella pietra che Gaethje ha al posto della testa, abbastanza da trasformare le sue gambe in gelatina per un attimo, in spaghetti scotti, nelle corde di una chitarra appena pizzicata - due giudici su tre hanno dato il primo round a Chandler - ma Gaethje si è tenuto in piedi, ha cercato il clinch, le loro braccia si sono intrecciate come due fili di canapa della stessa corda, le teste così vicine che sembravano confidarsi segreti all’orecchio. Poi si è staccato, si è separato dalla testa di Chandler allontanandola con il gomito. A metà della seconda ripresa, invece, dove l’incontro è cambiato (tutti e tre i giudici hanno dato gli ultimi due round a Gaethje) Chandler è stato raggiunto da un montante al mento: la testa all’indietro, lo sguardo perso nel vuoto per un attimo, apparentemente alla ricerca di quello di Gaethje, prima di cadere al tappeto e venire nuovamente aggredito. Ma anche Chandler ha resistito, aggrappandosi alle gambe del suo aggressore, proteggendo la sua testa infilandola tra le gambe che aveva davanti, un rifugio come un altro, aspettando di riprendere coscienza.
Un attimo non vale l’altro all’interno dell’ottagono, viene da pensare alla «microeternità» con cui Jacques Prevert chiamava il momento del bacio tra due amanti, capace di dilatare il tempo. Questo è uno sport di pieni e di vuoti, di spigoli taglienti e buchi profondissimi, da cui pochissimi sanno uscire dopo esserci sprofondati. Chandler e Gaethje ci si sono immersi, ci hanno nuotato in quegli spazi vuoti, e a un certo punto hanno visto cosa c’è dopo. Chandler è andato oltre il dolore, nell’ultima ripresa con il volto insanguinato e un sorriso inquietante avanzava verso Gaethje assorbendo, mangiando, quello che Gaethje aveva da dargli, muovendo le dita per invitarlo a colpire anziché provare a colpirlo a sua volta, cercando il punto del limite del proprio mento, anche se più che il mento era il collo che doveva restare dritto a fatica. Anche Gaethje ha mangiato, assorbito, accompagnando i colpi di Chandler per togliergli un po’ di forza, assecondando l’andamento ondivago dell’incontro. Chandler era la tempesta e a un certo punto del terzo round ha anche rovesciato la barchetta di Gaethje, sollevandolo e schiacciandolo con tutto il suo peso sulla schiena, esagerando però e perdendo la posizione, finendogli sotto, con Gaethje alle spalle.
Lo so, non è stato l’incontro più tecnico dell’anno, ma è stato uno dei più divertenti che abbia mai visto. Capace di esaltare altri fighter professionisti, ricordargli forse perché, alla base, hanno scelto questo lavoro. Non per vincere, anche perché non si può vincere sempre, lo sanno bene. Ma per resistere. Per restare in contatto con la propria libertà di movimento e di pensiero in mezzo al caos, ai colpi della mitragliatrice umana che ti trovi davanti. «Combattere per lavoro è una metafora della vita e io sto dipingendo un capolavoro ogni volta che metto piede nella gabbia», ha detto una volta Chandler. «Mi piace mettere gli avversari in situazioni in cui non si sono mai trovati. Controllo le loro menti, controllo i loro cuori, controllo le loro anime»,ha detto invece Gaethje. Non sono uomini dalla retorica raffinata, spesso si esprimono in modo enfatico, drammatico. Due americani modello, due wrestler di ottimo livello al college, uno cresciuto in Arizona (Gaethje), con due nonni minatori, il padre minatore, il fratello gemello minatore e lui stesso, anche se solo per pochi mesi, minatore; l’altro in Missouri, con un padre che lo portava a pescare quando ancora portava i pannolini, con un’etica del lavoro inflessibile, ovviamente cattolico, con un figlio adottato per scelta della moglie, maturata quando ha lavorato a contatto con bambini orfani.
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Gaethje a due anni ha inseguito un cane che lo aveva morso, provando a morderlo a sua volta - e riuscendoci, secondo i racconti, per quanto inverosimile - da adolescente portava un tappeto elastico sotto al tetto di casa sua per lanciarsi da lì e fare una capriola all’indietro, la stessa che usa per festeggiare le sue vittorie nell’ottagono. «Penso che ognuno di noi abbia qualche abilità particolare», ha detto, «ed è difficile capire quale sia se non hai l’opportunità di affrontare le tue paure. È quello che sto facendo io, e voglio passare il messaggio che anche loro possono farlo». Non esattamente un pensiero banale, simile a un altro espresso proprio di Chandler: «Siamo a questo mondo per fare cose stupefacenti e riversare il nostro cuore nelle nostre passioni». Non esattamente discorsi da bruti, da cani rabbiosi a cui strizzare i testicoli prima di lanciarli nell’arena.
Questi sono gli uomini che combattono per dimostrare di essere il più violento tra i professionisti della violenza sotto contratto con l’UFC. «Sono un performer», ha detto Gaethje prima dell'incontro, e dopo: «Viviamo nell'epoca sbagliata, io e lui avremmo dovuto combattere fino alla morte nel Colosseo». «Voglio solo essere chiuso in gabbia e avere grandi match» ha detto Chandler, «Che benedizione avere due braccia capaci, due gambe valide ed essere in grado di uscire lì fuori ed esibirsi davanti a milioni di persone». Ma a differenza di qualsiasi altro sport, nelle MMA le debolezze sono visibili, esposte, portate alla luce, brillano nella carne viva dei tagli. Non c'è dicotomia, la fragilità e la durezza dell'essere umano sono sempre entrambe presenti. Alla fine l’incontro lo ha vinto Gaethje, ma non è riuscito a controllare l’anima di Chandler, che ha finito provando calci in girata che servivano solo a farsi vedere ancora pimpante, in forma nonostante tutto, anche se incontri di questo tipo ti tolgono anni di vita, tra le ovazioni del pubblico che per quindici minuti ha sottolineato con stupore ogni colpo, risucchiando nei propri “ohhhhh” l’eco dello schiocco dei loro colpi. Gaethje è amato per il suo stile aggressivo fino all'autolesionismo, anche se ultimamente ha imparato a controllarsi resta un brawler, uno che ama la rissa, e neanche i fighter che lo hanno battuto in passato sfruttando i suoi sbilanciamenti lo hanno fatto mostrando il coraggio di Chandler, accettando come ha fatto Chandler di scendere così in profondità nelle acque torbide del combattimento.
Quando nel 1921 il campione dei massimi Jack Dempsey e il campione dei massimi leggeri Georges Carpentier si sono affrontati, l’incontro di boxe che ne è venuto fuori ha raggiunto vette così alte che per Heywood Broum, sul The New York World, si era trattata della performance «più tragica» nella vita delle diciannove mila persone presenti: «Non accetteremmo un biglietto per vedere Davide contro Golia in cambio di questo». Qui non c’è stata tragedia, Chandler e Gaethje hanno annunciato un temporale che non è mai arrivato. Hanno tuonato, fatto cadere qualche fulmine, ma non c’è stato il KO. E cosa c’è di più significativo dell’epoca in cui ci troviamo di questo dolore che ci intrattiene e diverte, che tiene lontana la fine, che la priva di ogni significato su quanto sta accadendo. Due uomini che si massacrano senza neanche più sapere perché - non per vincere, non solo per quello di certo - trovando dentro quel dolore un rapporto vero, sincero.
E se la vera faccia dell’uomo contemporaneo fosse quella di un fighter tumefatto dopo quindici minuti di battaglia, con un rivolo di sangue che cola dall’orecchio gonfio e scuro, come un frutto marcito sul ramo, con gli zigomi e la fronte gonfia, la bocca piena di sangue e gli occhi quasi chiusi, persi nel vuoto, che ti guardano attraverso come se fossi fatto di vetro?
Quando l’incontro è finito, sono dovuti andare entrambi in ospedale. Chandler è entrato in un’ambulanza e Gaethje, forse per errore, forse perché per lui sarebbe stato naturale in quel modo, stava salendo in quella stessa ambulanza, anche se ne aveva un’altra pronta solo per lui. Forse il punto è anche stare insieme, assecondarsi a vicenda, tenersi compagnia in un territorio - oltre i cazzotti, oltre lo spirito di sopravvivenza - in cui sono in pochi a voler andare, uniti da quei momenti in cui il corpo, il loro corpo stordito, era l’unica cosa che contava, un corpo che manteneva la forma, il ricordo, dei colpi dell’altro. Cosa c’è di più autentico, oggi, di due uomini felici di condividere una stanza di ospedale?