Quando la palla arriva a Coman, dentro l’area di rigore, a proteggere la porta del Manchester City ci sono sei giocatori più Ederson. Come in una performance artistica, piegano i loro corpi per coprire più centimetri di porta possibile. Il tiro di Coman non trova alcun pertugio per infilarsi in rete, sbattendo sui difensori asserragliati, e il risultato resta sullo zero a zero. Non è la prima occasione per il Bayern Monaco, in quel primo tempo in cui ha provato a forzare in tutti i modi una difesa del Manchester City stranamente solida e scrupolosa. Guardiola ha vinto la partita d’andata per 3-0 e vuole assolutamente evitare brutte sorprese al ritorno. Ha schierato insieme 4 difensori centrali e un mediano puro come Rodri: una formazione ormai consolidata di quest’annata del City, quella che sembra ricordarci una volta di più che si nasce incendiari e si muore pompieri. In entrambe le partite il City ha mantenuto una percentuale di possesso palla di poco superiori al 40%, rinunciando alla vocazione di dominio tipica di una squadra di Guardiola.
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All’inizio del secondo tempo il Bayern Monaco perde un pallone stupido e il City parte in contropiede. C’è un 4 contro 2, solo che i due non sono due qualsiasi ma Kevin De Bruyne ed Erling Haaland, che potrebbero attaccare in inferiorità numerica anche la difesa che ha sconfitto le armate dell’inferno in quel celebre spot della Nike. De Bruyne la passa ad Haaland, Upamecano gli si avvicina per chiudergli lo spazio. È uno dei difensori più reattivi e veloci al mondo, solo che perde attrito col terreno e scivola a terra. Haaland allora lo salta con uno scavetto e segna alzando la traiettoria del tiro di sinistro. La partita finirà 1-1 e col 3-0 dell’andata il Manchester City passa il turno.
Il Bayern Monaco ha tirato verso la porta quasi 30 volte tra andata e ritorno, producendo un misero gol. Non si può dire che i bavaresi meritassero di più, e tuttavia è stato impressionante vederli cuocere nel brodo dentro cui di solito è il City a bollire. Un brodo in cui far gol è molto difficile per sé e molto facile per gli avversari. Un brodo fatto di accidenti cosmici, in cui si scivola su bucce di banana fantasma, si scontano millimetri di fuorigioco a favore e contro, e i rimpalli servono per generare carambole che somigliano a punizioni divine. Una medicina che il Manchester City ha ingoiato diverse volte.
Il City che attacca come una squadra disperata, contro il Tottenham di Pochettino, per esempio, nel 2019. Fa un gol e ne subisce due. Poi riprende ad attaccare, e più attacca e più subisce gol, con gli avversari chirurgici nello sfruttare tutti gli errori difensivi del City. Ogni errore, un gol subito, fino a un parossistico risultato di 4-3: una vittoria del City che premia il Tottenham per la regola dei gol in trasferta. Il City aveva anche segnato il gol del 5-3, se il VAR non lo avesse annullato per un fuorigioco molecolare. Quella contro il Tottenham è forse l’eliminazione più rocambolesca del City, anche se per crudeltà forse nessuna supera quella subita contro il Real Madrid nella scorsa edizione della Champions, che ha coronato una lunga tradizione di psicodrammi: l’eliminazione contro il Lione di Rudi Garcia durante l’anno del Covid, e poi quella pirotecnica contro il Monaco di Mbappé e Falcao - autore della sua ultima grande partita europea.
Come Prometeo incatenato alla montagna, col fegato mangiato da un’aquila, Guardiola forse è stato punito per aver provato a controllare tutte le variabili del calcio. Le partite di Champions lo hanno punito con tutta la loro aleatorietà, la loro crudeltà. Molte eliminazioni si somigliano: la squadra di Guardiola attacca, convertendo solo una piccola parte della montagna di occasioni create, e poi al primo episodio sfavorevole, subisce gol e si squaglia psicologicamente.
Queste eliminazioni, come la goccia cinese, hanno minato le sicurezze di Guardiola. O almeno questa è l’impressione. Le sue squadre avanzano come macchine nei campionati, dove il peso degli errori e delle partite sbagliate può essere relativizzato, ma in Champions Guardiola si è forse convinto che serve altro. La rimonta subita lo scorso anno rappresenta l’ultima goccia. Una settimana dopo la sconfitta contro il Real Madrid il Manchester City ha comprato Haaland e costruito una squadra molto più cinica, capace di vincere anche concedendo il controllo del pallone agli avversari, forte dell’idea di poter essere pericolosa anche in transizioni lunghe, in inferiorità numerica - con l’associazione miracolosa fra De Bruyne e Haaland.
A posteriori Guardiola è tornato anche su quell’eliminazione assurda contro il Monaco, e ha ammesso per la prima volta che il problema è sempre stato il numero di gol concessi: «Non abbiamo vinto la Champions perché concediamo tanti gol. Abbiamo segnato tre gol contro il Real Madrid lo scorso anno, 6 contro il Monaco (2017), quattro contro il Tottenham (2019). Molte volte abbiamo concesso tanto. Oggi questi ragazzi difendono veramente bene». È stato anche più sintetico: «Abbiamo sempre segnato. Quello non era il problema. Forse non eravamo solidi in difesa».
Era divertente vedere il City dare vita a quelle partite ingarbugliate e caotiche, scoprire in che modo si sarebbe fatto eliminare stavolta. Guardiola però si diverte meno, evidentemente, e ha scelto la strada dell’equilibrio, del contenimento degli eventi di una partita, di assumersi meno rischi.
Cosa significa, per il calcio europeo, questo leggero cambio di paradigma?
Questo cambiamento non ha avuto effetti solo sul Manchester City, ma sullo spettacolo che stiamo osservando in questa edizione della Champions League: una delle più conservatrici e bloccate degli ultimi anni. Si è segnato poco (a parte le goleade in partite squilibrate), ci sono state poche rimonte, pochi risultati incerti. Hanno passato il turno le squadre più scaltre, quelle che hanno rischiato meno e che hanno rifiutato il caos primordiale che negli ultimi anni ha agitato le notti di Champions. Quelle partite che erano creature strane e intrattabili, serpenti pronti a sgusciare tra le mani.
Appena un anno fa scrivevamo di un calcio che oggi ci sembra scomparso. Le partite erano caratterizzate dal gusto e dalla visione che allenatori come Klopp e Guadiola avevano sparso sulle partite. Da una parte il gioco di posizione di matrice catalano-olandese, dall’altra il gegenpressing e le transizioni rapidissime a tutto campo: entrambi i filoni messi dentro la lavatrice dell’intensità del calcio inglese. Dopo anni di attenta ricerca dell’equilibrio si era passati all’accettazione del caos come un dato ineliminabile delle partite a scontri diretti. Scriveva Alfredo Giacobbe: "Come un organismo che contrae una malattia e ne sviluppa gli anticorpi, diventando più forte di prima, queste due squadre ora stanno cambiando il calcio europeo, inglesizzandolo. Come risultato di questo processo, anche in Europa si è passati dalla necessità di equilibrio all’accettazione del caos".
Accanto a Liverpool e City, come un pianeta a sé stante, la capacità mistica del Real Madrid di surfare su questo caos attraverso la tecnica, la sapienza calcistica dei suoi calciatori, che come artigiani pazienti smontavano e rimontavano le partite attraverso letture di gioco al contempo semplici e profondissime. Sono anni che il nostro palato si è abituato a questo gusto dell’imprevedibile. Le rimonte pazze del 2018 ci erano sembrate un’eccezione, poi sono arrivate quelle del 2019 ancora più incredibili. Jonathan Wilson allora si chiedeva cosa stesse succedendo. Le risposte erano diverse: anni di successi, sul campo e nel marketing, di uno stile offensivo e spettacolare, e le regole del gioco che hanno provato a favorirlo in tutti i modi: il divieto di retropassaggio al portiere, il VAR punitivo per i difensori in area e norme sempre più restrittive sui falli di gioco. Le partite di calcio, nella loro forma più selvaggia, quella degli scontri a eliminazione diretta, sono diventate creature capricciose e imprevedibili. Come nei film di Terence Malick, a muovere le energie del mondo sembrano forze superiori e invisibili, rispetto a cui l’uomo non può che esercitare un controllo flebile. Per provare a spiegare l’inverosimile campagna europea del Real Madrid, quella della scorsa stagione, abbiamo ricorso al concetto di “mistica” fino a sbrindellarlo.
A definire l’estetica di questi ultimi anni in Champions un’ecosistema di squadre vario ma quasi interamente offensivo: la fluidità estrema dell’Ajax di ten Hag, il gioco di posizione tirannico di Guardiola, gli attacchi blitz del Liverpool, la complessità tecnica e la classe dei campioni del Real Madrid, la flessibilità del Tottenham di Pochettino, l’all-star team costruito dal PSG (alla disperata ricerca di un equilibrio).
Probabilmente con un po’ di fortuna in più, Guardiola avrebbe vinto almeno una Champions col City negli scorsi anni. Lo avrebbe fatto accettando il caos degli scontri diretti, provando sempre a segnare un gol in più degli avversari. È significativo però che ora abbia scelto una strada diversa per provarci. La Champions è sembrata contagiarsi da questa tensione all’equilibrio. L’unica partita davvero pazza di quest’edizione è stato il 5-2 di Anfield, prodotto dall’incrocio fatale tra il cinismo dei giocatori del Madrid e l’ingenuità difensiva del Liverpool, che quest’anno ha oltrepassato il limite oltre il quale il caos non è più sostenibile. Per il resto quest’edizione ha premiato le squadre più attente all’equilibrio difensivo, meno propense a correre rischi, brave a compattarsi a ridosso della propria area, inclini a fare a meno del pallone e a trovare la pericolosità con poco. È difficile non fare una correlazione tra questa situazione e la prima semifinale tutta italiana dopo più di vent’anni.
Gli scontri con più gol sono stati prodotti da uno squilibrio tra le forze in campo (Benfica contro Bruges, Napoli contro Eintracht, City contro Lipsia), e le squadre con una proposta di gioco più originale e ambiziosa - Benfica e Napoli - sono state poi eliminate ai quarti. Nelle partite contro Inter e Milan sono sembrate ingenue e impreparate. Le milanesi, che hanno passato i loro turni con ampi meriti, lo hanno fatto attraverso partite prudenti, brave a sfruttare l’aggressività delle loro avversarie. Il Milan in particolare, contro Tottenham e Napoli, ha giocato quattro partite estremamente scrupolose difensivamente, forte della pericolosità delle transizioni e degli strappi di Theo Hernandez e Leao.
“Calcio is back” recita il claim di uno strano spot del canale della Serie A, fatto per cavalcare il risultato eccezionale di cinque squadre nelle semifinali delle tre coppe europee. C’è una forte componente casuale (sorteggi benevoli, improvviso decadimento di forma degli avversari, grandi prestazioni nel momento giusto), sottolineata da tutti, ma non può essere del tutto casuale. Non si può ignorare il senso di questa stagione europea, e cioè che l’eterna ricetta del calcio italiano - per cui bisogna rischiare poco, contenere il caos delle partite, far succedere poche cose, essere più attenti e astuti degli avversari - ha ancora una sua validità universale nel calcio a eliminazione diretta. Certo, su quest’efficacia ha inciso lo stato di forma scadente di molte squadre dell’élite europea: il PSG sembra uscito rotto dal Mondiale, il Liverpool è in un’annata di transizione, il Bayern Monaco ha abbandonato presto l’utopia offensiva di Nagelsmann, il Chelsea, beh, lasciamo perdere. Anche il Real Madrid sembra una versione meno brillante di quella della scorsa stagione.
Come sappiamo, non esistono ricette definitive o scorciatoie sul successo nel calcio contemporaneo. Solo tendenze prevalenti e altre emergenti, che sembrano suggerire l’arrivo di nuove ere, di nuovi gusti, di nuove visioni. Il Benfica e il Napoli, con la loro fluidità posizionale estrema, l’enfasi sull’associazione fra giocatori tecnici, sono le due squadre che parevano esprimere il gusto calcistico più contemporaneo, eppure sono state eliminate da altre squadre più prudenti ma anche più resistenti, che hanno applicato ricette per certi versi antiche. Ai Mondiali squadre estremamente offensive come la Germania, o dominanti territorialmente come la Spagna, hanno fatto una brutta figura. Il Manchester City allora, la squadra più all’avanguardia degli ultimi anni, ha deciso di assumere una forma cupa e cinica - almeno per il modo in cui prova a massimizzare la superiorità tecnica e fisica individuale sui suoi avversari. Il caos, egemonico negli ultimi anni di Champions League, oggi non appare più troppo “foriero di opportunità”, come scriveva Alfredo Giacobbe, ma qualcosa da guardare con timore e reverenza. L’ignoto sembra far paura, in questa edizione di Champions League, e tanto vale rifugiarsi in idee che sembravano morte - perché nessuna idea, nel calcio, in realtà muore veramente.