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Fabrizio Gabrielli
Chacareros
05 giu 2014
05 giu 2014
Il racconto del "boicottaggio" argentino al Mondiale fascista del 1934. Una squadra struggente di "contadini" che sognava di vincere il torneo, ma è stata eliminata alla prima partita.
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Fabrizio Gabrielli
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I

Schierata sul molo della stazione marittima dell’Immacolatella, la delegazione di benvenuto s’irrigidisce sull’attenti e saluta con il braccio romanamente levato la Selección argentina che giunge a Napoli il 16 Maggio 1934, esattamente diciassette giorni dopo essere salpata a bordo del vaporetto Neptunia da Buenos Aires. Oltre al presidente della sezione locale del comitato organizzativo c’è Vaccaro, generale della Milizia e presidente Federale, anello di congiunzione tra il governo del calcio e quello mussoliniano. Durante il vermouth offerto in onore degli ospiti tiene un discorso sullo sport fascista, su come sappia spaziare «ad alta quota di idealità per responsabilità dei dirigenti e maturità delle folle». Robirosa, il pari grado rioplatense, rincara la dose elogiando gli sforzi organizzativi del regime, «la cui sorprendente ascesa in ogni campo sociale viene seguita con interesse e simpatia dal popolo argentino». Dei diciotto calciatori che costituiscono la rosa sudamericana, quattordici sono figli di immigrati italiani. Cosa fa, precisamente, di un argentino un argentino? Sul Rio de la Plata galleggia un proverbio, che recita: «I peruviani discendono dagli Inca, i messicani dagli Aztechi. Gli argentini, invece, discendono dalle navi». I fili che legano lo ius soli e lo ius sanguinis sono molto intricati quando si parla di Vecchio Continente, di Terre Nuove, di un’emorragia di flussi migratori ancora fresca. Nel caso particolare dell’Italia, dell’Argentina e del calcio negli anni trenta, la matassa sembra inestricabile. I ragazzi che sbarcano dal Neptunia sono molto giovani, la squadra più giovane in assoluto, ventidue anni l’età media. La sobria uniforme è un completo grigio chiaro. Bruno è il colore di pelli e capelli. I loro nomi vengono italianizzati (Héctor Freschi, il portiere, diventa Ettore). Robirosa si affretta a inviare un telegramma al Duce: «Nel toccare il suolo italico gli atleti argentini salutano con rispettosa deferenza il Capo del Governo che dirige con chiaroveggenza i destini della nascente Italia». «Se speriamo nel successo? Molto, non lo nascondiamo. La squadra argentina sarà la sorpresa del campionato» dichiara l’allenatore. Si chiama Felipe Pascucci, anche se sul passaporto c’è scritto Filippo. Nato a Genova. Cittadinanza Italiana.

II

La seconda edizione della Coppa del Mondo è stata assegnata all’Italia durante il XXI° Congresso della FIFA di Stoccolma, nel ’32. Dopo il primo sperimentale evento di Montevideo era chiaro che il numero di squadre partecipanti sarebbe cresciuto, e una sola città non sarebbe stata più sufficiente a ospitare la manifestazione. Serviva una Federazione che potesse contare un numero di impianti adeguati, infrastrutture necessarie, ingenti somme da spendere. Al regime fascista non mancava nulla di tutto ciò: anzi, in più aveva la voglia – e la necessità – di guadagnare prestigio internazionale. L’Italia si era quindi proposta per organizzare il torneo «utilizzando a teatro delle dispute le numerose e fiorenti città italiane, tutte dotate di magnifici stadi». L’Uruguay, campione in carica, decide di rinunciare alla difesa del titolo. Un po’ per una ferrea condanna del regime italiano, un po’ perché lo sgarbo di aver glissato l’edizione del ’30 – più che una kermesse calcistica, la celebrazione di un anniversario politico, il centenario dell’indipendenza del paese – era stato mal digerito. E l’Argentina? Mussolini conta sulla presenza, se non dei campioni, almeno dei vicecampioni. Ne andrebbe della credibilità del torneo. Eppure anche l’Albiceleste considera la possibilità del boicottaggio. Ufficialmente, per solidarietà rioplatense. Ma quella è una presa di posizione di facciata, perché ci sono almeno altri due motivi ben più validi. A Buenos Aires il calcio è spaccato a metà. La Lega argentina di calcio assiste a una scissione tra professionisti e amateurs: i pro non gradiscono l’idea che per colpa del Mondiale il campionato nazionale resti orfano per tre mesi dei suoi giocatori più importanti (e questo è il primo dei motivi) ma in realtà (secondo e più profondo movente) non vuole neppure rischiare di perderli per sempre. I calciatori professionisti, infatti, ricevono la paga di mezza birra e mezzo panino al giorno, e in Italia c’è senz’altro qualcuno disposto a offrire loro un onorario più dignitoso. E casomai anche un passaporto. Già da qualche anno la Figc – con la connivenza del regime – ha improntato una campagna senza precedenti di reclutamento oriundi per spingere l’Italia (e i club italiani) verso il trionfo, in tutte le competizioni: calciatori come Enrique Guaita, Mumo Orsi, Stabile, Demaría, Libonatti, e perfino Luisito Monti – che con la camiseta albiceleste ha perso la prima finale dei Mondiali in Uruguay – sono stati prima ingaggiati, e poi naturalizzati.

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Luis Monti con la camiseta albiceleste nella semifinale mondiale del 1930 contro gli Stati Uniti. Giocherà e perderà la finale contro l’Uruguay. Si rifarà quattro anni più tardi con la maglia dell’Italia.

Quello con l’ambasciata italiana è un braccio di ferro che rasenta l’incidente diplomatico. Gli amateurs, da parte loro, sarebbero pure entusiasti di partecipare. Ma Mussolini vuole calciatori di prima linea con cui competere e riempire gli stadi: mica dilettanti. A due mesi dal torneo ci sono tutti i presupposti affinché qualcuno rimanga scontento, o nel peggiore dei casi offeso, finché spunta una soluzione: gli organizzatori comunicano che vanno bene i dilettanti: «Saranno ricevuti in Italia con tutti gli onori». Malbec, un dirigente federale prono al fascino delle mode del momento, ha una pensata geniale, quasi un calembour: perché non affidare la Selección a uno straniero? Nello Sportivo Barracas ci sarebbe questo maestro di ginnastica che è stato preparatore atletico del River; si chiama Pascucci, è italiano. Una meravigliosa coincidenza astrale.

III

Viaggiare sul Neptunia è stato come ripercorrere i passi dei padri, ma à rebours. Anche se tra gli atleti c’è chi, prima del ritiro collegiale precedente la partenza, non aveva mai visto neppure Buenos Aires: figuriamoci l’Europa. Di colpo si sono trovati proiettati, dalla pampa, nel mezzo del viaggio più esotico che avrebbero compiuto nel corso di un’intera esistenza. Con il tecnico, i dirigenti, il giornalista Weissman e il radiocronista Sojit, ci sono due portieri, tre centrali, cinque centrocampisti e otto attaccanti. Roberto Irañeta è il più giovane, diciotto anni appena: lavora come impiegato in una banca di Mendoza, e il padre non condivide affatto quella sua passione per il fulbo. Poi ci sono il difensore Belis, dal tiro poderoso, e gli sguscianti Galateo e De Vincenzi, capitano in pectore. La vita di bordo è stata austera: sveglia all’alba e allenamenti sottocoperta, per non infastidire gli altri traversanti. Durante una sosta a Santos, in Brasile, hanno giocato un’amichevole: non contro una compagine brasileira, ma contro l’equipaggio del Neptunia. Juan Eduardo Nehín ne ha approfittato per spedire una cartolina a casa, che va a finire sui giornali. Non senza una punta d’orgogliosa acredine, ha scritto: «Glielo facciamo vedere noialtri chacareros ("contadini, coloni") ai professionisti nel torneo di Roma che siamo anche argentini!». L’esordio albiceleste è previsto per domenica 27 maggio, in contemporanea alle altre sette gare degli ottavi di finale, allo Stadio Littoriale di Bologna, contro la Svezia. L’hotel scelto per il soggiorno felsineo è lo storico e sfarzoso Baglioni, in pieno centro, vicinissimo a Palazzo Fava e ai suoi affreschi sulle imprese di Giasone. L’esperienza degli atleti, più che a una spedizione degli Argonauti, somiglia però a una reclusione coatta: la loro paga è in pesos, e il peso non si può spendere in Italia. La strada che conduce al vello d’oro è lunga e perigliosa. Alcuni colgono l’occasione – irripetibile – di visitare parenti mai visti, come fa De Vincenzi, che raggiunge in treno Firenze, e che al ritorno si ritrova defenestrato dal ruolo di capitano «per indisciplina». A nulla valgono le sue rimostranze: per scagionarsi sottolinea come anche Pascucci si sia allontanato per fare un saluto alla madre, a Genova, e alla fidanzata, a Parma. «Ma io sono tre anni che non la vedo, mia mamma!» si giustifica il tecnico. Il trasferimento nelle valli di Comacchio somiglia a un ritiro punitivo. Complicarsi la vita ha un fascino che non ammette repliche.

IV

Lo Stadio Littoriale sembra una cattedrale romanica. La vittoria alata che stinge il fascio littorio sul pennone della Torre Maratona domina silente, recando auspici contraddittori. Gli argentini arrivano un’ora prima del calcio d’inizio fissato per le quattro, in tram. Hanno pranzato con qualcosa di simile a un asado, ma al chiuso, e in maniera meno festante del solito. Sulle tribune sono attesi dall’ambasciatore e da Sojit, il radiocronista: uno per uno sfilano davanti al microfono, inviando saluti a casa. Una scena d’un candore unico.

L’undici argentino schierato prima del fischio d’inizio della gara contro la Svezia. Il primo a sinistra, in pantaloni bianchi, è Filippo “Felipe” Pascucci.

Quella tra Svezia e Argentina è la sfida degli ottavi che in assoluto ha meno spettatori: quindicimila appena, molti dei quali, pur non essendolo di fatto, si sentono argentini, per via di quel senso d’appartenenza che è proprio di chi compartecipa i sentimenti di un padre, di uno zio, di un caro amico emigrato. Spinti dall’incitamento del pubblico e da un’energia giovanile che nell’ultimo mese di clausura è stata repressa, gli avanti di Pascucci sembrano il Rio de la Plata in piena: l’esondazione è ineluttabile e repentina, e arriva dopo quattro minuti, con una punizione da 25 metri calciata da Belis che è una dichiarazione d’intenti bellici. Il loro gioco è un compendio di stilemi sudamericani. Agilità, acrobazie, gambetas. E svarioni difensivi, come le gaffe reiterate dello stesso Belis, che ruba palla al proprio portiere, calcia ingenuamente in fallo di fondo e stecca il rinvio sul corner, lasciando che Jonasson metta a segno il pareggio. Il leitmotiv di tutta la prima metà della gara è lo stesso: iniziativa sterile dei sudamericani, pragmatismo degli scandinavi. Gli ultimi dieci minuti del primo tempo sono condensati tutti in due azioni: tre dribbling in un metro di Galateo, piroette, evoluzioni ardite quanto inconcludenti, e poi il rischio ingenuo di passare in svantaggio, quando una mano cerca di smanacciare la sfera oltre l’area, e non è la mano di Héctor Freschi estremo difensore degli argentini e di professione maestro di liceo. Ciò nonostante, le squadre tornano negli spogliatoi con il pari nelle scarpe. Il cancerbero, come gli argentini chiamano il portiere nella loro variante dello spagnolo, nel taccuino che raccoglie i nomi di chi ha spaventato a morte, in limine a una serie di studenti può annotare anche lo svedese che ha calciato il penalty. La rete è salva. Anche l’entusiasmo è salvo. Casomai più vivo ancora. A inizio ripresa, l’Albiceleste torna in vantaggio in maniera impertinente, con un gol di Galateo, burlandosi delle buone maniere che impongono un timoroso rispetto per l’altrui esperienza. 2-1. Fino a tre quarti della gara gli uomini di Pascucci producono gioco, si scambiano le posizioni, suscitano stupore. Ma l’impressione è che l’Argentina, come l’acqua tra le rocce, si insinui nei pertugi che gli svedesi vogliono lasciare liberi e violabili. Quando i dirigenti hanno scelto di prepararsi a Comacchio, lontani dalle tentazioni del centro città, la Federazione svedese gli ha permesso di occupare gli appartamenti a loro riservati, sistemandosi a Bologna. Si sono scambiati gli alloggi, in pratica. Giunto poi il momento di fare sul serio, due giorni prima della sfida, li hanno sfrattati. «Tornatevene in città, che nei campi andiamo a prepararci noi, adesso.» Giunto il momento di fare sul serio, la Svezia sfratta gli avversari dal gioco. Rosen lancia uno spiovente pretestuoso verso l’area avversaria: il maestro Freschi cerca di abbrancarla in presa volante, ma la palla gli sfugge, rotola via dalle mani, lo costringe a una goffa respinta di ginocchio. Come di fronte a un allievo che con una battuta spigolosa l’ha spogliato lasciandolo nudo di fronte a tutti, le sue certezze iniziano a vacillare. Sono i prodromi di uno stillicidio. A venti minuti dalla fine Jonasson calcia una palla tutt’altro che irresistibile verso i pali avversari: a Freschi scivola via insieme all’autorevolezza, e la rete si gonfia. È il pareggio, 2-2. Poco dopo, allo stesso portiere capita di perdere anche la dignità, quando Kroon, a soli dieci minuti dal triplice fischio, con una conclusione fiacca riesce a piazzare il 3-2 proprio dove fa più male, dove l’onta s’incrosta e lavarla via richiede tempo, ostinazione: tra le gambe. «Colpa mia. È stata tutta, solo colpa mia», ripete Freschi in lacrime ai tifosi che lo aspettano all’uscita dagli spogliatoi per circondarlo, per consolarlo. «Non è dei calciatori la colpa se i due volte vicecampioni sono stati eliminati alla prima partita. È di chi si è assunto la responsabilità e ha deciso di giocarsi una carta sprezzante del pericolo», gli fa eco El Gráfico, in patria, l’indomani.

V

Al calcio d’inizio della finalissima tra Italia e Cecoslovacchia, seduto in tribuna centrale, Pascucci ha già deciso che non tornerà in Argentina. Potrebbe riciclarsi come impresario, o tornare ad allenare le giovanili, rimugina. La reazione di pancia della delegazione albiceleste, immediatamente dopo la sconfitta – con il pretesto della delusione cocente, ma forse un po’ anche per vergogna, o più realisticamente per evitare la diaspora dei calciatori in rosa – sarebbe quella di prendere e imbarcarsi sul primo vaporetto diretto a Baires. La Federazione italiana si risente, li accusa di «non saper perdere», rivendica il rispetto dei patti: un’amichevole contro l’Italia era già stata fissata per il 14 giugno a Milano, a Mondiali conclusi – un evento pensato per celebrare la vicinanza dei due popoli, e il cui incasso avrebbe dovuto parzialmente coprire le spese sostenute dagli ospitanti per assicurare la presenza argentina alla Coppa. I dilettanti argentini rimangono prigionieri. La Nazionale italiana è guidata da Pozzo, capitano degli alpini, giornalista e impiegato della Pirelli. Se l’Italia è giunta a giocarsi il titolo con i maestri danubiani, spiega ai giornalisti, le ragioni vanno ricercate «nell’ambiente, nell’atmosfera creata attorno alla squadra dal fascismo... nel fascismo stesso». La partita è tesa e vibrante. Attorno al settantesimo minuto l’ala ceca Puc, che si era appena fatto massaggiare per un accenno di crampi, insacca la rete del vantaggio. A soli sette giri di lancetta dalla fine, Pascucci osserva Luis Monti lanciare in profondità, e poi Guaita affondare sulla fascia destra e crossare altissimo per Mumo Orsi, che al volo, di destro, a incrociare, batte Planicka. A vederla da quella prospettiva privilegiata, dall’alto, senza alcun particolare coinvolgimento, Pascucci realizza come in quel pareggio insperato, che nei supplementari si tradurrà in una vittoria per l’Italia, ci sia un triangolo che ha in Avellaneda, Buenos Aires, Entre Ríos i propri vertici. In quell’azione c’è il Cono Sur, c’è tutta l’anima ribollente dell’Argentina: anche se sul rettangolo di gioco l’Argentina non c'è.

Alfredo De Vincenzi, capitano decapitanizzato.

Così come nell’amichevole celebrativa meneghina del 14 giugno 1934 non è la Nazionale Campione del Mondo quella che scende in campo. In panchina non siede Pozzo, e in formazione non ci sono oriundi. La rappresentativa federale italiana selezionata per sfidare gli argentini è un undici composto di semidilettanti. Gioca in maglia nera, il fascio littorio sul petto, e viene sconfitta per due reti a zero: doppietta di De Vincenzi, il capitano esautorato. Mussolini – che le foto tramandano sorridente nel giorno della vittoria della Coppa del Mondo, tra il presidente del comitato organizzativo Mauro in lacrime e il fido Starace dallo sguardo soddisfatto – ha già perso tutto il suo interesse per il calcio. Quel giorno non è neppure seduto in tribuna. Impegni istituzionali l'hanno reclamato a Venezia; in visita, per la prima volta in Italia, è giunto il neocancelliere tedesco Adolf Hitler. Il racconto di Fabrizio Gabrielli è estratto da "Atlante dei Mondiali" (ISBN, 2014), a cura di Massimo Coppola, da oggi in libreria.

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