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Emanuele Atturo
Il razzismo non dovrebbe essere una questione di tifo
21 mar 2024
21 mar 2024
Cosa dicono sul nostro Paese gli strascichi del caso Acerbi-Juan Jesus.
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Emanuele Atturo
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IMAGO / Goal Sports Images
(foto) IMAGO / Goal Sports Images
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Sono trascorse ormai quasi 72 ore da quando Francesco Acerbi avrebbe usato un epiteto razzista contro Juan Jesus eppure se ne continua a parlare. Acerbi ha negato e si dovrebbe parlare di "presunta" offesa razzista, e usare il condizionale, per quanto ritengo improbabile che le cose siano andate come dice lui. Pure in un tempo in cui la polemica più recente riesce a scalzare quella di prima, se ne continua a parlare. E più se ne parla, più la situazione sembra precipitare. Il linguaggio, che dovrebbe aiutarci a ricucire, a costruire ponti, a capirci, risulta inadeguato. Non fa invece che aumentare le distanze, creare equivoci e farci sprofondare nell’imbarazzo e nell’incomprensione.

Sono successe diverse cose strane.

La prima è che davanti ai microfoni, dopo Inter-Napoli, non si è presentato Francesco Acerbi per chiedere scusa ma Juan Jesus per perdonare. La vittima di razzismo, in questo caso, aveva teso una mano in soccorso del suo carnefice. Un’occasione d’oro per Acerbi per uscire dalla brutta situazione pubblica in cui si era cacciato. Incredibilmente, però, ha rinunciato a questa occasione. Non si è presentato davanti ai microfoni ed è stato intercettato, solo e confuso, alla stazione di Milano. Lì Acerbi ha negato di aver usato frasi razziste, «Frasi razziste dalla mia bocca non sono mai uscite. Questo è poco ma sicuro». Allora un giornalista gli chiede, giustamente, perché gli ha chiesto scusa. Un fatto che sappiamo attraverso Juan Jesus, ma anche attraverso dei replay abbastanza inequivocabili. Acerbi sembra dire “Scusa, non sono razzista”, indicando Marcus Thuram. Ai microfoni il difensore dell’Inter dice che Juan Jesus ha capito male.

In quest’epoca club e giocatori sono ossessionati dal controllo della propria narrazione, ed è strano che l’Inter non abbia provato a indirizzare la comunicazione su una vicenda così lesiva della propria immagine, a istruire il suo giocatore con una strategia. È strano anche che nessun ufficio stampa fosse insieme ad Acerbi, alla stazione, mentre era l’uomo più ricercato dalla stampa sportiva italiana. L’Inter è una delle squadre che ha comunicato maggiormente la sua lotta contro il razzismo, per esempio con la campagna BUU (Brothers Universally United) del 2019. La società si è limitata a una nota in cui rassicura di iniziare delle indagini interne.

Dopo l’incontro con la società il difensore ha dichiarato di aver detto a Juan Jesus “ti faccio nero”, con tutta l’incomprensione successiva.

Se si vuole credere alla versione del difensore dell’Inter bisogna fare un grande sforzo di immaginazione. Credere che Juan Jesus si sia inventato tutto, o che abbia capito male; credere che Juan Jesus sia un paranoico. Se può aver frainteso l’offesa, può aver frainteso anche le scuse di Acerbi? Oppure se le è inventate di sana pianta? Si è inventato una frase molto specifica come «per me è un insulto come un altro» che gli avrebbe detto per scusarsi (un insulto come un altro? Davvero?). E poi: perché se la frase era soltanto “ti faccio nero” non lo ha spiegato subito all’arbitro, a Juan Jesus, ai giornalisti, alla società? Perché al fischio finale tutto il mondo non è stato informato che si è trattato di una banale incomprensione? Sarebbe stato strano, chi usa ancora l’espressione “ti faccio nero” come una mamma arrabbiata degli anni ’50?

Insomma: se si vuole credere alla versione di Acerbi si è costretti davvero a fare un bel po’ di salti logici.

La linea della negazione però ha due vantaggi: il primo è che finché non saranno rintracciate prove chiare ed evidenti a livello giuridico di Acerbi che pronuncia una frase razzista, lui avrà il diritto di negare. E chi parla del suo insulto dovrà farlo sempre al condizionale. E chi non accetta l’idea che Acerbi abbia usato un epiteto razzista, avrà il diritto a crederlo e a sostenerlo (come fatto dalla Curva Nord dell’Inter con un recente comunicato).

Il secondo vantaggio è che c’è sempre qualcuno pronto a difenderlo. È stato difficile trovare in queste ore una condanna del gesto di Acerbi che non fosse comunque inquinata da qualche distinguo, dal benaltrismo, o persino dal victim blaming. E non parlo dei social, che in queste situazioni offrono sempre la nostra faccia peggiore, ma delle sedi istituzionali. È vero, la Nazionale lo ha escluso, ma nel comunicato non si dice che l’esclusione rappresenta una sanzione per Acerbi. Si dice che Acerbi è rimasto a casa persino per il suo bene, per permettergli di ritrovare la serenità. Nel comunicato si specifica comunque che dal colloquio avuto «È emerso che non vi è stato da parte sua alcun intento diffamatorio, denigratorio o razzista». Il CT Spalletti ha confermato che «Per quello che mi ha detto Acerbi, non è stato un episodio di razzismo». Alcuni giornali hanno ha più volte condannato negli articoli l’eventuale frase di Acerbi, ma sempre tenendoci a specificare che si tratta di “un ragazzo dai forti valori morali”. Ieri è stato persino pubblicato un profilo agiografico del giocatore: “Ha sconfitto il male e ingabbiato Haaland nulla gli fa più paura”. Abbiamo letto anche un editoriale in cui si fa esplicitamente victim blaming, spiegando a Juan Jesus come avrebbe dovuto reagire, pur in un articolo che nasce da intenzioni pure. Lo stesso autore che elogiò Jannik Sinner proprio perché non italiano, dal suo punto di vista. Non ascoltare le vittime - nei casi di sessismo e razzismo - è un’altra cosa che succede molto spesso.

Un attacco ad Acerbi, un giocatore bianco, italiano, di un club importante, membro della Nazionale, è stato interpretato come un attacco all’intero sistema. E questo sistema quindi ha alzato gli scudi per proteggersi, perché non ci piace che ci diano dei razzisti. Non ci può essere nessun gesto, nessuna azione, che può definirci come tali.

Ma perché ci dà così fastidio, che cortocircuito si crea in queste situazioni?

Sappiamo che il razzismo è un problema culturale collettivo, non individuale. Sappiamo, per esempio, che nasciamo con dei pregiudizi razziali, perché viviamo in una società intrisa di bias razziali che costruiscono e nutrono la nostra struttura mentale, fino a un livello sepolto della nostra psiche. Fino a un livello in cui, davvero, non ce ne rendiamo conto.

Come gli psicologi cognitivi dimostrano, sono strutture che risalgono fino ai nostri antenati, che hanno imparato a muoversi con una ferrea logica tribale per questioni di sopravvivenza. Tendiamo a preferire persone più simili a noi, molto semplicemente. Uno studio dello psicologo evoluzionista David Kelly, per esempio, dimostra che neonati di appena tre mesi messi di fronte a persone caucasiche, mediorientali, africane o asiatiche preferiscono guardare gli individui che gli somigliano. Sono meccanismi inconsci, che operano silenziosamente e a nostra insaputa, come scrive John Bargh nel suo libro A tua insaputa (Bollati Boringhieri, 2018). Tendiamo sempre a preferire persone simili a noi fino a un livello davvero stupido e molecolare come per esempio i nomi: siamo inclini a preferire persone che hanno un nome simile al nostro. "Ci sono molti più Ken che vivono in Kentucky, Louise che vivono in Louisiana, Florence che vivono in Florida". Vi sembrerà assurdo ma questa cosa ha anche un nome: name-letter-effect. Faccio questo esempio tratto dal libro di Bargh solo per dire fino a che punto siamo attratti da ciò che sentiamo vicino e respinti da ciò che sentiamo lontano. Questi meccanismi sono poi rafforzati dai media: dai film che non selezionano attori neri, o gli riservano ruoli negativi, alle narrazioni televisive che rinsaldano i pregiudizi sistemici.

Il filosofo evoluzionista Telmo Pievani spiega che dopo un primo istinto che ci fa categorizzare le persone per fenotipi, si attivano aree del nostro cervello che ci spingono a razionalizzare il senso di pericolo iniziale che abbiamo vedendo "l'altro".

Nel libro di Bargh viene raccontato di un altro esperimento. Ai partecipanti vengono distribuite della palline rosse e della palline blu. Dopodiché gli viene consegnato il denaro da condividere con gli altri. I partecipanti si dimostrano più generosi con le persone che avevano pescato la pallina del loro stesso colore.

Questo conflitto “noi contro loro” raggiunge una forza esponenziale nel contesto calcistico, di per sé organizzato in un sistema di rivalità capillare. Pure se si hanno dei solidi principi morali, risulta più difficile condannare un giocatore protagonista di un episodio di razzismo che indossa la maglia della nostra squadra. In diversi casi che vanno oltre il calcio, e che hanno a che fare con la morale pubblica, si è più morbidi, cedevoli, quando si parla della nostra squadra. Si è più pronti a difenderla, anche infrangendo i principi che ci guidano ogni giorno. Si è invece estremamente severi quando si parla di una squadra avversaria. Per questo nel dibattito pubblico, specie sui social, tende tutto a scadere in una contrapposizione partigiana. Se si critica Acerbi, allora si attacca l'Inter, con l'effetto di spostare il discorso dalla sua essenza - in questo caso il razzismo. Col passare delle ore le polemiche si stratificano e si polarizzano, ma con livelli del discorso sempre più superficiali. Non si parla più di principi o valori condivisi, ma di tifo e squalifiche come un possibile danno alle squadre. L'episodio di Acerbi non è chiaramente rimasto "in campo", dal momento che è stato ripreso dalle telecamere ed entrato nel discorso comune, ma fuggiamo da un'occasione di riflessione per riportare tutto alle grette contrapposizioni di campo.

Questa struttura cognitiva tribalistica, che nel calcio trova una forma da incubo, è ciò che dobbiamo combattere per tutta la vita se vogliamo inseguire un’idea più giusta di società, o per comportarci decentemente nei nostri rapporti umani. Si tratta di un lavoro di decostruzione che non si smette mai di fare (e che ha a che fare con altri pregiudizi sistemici come il sessismo) e che parte innanzitutto dalla consapevolezza di avere delle inclinazioni a discriminare - e quindi dal contrario esatto della sua negazione.

Lo dico ancora più chiaramente: nasciamo con tanti pregiudizi razziali e dobbiamo lavorare per spogliarci di questi pregiudizi. Innanzitutto mettendoci in ascolto dell’altro. Lo dico da italiano bianco. Non ci distinguiamo tra buoni e cattivi, ma tra chi prova a combattere il proprio razzismo interiore e chi invece lo blandisce. Come deve essersi sentito Juan Jesus quando ha sentito Acerbi negare tutta la vicenda, dopo che lui aveva fatto un gesto nobile nei suoi confronti? Come deve sentirsi, oggi, a sostenere una realtà che una parte del mondo nega?

Donald Glover nella serie Atlanta racconta il razzismo sistemico come una forma di surrealismo. Un mondo alla rovescia in cui cominciano a saltare gli anelli della catena della realtà. I personaggi sembrano vittime di meccanismi incomprensibili simili a quelli di un universo kafkiano. Sentono la discriminazione come una forma di alienazione, visto che gli oppressori fanno di tutto per nasconderla. Non riescono più a distinguere i confini tra realtà e paranoia.

Una celebre scena in cui si ritrova la cifra surrealista di Atlanta. Una festa data da bianchi che spiegano agli afro-discendenti di ritrovare le radici africane. Nella scena Donald Glover ha un'epifania scoraggiata sui rapporti di potere di cui è vittima.

Il discorso culturale italiano, anche al di fuori del calcio, ha invece avere un enorme problema di negazione del problema del razzismo, che spesso con lo sport viene al pettine. Perché lo sport ha una capacità unica di portare alla superficie i nostri conflitti. Sappiamo bene quanta fatica facciamo a giudicare gli atleti e le atlete italiane di successo che hanno la pelle nera o il cognome tedesco. Il caso di Acerbi ci dimostra però che siamo pronti a negare anche casi così poco sottili e grossolani. E sappiamo bene che quest'ultimo di Acerbi è solo l’ultimo di una lunga tradizione di episodi di discriminazione razziale sui nostri campi.

L’Italia, come corpo sociale, sta facendo poco per combattere i pregiudizi razziali che si porta dietro, come dimostra il modo in cui ai livelli più istituzionali si è gestito quest’ultimo episodio. Acerbi può essere stato razzista a sua insaputa, ma come sappiamo si è razzisti nel momento in cui si compie un gesto razzista, non per definizione ontologica. Dobbiamo riscriverlo ogni volta, ma evidentemente è un concetto che non passa. Scrivo tutto questo non per demonizzare Acerbi, ma perché credo sia importante chiamare le cose col loro nome. Non siamo di fronte a un caso di disastro comunicativo, non siamo di fronte a un equivoco, non siamo di fronte a una disattenzione o all’ignoranza: siamo di fronte a un caso di razzismo. Sempre che Acerbi non abbia davvero detto “Ti faccio nero”.

In fondo sarebbe stato molto semplice gestire questa vicenda. Acerbi sarebbe potuto andare ai microfoni a chiedere scusa. Magari insieme a Juan Jesus, visto che è sembrato più che disposto a perdonarlo. L’Inter avrebbe potuto riservargli una sanzione, la Nazionale escluderlo per un paio di amichevoli poco significative. Acerbi avrebbe persino potuto accettare un corso anti-razzismo, o l’Inter avrebbe potuto organizzarlo nel club, come fanno ormai diverse grandi aziende. Sarebbe stato molto semplice e tutti ne sarebbero usciti meglio. Ma si sarebbe dovuto confessare un gesto razzista, e quindi ammettere che il razzismo è un problema che ci riguarda, e che non è fuori da noi.

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