Cartoline da Rio
Cosa scriveremo sui libri di storia dell’atletica dopo Rio 2016.
Anita Wlodarczyk, un record ignorato
Il terzo record mondiale l’ha siglato un’atleta polacca, Anita Wlodarczyk. La sua gara è il lancio del martello e in questa disciplina è ai vertici da diversi anni: ha vinto i Mondiali del 2009 e del 2015 ed è la quinta volta che batte il primato del mondo. Il lancio del martello femminile esiste alle Olimpiadi solo da Sidney 2000 e Wlodarczyk è sicuramente la migliore atleta della sua breve storia. È l’unica donna mai salita sopra gli 80 metri, impresa che le è riuscita in quattro gare diverse. Le prime otto misure nelle liste all time sono tutte sue: ma ci sono molti altri lanci non segnati nella graduatoria, dato che questa tiene presente solo la miglior prestazione di ogni gara. L’oro olimpico però le mancava: a Londra aveva vinto la russa Tat’jana Lysenko, che qualche anno prima era stata squalificata due anni per utilizzo di sostanze dopanti. Stavolta, per mettersi al sicuro da eventuali scherzi, Wlodarczyk ha messo le cose in chiaro fin da subito: è passata in vantaggio al primo lancio, al secondo è salita sopra gli 80 metri (80,40) e al terzo ha scagliato il martello a 82,29, nuova miglior prestazione mondiale. Prima della fine della gara, si è tolta la soddisfazione di salire un’altra volta sopra il vecchio limite mondiale. Un dominio totale, una prestazione che però è stata quasi completamente ignorata dalla maggior parte degli osservatori.
Il lancio record.
I lanci, insieme al salto in alto e al salto con l’asta, sono tra le discipline più bistrattate dell’atletica: poche riprese televisive in diretta (per i lanci) e decisioni assurde per quanto riguarda la progressione delle misure (per i salti) limitano fortemente le potenzialità di questi settori. A rimetterci sono gli atleti, che pagano in visibilità e quindi nella possibilità di monetizzare le loro prestazioni (se non passano mai in televisione, come fanno a diventare riconoscibili?) e gli spettatori, che ignorano completamente l’esistenza di fuoriclasse come Wlodarczyk.
L’ultima sfida di Kemboi
Tra tanti nuovi re, c’è un monarca che cede il passo. Si tratta del trentaquattrenne kenyano Ezekiel Kemboi, protagonista assoluto dei 3.000 siepi dal 2003 a oggi. La sua prima medaglia risale all’argento dei Mondiali di Parigi di tredici anni fa. Era l’antipasto dell’oro olimpico di Atene 2004, a cui hanno fatto seguito altri due argenti mondiali nel 2005 e nel 2007. Poi c’è stato il passo falso alle Olimpiadi di Pechino 2008, quando arrivò settimo. Da lì, non si è più fatto sfuggire niente: ha vinto quattro campionati mondiali di seguito, da Berlino 2009 a Pechino 2015. Ha dominato la finale olimpica di Londra 2012. Ha fatto a pezzi qualunque ipotesi di concorrenza interna, vale a dire qualunque concorrenza in generale, visto che i 3.000 siepi sono un feudo del Kenya.
È un sostenitore acceso del presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, accusato di crimini contro l’umanità. Spesso, dopo le vittorie, gli ha mandato messaggi di affetto e stima in mondovisione. Si allena in Italia, a Siena, città da cui sono passati molti dei più grandi mezzofondisti degli ultimi decenni. Più che per le influenze italiane o il sostegno a un politico controverso, è conosciuto per l’atteggiamento esuberante. Il kenyano trasforma le esultanze post gara in uno show a parte: quando sta vincendo, nell’ultimo rettilineo inizia ad allargarsi tagliando il traguardo lontanissimo dalla prima corsia.
Quest’anno si è dovuto inchinare a Conseslus Kipruto, che anche se deve ancora compiere 22 anni già da diverse stagioni preparava l’imboscata a Kemboi. Ai Mondiali 2013, quando era maggiorenne da pochi mesi, arrivò alle sue spalle. E l’anno scorso, a Pechino, stava per riuscire a batterlo: Kemboi era partito come al solito per staccare tutti nell’ultimo giro, ma lui gli era rimasto attaccato e sull’ultimo rettilineo aveva provato ad avvicinarlo. L’ha condannato all’argento l’ultima siepe, dove lui si è bloccato e Kemboi scappava via per l’ultima volta.
Stavolta, all’ingresso dell’ultimo giro erano in tre: i due kenyani e l’americano Evan Jager, che già l’anno scorso aveva tentato il colpaccio (finendo quinto e primo dei non kenyani) e che stavolta ha lavorato per tenere il ritmo alto tutta la gara sgretolando il resto del gruppo. Kipruto è scappato via, Kemboi non è riuscito a rispondere e nel finale ha ceduto il passo a Jager. Poco dopo il traguardo ha annunciato il ritiro: a 34 anni, il bronzo olimpico doveva essere l’ultima medaglia della sua carriera. Non è andata così: la Francia, che in pista aveva il quarto classificato Mahiedine Mekhissi, ha fatto ricorso perché dopo il salto di una riviera (l’ostacolo con l’acqua) Kemboi ha appoggiato un piede fuori dal cordolo interno. Un errore inutile, che non comporta vantaggi per l’atleta, ma a termini di regolamento passibile di squalifica. Dopo alcune ore, la Iaaf ha deciso di squalificarlo. Dopo aver saputo della decisione della Iaaf, Kemboi ha cambiato idea: «Mi sento come se dovessi riprendere questa medaglia non protestando ancora ma in pista. Verrò a Londra 2017 per reclamare la mia medaglia dalla Francia». L’anno prossimo avrà 35 anni e lotterà contro un mondo che cerca di scalzare il Kenya dal dominio della specialità: lui opporrà i suoi quattro ori iridati consecutivi, che gli valgono già il biglietto per Londra.
La maledizione del più forte
Renaud Lavillenie è il più forte saltatore con l’asta che si sia mai visto dopo il ritiro di Serhij Bubka. Gli ha anche rubato il record del mondo, saltando a 6,16 (indoor). Campione olimpico di Londra 2012, è un atleta capace di dare spettacolo in pedana e di coinvolgere il pubblico, come si è visto ai Mondiali indoor di Portland. Eppure non ha un grande rapporto con le vittorie che contano: non ha mai vinto un Mondiale all’aperto e spesso ha perso in maniera rocambolesca.
Lavillenie ha sempre fatto capire che l’unico oro che gli interessava era quello delle Olimpiadi, quindi è arrivato in Brasile per vincere e, per gran parte della gara, è stato inavvicinabile. Entrato in gara a 5,75, ha fatto quattro salti perfetti fino a 5,98. Più che alla gara, si pensava al tentativo di record del mondo. Ma a quel punto è entrata in campo la variabile impazzita, sotto forma di un ventitreenne brasiliano di nome Thiago Braz Da Silva. Un buon atleta, ma non un candidato credibile per la vittoria. Fino alla sera della finale aveva un primato personale di 5,93 metri, ottenuto al chiuso. L’ha eguagliato al secondo tentativo, mentre Lavillenie ce l’ha fatta al primo. Quando il francese ha saltato 5,98 alla prima misura, lui ha preso una decisione folle: passare immediatamente a 6,03. Saltare quella misura in meno tentativi di Lavillenie era l’unica maniera a sua disposizione per riuscire a passare in vantaggio. Lavillenie ha sbagliato due volte quella misura, passando altissimo ma sfiorando l’asticella cadendo in entrambi i tentativi. Braz, invece, è riuscito a fare il miracolo al secondo tentativo.
L’incredibile salto di Braz visto dalla tribuna.
Un’impresa clamorosa, ottenuta davanti al proprio pubblico che è letteralmente esploso. In quel momento, Lavillenie ha perso la gara. Non avrebbe più saltato nemmeno 5,90, probabilmente: dopo aver dominato in lungo e in largo si è trovato dietro a uno sconosciuto, con un solo salto a disposizione per ribaltare la situazione. Ha deciso di fare alzare l’asticella a 6,08 e giocarsi il tutto per tutto. Prima di partire, è stato fischiato da tutto lo stadio, una scena rarissima nell’atletica. Lui ha risposto col pollice verso, è partito e ha sbagliato. La gara è finita lì, le polemiche no: Lavillenie si è scagliato contro i tifosi: «Alle Olimpiadi una cosa del genere era successa solo a Jessie Owens a Berlino nel 1936. Questo non è il calcio, certi eccessi non fanno parte dei Giochi e dello spirito olimpico». Poche ore dopo, si è scusato per il paragone con l’atleta americano. La sera della premiazione, quando lo speaker ha annunciato il suo nome, è stato nuovamente sepolto dai fischi. È dovuto intervenire Braz per placare gli spettatori. Durante l’inno, Lavillenie è scoppiato in lacrime. Probabilmente, la cerimonia del podio è stato il momento più rappresentativo di quanto inadeguato fosse il pubblico a queste Olimpiadi. La sera in cui Braz ha conquistato l’unica medaglia d’oro brasiliana nell’atletica, cioè nello sport che può essere considerato il più rappresentativo delle Olimpiadi, lo stadio era mezzo vuoto. È sempre stato mezzo vuoto tutte le sere in cui non c’era Bolt. Questo in ossequio a una tendenza che si sta notando sempre più negli ultimi anni: lo stadio si riempie solo se c’è lo one man show e si svuota appena il giamaicano scompare, soprattutto se la gara si svolge in un Paese con scarsa tradizione nell’atletica. Ai Mondiali di Daegu, in Corea del Sud, il pubblico abbandonò le tribune non appena Bolt venne squalificato nei 100, senza nemmeno rimanere a vedere la finale. In occasione delle Olimpiadi però la cosa fa ancora più impressione.