Gare organizzate a orari impossibili; Russia esclusa con una decisione che ha colpito indistintamente dopati conclamati e gente con la fedina pulita; pubblico scarso per quantità e qualità; gare di marcia con l’arrivo fuori dallo stadio; giudici in grado di cambiare l’ordine d’arrivo di una gara anche due o tre volte nel giro di poche ore. Eppure, nonostante tutte queste ombre, anche a Rio la “regina degli sport” ha raccolto momenti indimenticabili.
Il giamaicano Usain Bolt, sempre meno marziano irraggiungibile e sempre più uomo in fuga dal nuovo che avanza, ha salutato i cinque cerchi vincendo tutto quello che c’era da vincere. Tra le donne la sua connazionale Elaine Thompson ha vinto 100 e 200 metri. L’americano Ashton Eaton ha bissato l’oro del decathlon, confermando di essere il miglior atleta del mondo. La sudafricana Caster Semenya, sette anni dopo la vittoria ai Mondiali di Pechino, ha vinto anche le Olimpiadi. Un parziale risarcimento per gli insulti che ricevette nel 2009, quando aveva ancora diciott’anni e molti misero in dubbio che fosse una donna. L’ottocentista David Rudisha e il triplista Christian Taylor hanno confermato i loro titoli olimpici; il britannico Mo Farah ha bissato la doppietta 5.000-10.000 come fece, quarant’anni fa, il finlandese Lasse Viren. Ma tanti altri nomi e momenti hanno conquistato uno spazio nella storia della trentunesima Olimpiade. Eccone alcuni.
Una corona per Wayde Van Niekerk
Stavolta la gara copertina di questi Giochi Olimpici non l’ha vinta Usain Bolt. A rubargli i riflettori è stato un sudafricano di 24 anni, Wayde Van Niekerk: il primo africano nella storia a battere il record mondiale di una gara di lunghezza inferiore agli 800 metri. Van Niekerk è arrivato a Rio de Janeiro con al collo la medaglia d’oro dei Mondiali di Pechino. Quel giorno, dopo la vittoria, collassò al suolo per la stanchezza e festeggiò in ospedale.
Come un anno fa, anche stavolta i suoi avversari più pericolosi erano il grenadino Kirani James, campione olimpico di Londra 2012, e l’americano LaShawn Merritt, oro olimpico 2008. Mentre Merritt e James prendevano posto in quinta e sesta corsia, a lui è toccata l’ottava: significa correre senza vedere i propri avversari finché questi non passano in vantaggio. Ne è uscita la gara più veloce di tutti i tempi: lui ha vinto in 43’’03, battendo il record del mondo di Michael Johnson che risaliva a 17 anni fa. L’americano si è trovato a commentare l’evento in diretta sulla Bbc ed era quasi senza parole. Questo articolo di Pierre-Jean Vazel per il sito Track-Stats.com analizza nel dettaglio la gara di Van Niekerk. L’africano ha forzato oltre ogni immaginazione il passaggio ai 300 metri, che ha percorso in 31 secondi esatti. Vale a dire quattro decimi di quanto fatto l’anno scorso. E già quel 31’’4 a Pechino era sembrato esagerato: nessuno, prima di allora, aveva mai fatto qualcosa di simile. Sul rettilineo è riuscito a limitare il rallentamento, correndo l’ultimo quarto di gara in dodici secondi netti. Proprio in dirittura d’arrivo ha staccato i suoi due inseguitori, James e Merritt: scottati dall’esperienza dell’anno scorso, quando entrambi l’avevano lasciato scappare e poi non erano più riusciti a riprenderlo, stavolta hanno forzato i passaggi per non dargli spazio. Merritt, addirittura, è passato a metà gara un decimo più veloce di Van Niekerk: 20’’4, mai nessuno così forte a quanto si sappia. Ma ne hanno pagato dazio, visto che già ai 300 erano alle sue spalle e hanno continuato a perdere terreno fino all’arrivo. Non sono andati male: James è arrivato secondo in 43’’76, Merritt ha conquistato il bronzo chiudendo in 43’’85. Gli altri cinque concorrenti hanno concluso tutti sotto i 45 secondi, per la nuova gara più veloce di tutti i tempi.
Il muro dei 43 secondi potrebbe avere le ore contate: Van Niekerk sembra avere ancora margini di miglioramento e pare in grado di poter far compiere alla specialità quel salto in avanti che i 100 metri hanno fatto sulla spinta di Bolt. Ma con il giro della morte bisogna essere cauti: dopo il 1968, il primato mondiale dei 400 maschili è stato ritoccato soltanto tre volte. Van Niekerk ha un’allenatrice, Ans Botha, e già questo non è frequente. Il fatto che abbia 74 anni e che sia una bisnonna ha aumentato la curiosità intorno a lei. I risultati sono dalla sua parte: da qualche anno il Sudafrica presenta diversi atleti interessanti sui 200 e sui 400. Van Niekerk è sceso per la prima volta sotto i 45 secondi due anni fa, per la prima volta sotto i 44 l’anno scorso e quest’anno si è fermato alle soglie dei 43 secondi. Per ora. È anche l’unico uomo della storia a essere sceso sotto i 10 secondi nei 100, sotto i 20 nei 200 e sotto i 44 nei 400. Resta da chiedersi cosa può fare sul mezzo giro se deciderà di affrontarlo seriamente: forse, se corresse i 200 ai Mondiali dell’anno prossimo, potrebbe essere l’ultimo avversario di Bolt.
Van Niekerk che comincia a riscrivere la storia.
Le fondiste volano
La prima medaglia assegnata, in uno stadio vuoto anche grazie alla scelta della Iaaf di organizzare la finale la mattina, è andata all’etiope Almaz Ayana, di cui avevamo già scritto qui in occasione dei Mondiali di Pechino. L’anno scorso partecipò ai 5.000 metri e vinse contro la favoritissima Genzebe Dibaba: era più debole in volata e decise di attaccarla partendo da lontano, correndo gli ultimi 3.000 metri in 8’20’’, uno dei tempi migliori mai cronometrati sulla distanza.
Quest’anno ha riscritto la storia dei 10.000 metri. Un’atleta kenyana, Alice Aprot, ha deciso di forzare i primi cinque chilometri: il passaggio a metà gara, 14’46’’81, era in linea per tentare il record del mondo. Ayana si è lanciata in una lunghissima volata e nessuna ha provato a tenere il suo passo: ha percorso il sesto chilometro in 2’50’’, il settimo in 2’53’’, l’ottavo in 2’55’’, il nono in 2’57’’, l’ultimo in 2’55’’. Un ritmo infernale, che le ha permesso di sbriciolare il record: 29’17’’45, 14 secondi in meno di un tempo che resisteva da 23 anni ed era considerato inavvicinabile. A siglarlo era stata, nel 1993, la cinese Junxia Wang, l’atleta di punta del gruppo di mezzofondiste che passò alla storia come “l’esercito di Ma”, dal nome dell’allenatore Ma Junren.
Quel crono era considerato imbattibile anche perché era espressione di un gruppo di allenamento da sempre considerato in forte odore di doping. Per le stesse ragioni, l’anno scorso il record del mondo sui 1.500 metri di Genzebe Dibaba sembrò un evento epocale. Un anno dopo, Dibaba è l’ombra dell’atleta ammirata nel 2015. Mentre Ayana, che era considerata la numero due, ha fatto qualcosa di ancora più incredibile. Ma non era sola in questo assalto: il miglioramento è stato generalizzato ed enorme per molte atlete in pista a Rio. Alle spalle di Ayana è arrivata la kenyana Vivian Cheruiyot, che ha chiuso a pochi decimi dal vecchio record del mondo. Terza è arrivata Tirunesh Dibaba, la sorella maggiore di Genzebe e vincitrice di due titoli olimpici su questa distanza, che a Rio ha preso 25 secondi di distacco dalla vincitrice. Un abisso, soprattutto se si considera che Dibaba è stata probabilmente la più forte interprete della distanza. Eppure, il suo 29’42’’56 migliora di 12 secondi il personale che aveva quando era lei la dominatrice dei 25 giri. Ha corso forte come non mai, ma non è nemmeno bastato a sfiorare la vittoria.
Dietro di loro, altre 15 atlete hanno migliorato i loro primati. Complessivamente, questi 10.000 hanno visto infrangere 18 record personali, otto record nazionali, due record continentali e – ovviamente – il record mondiale. Pochi giorni dopo, Ayana è partita per la finale dei 5.000 metri. Come un anno fa è scappata via a tre chilometri dalla fine, ma stavolta le è andata male: due avversarie l’hanno raggiunta ed è arrivata terza. Probabilmente l’ha tradita la stanchezza: ha corso gli ultimi tre chilometri 13 secondi più lenta di quanto avesse fatto a Pechino e le altre, che l’altra volta erano scomparse, hanno tenuto un ritmo intermedio tra questi due estremi. Ha vinto Vivian Cheruiyot, che pochi giorni dopo aver fatto la terza prestazione mondiale di sempre sui 10.000 ha corso un 5.000 in 14’26’’ (con una semifinale in mezzo) con una fortissima progressione nell’ultimo chilometro.
Insomma, nell’ultimo biennio tre atlete si sono espresse allo stesso livello delle tanto chiacchierate cinesi. Un fatto esaltante, perché lo spettacolo è di altissimo livello, ma in uno scenario inquietante: negli ultimi anni Kenya ed Etiopia sono stati protagonisti di alcuni scandali legati al doping, al punto che il Kenya ha rischiato di essere escluso dalle Olimpiadi come accaduto alla Russia. Qualche settimana fa il somalo Jama Aden, allenatore di Genzebe Dibaba, è stato arrestato in Catalogna perché in possesso di epo, steroidi e siringhe. Ayana per ora replica ai sospetti sostenendo che il suo doping è Gesù, corre sul mondo e si gode il suo oro, oltre al fatto di aver raggiunto una fama superiore a quella della rivale Dibaba. Alle sue spalle Cheruiyot, sedici anni dopo l’esordio a Sydney 2000, ha ottenuto il suo primo titolo olimpico.