Si dice spesso che tutti gli sport sono in continua evoluzione, lo dicono gli allenatori, gli analisti e lo dicono gli atleti. Se ne parla molto anche nel tennis: i giocatori di ritorno da un lungo infortunio parlano della difficoltà di rimettersi fisicamente al passo con gli altri, ritrovare il cosiddetto ritmo partita; ma molti parlano anche della difficoltà di riadattarsi al gioco stesso, che appare sempre un po’ diverso ogni volta che lo si rincontra dopo un lungo periodo. A volte, guardando una partita si può avere la fortuna di essere spettatori dell’emergere di una discontinuità, una rottura delle dinamiche consuete che fa intravedere un cambio di paradigma. Gesti che producono un esito diverso dal solito e che, riproponendo più volte la stessa anomalia, cominciano a somigliare a uno scarto evolutivo.
È successo per esempio nella semifinale dell’Australian Open del 2011 tra Federer e Djokovic, già nel primo game: Nole serve sul 30-40, e nel lungo scambio di 23 colpi all’inizio neutralizza il dritto in risposta di Federer con un allungo sulla destra e da lì in poi è lui a manovrare lo scambio, incrociando di dritto per tre volte, con Federer sempre più in ritardo. L’ultimo dritto incrociato di Djokovic è un’accelerazione inaspettata, sia per velocità che angolo, che Federer riesce solo a toccare e mandare in rete. Il colpo, e il modo in cui schizza la palla appena tocca terra, hanno qualcosa di diverso dal resto dello scambio, qualcosa che somiglia a un calcolato cambio di marcia, tanto controllato da Djokovic quanto inaspettato per Federer. Non è il consueto vincente che si tira appena la palla dell’avversario perde profondità, concedendo più angoli di traiettoria: Djokovic tira il suo ultimo dritto dal centro del campo e da più di un metro dietro la linea di fondo. Federer esce battuto da quello scambio (e da quella partita, persa tre set a zero) con l’aria di chi non si aspettava quella palla. Non era né un virtuosismo né una sassata imprendibile, era una palla che pesava diversamente, e che arrivava in un momento dello scambio in cui non sarebbe dovuta arrivare, da un avversario in posizione neutrale e distante. Djokovic iniziava così il 2011 in cui avrebbe vinto le prime 43 partite della stagione, tre titoli Slam, cinque Masters 1000 e 10 partite su 11 giocate complessivamente contro Federer e Nadal.
Foto di Oscar del Pozo / Getty Images.
Nel terzo turno degli US Open dello scorso anno c’è stata un’altra perturbazione della natura del gioco, ancora più vistosa: Stefanos Tsitsipas, numero tre del mondo, finalista al Roland Garros pochi mesi prima e vincitore delle ATP finals nel 2019, incontra Carlos Alcaraz, numero 55 a 18 anni e due mesi. Alcaraz non è uno sconosciuto, i risultati della stagione (primo titolo ATP e due semifinali, terzo turno al Roland Garros dalle qualificazioni) lo rendono una promessa, sensazione accentuata da analogie con i risultati di Nadal alla stessa età. La partita arriva al quinto set dopo che Alcaraz perde 6-0 il quarto, ma dopo arrivano sul 4-3 per Tsitsipas con Alcaraz al servizio. Poteva esitare, perdere sicurezza come molti fanno nei momenti decisivi di una partita più grande di loro, non sarebbe comunque significato nulla. Lo stesso Tsitsipas a Parigi aveva perso da Djokovic in finale a giugno, dopo aver vinto i primi due set. Alcaraz invece mette in pratica un game fatto di un tennis nuovo: gioca praticamente da solo, mentre Tsitsipas prova a rispondere con i suoi bei colpi, forti e tesi, che gli tornano indietro come sassi.
Vale la pena ripercorrere quel game, che Alcaraz ha vinto a 30 e in cui quindi si sono giocati sei punti. I due vinti da Tsitsipas sono un doppio fallo di Alcaraz sul 30-0 e un attacco a rete di Tsitsipas seguito da passante di rovescio incrociato di Alcaraz che finisce in corridoio, sul 40-15. I punti vinti da Alcaraz sono i momenti in cui la mutazione emerge, in cui Tsitsipas, pur numero tre del mondo, è inerme, quasi spaventato: due dritti incrociati, un rovescio lungolinea e uno incrociato. Come Djokovic nel 2011 con Federer, si tratta di punti in cui il colpo vincente che li chiude appare come un’alterazione della fisica dello scambio che lo ha preceduto, angoli e velocità che non sembrano poggiare su ciò che è successo prima, come venuti fuori dal nulla. Tutti quei colpi di Alcaraz sono eseguiti in posizione neutrale, da dietro la linea di fondo, come aveva fatto Djokovic. Solo che Federer la racchetta sull’ultimo dritto vincente di Djokovic l’aveva almeno messa, a New York Tsitsipas perde quei quattro punti vedendo passare accanto una palla irraggiungibile. Una mutazione che soppianta la precedente.
Ci sono stati molti incontri vinti con estrema aggressività da giocatori sfavoriti, che muovendosi solo su margini di rischio strettissimi sono riusciti a privare l’avversario esperto della sua tattica e capacità di difendere: Nadal in particolare è stato vittima ripetuta di partite all’arrembaggio, ad esempio contro Tsonga nel 2008 in Australia, Soderling al Roland Garros nel 2009, Rosol e Kyrgios a Wimbledon, nel 2012 e 2014. Ma Alcaraz non ha più smesso di giocare come aveva fatto contro Tsitsipas, perché non si era trattata di una partita all in in cui ha provato tutto, e tutto magicamente gli è riuscito. Alcaraz ha trasformato il gioco a basso margine di rischio, il cosiddetto low percentage game, in una velocità di crociera, in una nuova normalità. Ci è riuscito perché lo sostiene con una mobilità che a 19 anni appena compiuti attualmente è già la migliore del mondo. Sarebbe sufficiente a farne un giocatore completo per gli standard contemporanei, un eccellente baseliner come diversi altri in giro, ma la cosa sorprendente di Alcaraz è che si tratta soltanto di un aspetto del suo tennis. Ha una capacità di difendere già pienamente sviluppata, figlia dell’elasticità (piegamenti, scivolate, vincenti colpiti in recupero su una gamba sola) che un giocatore come Djokovic ha imposto alle generazioni successive; su questa coesistenza già risolta di difesa e attacco Alcaraz ha saputo poggiare una capacità di tocco, oggi insolita, che gli permette di andare a rete senza paura, non per chiudere un punto già vinto ma per cercare la palla con la fiducia di poter colpire una volée bassa che possa chiudersi ben angolata, oppure subito oltre la rete.
Ma è forse la palla corta il colpo di tocco che più fa la differenza con i rivali: nelle cinque partite prima della finale vinta a Miami (più giovane vincitore di sempre), Alcaraz ha usato la palla corta 59 volte vincendo il punto 51 volte, con una predilezione per il drop shot di dritto che è in genere meno utilizzato del rovescio. Uno dei pochissimi aspetti in cui, così giovane, non appare ancora compiuto è il servizio, che ancora non esprime una grande capacità di piazzamento e potenza. Ma compensa con il servizio in kick, cioè con rotazione in top spin, che rende la risposta estremamente difficile perché il rimbalzo sale subito alto sopra la spalla, soprattutto servendo da sinistra dove è già in grado di portare fuori dal campo l’avversario meglio del servizio a uscire di un mancino.
Foto di Josè Manuel Alvarez / Getty Images.
Quando Tsitsipas a 20 anni ha perso in semifinale contro Nadal a Melbourne nel 2019, il suo primo commento è stato che Nadal “ha il talento di farti giocare male”, frustrato perché il genio tattico e la tenacia di Nadal avevano sgretolato i suoi assoli offensivi, chiedendosi come aveva fatto Federer, che ha “un gioco simile al mio”, a batterlo molte volte. Dopo la sconfitta contro Alcaraz, più di tre anni dopo, ha detto semplicemente che non aveva mai visto nessuno colpire così forte e che all’inizio ci era voluto tempo per abituarsi a quel peso di palla. Ma in quel settimo game del quinto set, ore dopo che Tsitsipas avrebbe dovuto abituarsi alla nuova velocità di crociera imposta da Alcaraz, lo smarrimento sembrava lo stesso dell’inizio. Ci ha perso anche le altre due volte che l’ha affrontato dopo New York, ha anche detto che gli ricorda l’entusiasmo puro che sentiva all’inizio della sua carriera. Tsitsipas ha solo 23 anni, neanche fosse un veterano.
Quando invece è stato Alcaraz a affrontare Nadal, è andata diversamente: l’anno scorso a Madrid ha vinto Nadal 6-1 6-2, poi quest’anno hanno giocato in semifinale a Indian Wells e Nadal si è rotto una costola per batterlo al terzo set. Hanno giocato di nuovo a Madrid nei quarti il mese scorso e questa volta è stato Alcaraz a vincere in tre set, anche dopo essere caduto con tutto il peso del corpo sulla caviglia destra. Il giorno dopo, con la caviglia nastrata, ha battuto Djokovic in semifinale in tre ore e mezza. L’ha battuto 7-6 al terzo, dopo aver perso il primo set. Ancora 24 ore dopo, ha vinto in finale 6-3 6-1 contro Zverev, che insieme a Tsitsipas fa parte di quella generazione che avrebbe dovuto prendere il posto dei Big Three e che ora deve riprogettare il proprio gioco per affrontare questo nuovo, mutante avversario che tutti vedono come unico altro favorito al Roland Garros a parte Djokovic e Nadal.
Tsitsipas, Zeverev, Medvedev e gli altri next gen che finalmente si stavano pian piano prendendo tutta la top 10, a 18 anni non erano neanche vicini ai livelli di gioco e classifica di Alcaraz. Non accadeva dal 2005 di Nadal con il suo primo Roland Garros a 19 anni, anche se da qualche tempo sembra che la scienza sportiva, dopo anni di trionfo degli over 25, stia di nuovo imparando a generare tennisti teenager di alto livello (Sinner, per esempio), ricordando i tempi dei campioni junior anni ’80 e ’90 come Michael Chang e Boris Becker, oppure Jennifer Capriati, Monica Seles, Martina Hingis. Lo dimostra anche la numero uno della WTA Iga Swiatek, che a soli 20 anni ha anche lei mutato il tennis femminile, esprimendo una capacità di attacco e difesa soffocanti che stanno creando un divario sconcertante col resto delle avversarie. Interessante che l’ultima che l’abbia saputa dominare in tempi recenti sia stata Ash Barty, che le ha ceduto il numero uno ritirandosi pochi mesi fa a 25 anni. Barty, espressione di un tennis classico basato sulla costruzione del punto, su variazioni di tocco e aggressività, ha espresso un’unione di intelligenza e talento che dialoga soltanto con quella di Federer. Un tempo si chiamava tennis all-court, nel senso che si componeva di tutti gli ingredienti del gioco: volée, fondocampo, angoli, servizio potente etc. Swiatek, che appartiene alla linea evolutiva di Djokovic, ha sostituito la varietà all court con la capacità di essere ovunque sul campo, con una velocità e coordinazione che sfuggono alla comprensione.
Sarà per questo che IMG, società che da molto tempo scopre e rappresenta molte star del tennis, ha creato un torneo a inviti dedicato a tennisti under 12. Si è tenuto ad Atene qualche settimana fa, un reportage del New York Times ne racconta il bizzarro intreccio fatto di sogni, genitori imprenditori, executive Nike e agenti in cerca della futura star prima che se la rubi qualcun altro. C’è fretta di ripopolare il mondo del tennis: tra poco Federer, Nadal, Dojokovic, Murray e le sorelle Williams saranno ufficialmente fuori dai giochi e bisogna creare nuove icone. Proprio come Alcaraz, che ad Atene ha giocato un’esibizione. C’era anche suo fratello Jaime, aspirante tennista di 10 anni. Jaime ha perso 6-1 6-0 contro Teo Davidov, un ragazzino nato in Bulgaria e cresciuto in Colorado. Teo gioca solo di dritto, con entrambe le mani. Nato destro, è stato allenato dal padre, che in un video racconta di aver scelto di fargli praticare i due dritti per stimolare entrambi gli emisferi cerebrali. Poi racconta che Teo fa anche sollevamento pesi olimpici. Teo conferma l’entusiasmo del padre, dicendo che vuole diventare “il migliore nel tennis, e il migliore nella vita”. La mutazione continua.