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Foto di Alberto Pizzoli / Getty Images
Calcio Fulvio Paglialunga 1 dicembre 2017 8'

Dove ha fallito Tavecchio

Era stato eletto per puntare sui giovani con un modello ispirato a quello tedesco, ma cosa ha fatto davvero in questi anni?

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«Ripartiamo dai giovani», nel calcio, è il «ridurremo le tasse» della politica. Si dice, si promette, ma non si fa. O comunque mai bene. Carne da campagna elettorale, un po’ di fumo e tanto “effetto annuncio” per grandi passi avanti che in realtà non lo sono.

 

Parliamo dei Centri Federali, ad esempio: uno dei vanti possibili della Figc di Tavecchio, il punto di forza su cui ha sempre puntato l’ex sindaco di Ponte Lambro per rilanciarsi quando l’immagine era appannata. «Stiamo facendo i Centri Federali», diceva con un’enfasi come se nessuno a parte lui stesse comprendendo la svolta epocale che annunciava. Lo ha detto da subito, già all’indomani del pessimo Mondiale in Brasile, quando si dimise Abete da presidente della Figc e cominciò la corsa al trono di capo della Federazione. E lo ha messo nel suo primo programma, come lancio: «I Centri di Formazione Federale, infrastrutture moderne, sicure e soprattutto efficienti, rappresentano la base di partenza – già realizzata dalla Lega Nazionale Dilettanti – che consentirà alla Figc di intervenire in maniera diretta e senza il perseguimento di interessi di parte affinché si realizzi una formazione e uno scouting ancora più approfondito di quello attuale».

 

La base sarebbero stati i venti Centri di Formazione Federale «in via di ultimazione» della Lnd, quindi una sorta di travaso da una Lega gestita da Tavecchio a una Federazione gestita da Tavecchio. Ma niente di male, se funziona. Certo è che dal 2014 al 2016 (quando si è di nuovo votato per il presidente della Figc) il progetto non era ancora pienamente decollato. Venti centri in affitto in due anni, e con le nuove elezioni il programma si è fatto più in grande: «A pieno regime saranno attivati 200 Centri Federali (…) Con un budget modulabile che a regime sarà di 10 milioni annui, questo programma rappresenta il più grande investimento economico federale mai approvato».

 

Era tutto un parlare di Germania e del modello da imitare, di giovani talenti allevati dalla Federazione che sarebbero diventati i nazionali del futuro proprio come i tedeschi. Poi, però, devono funzionare.

 

Cosa vuol dire modello tedesco

 

Questo gran parlare degli altri, dovrebbe avere come premessa una profonda conoscenza del modello da cui prendere ispirazione. Poi, se si vuol davvero investire su questa idea, bisognerebbe migliorarlo e adattarlo al proprio contesto.

 

Diventa quindi necessario raccontare come funzionano, in Germania, i Centri Federali, autentico laboratorio per talenti che hanno reso possibile la rinascita di una Nazionale praticamente dal nulla, visto che quella che aveva giocato agli Europei del 2000 era riuscita a farsi eliminare al primo turno senza nemmeno una vittoria e al mondiale in casa del 2006 aveva fallito.

 

Le basi per ripartire sono state create tra il 2002 e il 2004, con un programma rigoroso e capillare che prende il nome impronunciabile di Talentförderprogramm (letteralmente: programma di raccolta dei talenti). Si tratta di 336 scuole calcio federali, diffuse in modo scientifico affinché ogni talento ne abbia una a pochi passi (l’idea è che nessuno di essi sia distante più di 40 chilometri dal centro) in cui si raccolgono ventiduemila ragazzini tra gli 11 e i 14 anni. Ma ne vengono visionati, con una capillare operazione di scouting, 600mila all’anno da un migliaio di osservatori, per il principio espresso secondo cui «se un talento nasce tra le montagne noi ce lo andiamo a prendere».

 

È solo una parte del programma, che poi prevede allenamenti sulla tecnica e tattica individuale ma senza ruoli, con chiunque che possa giocare in qualsiasi ruolo. Ma dopo i 14 anni, se promette ancora come prometteva da piccolo, il talento finisce in uno dei 45 centri di eccellenza (le società di Bundesliga, Bundesliga 2 e terza serie, che devono rispettare dei parametri imposti dalla Federazione) fino ai 18 anni, mentre contemporaneamente le Elite-schulen des Fussballs, 35 scuole di elite, garantiscono un piano di studi che tiene conto degli impegni calcistici e che permetta a chi non riuscirà a sfondare nel mondo del calcio di avere un’istruzione valida.

 

Il flop italiano

 

Visto il modello tedesco, a cui Tavecchio ha sempre detto di far riferimento, guardiamo quello italiano: i Centri Federali, nei piani del presidente dimissionato della Figc, dovevano essere 200 entro il 2020 con un investimento di otto milioni di euro. Al momento sono 30. Alcuni, come detto, prestati dalla Lnd, quindi non di nuova formazione; quasi tutti gli altri sono in strutture in affitto, generalmente usate da club dilettantistici. Ma il punto non è quali siano le strutture, occorrerebbe ragionare sulla funzionalità di un progetto che ha un cronoprogramma così blando secondo il quale ci sono voluti tre anni per trenta Centri e adesso ne dovrebbero nascere 170 nello stesso arco di tempo, senza che si siano avvertiti i presupposti.

 

Ma volendo fermarsi a quei trenta, funzionano? Tre ore a settimana, il lunedì, divisi per gruppi da un’ora e mezza. Con giocatori che arrivano dai club dilettantistici e quindi sono eventuali talenti da allevare ma già nel circuito e non ragazzi strappati alla dispersione grazie allo scouting (che non è previsto nel programma dei centri federali). In pratica, al contrario del motto tedesco: se un campioncino nasce tra i monti, rimane tra i monti.

 

Per intenderci, nella stagione 2016/17, in tutto sono stati effettuati sedici allenamenti negli allora venti centri federali e in questa stagione non si è ancora iniziato. Sembra maquillage, qualcosa di buono da mostrare ma che non dice tutto, uno spot con poco impegno reale nonostante quattro grandi sponsor (Puma, Ferrero, attraverso il progetto di responsabilità sociale Kinder +Sport Joy of Moving, FIAT e Eni) per sostenere il progetto. Slide a parte, si percepisce l’autentica assenza di un piano che non sia quello di creare posti di lavoro per gli allenatori (cosa che a Tavecchio è valsa il sostegno di Ulivieri e la rielezione). O, se un piano c’è, resta sulla carta. O nelle parole. «Ci ispiriamo ai modelli di allenamento dell’Ajax e dei centri svizzeri. Ma abbiamo cercato di prendere il meglio da tutte le esperienze europee: Belgio, Spagna, Inghilterra e Francia», aveva detto Maurizio Marchesini, coordinatore tecnico nazionale del progetto. Aggiungendo, erano gli inizi dello scorso ottobre, che «Il nostro obiettivo è creare giocatori “smart”, agili e veloci, alla Insigne». Proprio l’Insigne che non ha trovato posto, qualche giorno dopo, nella partita che ha segnato il destino della Nazionale. «Si tratta di un progetto innovativo che parte dall’analisi delle esperienze sviluppate dalle principali Federazioni europee e in particolare da quella tedesca, partita nel 2001, cui ci siamo ispirati», aveva detto il dg federale Michele Uva all’inaugurazione del primo dei Centri Federali, quello di Firenze, a ottobre 2015.

 

La stessa enunciazione di princìpi si trova nel bilancio integrato della Figc. Le parole dicono che in dieci anni è previsto il monitoraggio di oltre 830mila giovanissimi calciatori (che è però il dato totale dei ragazzi che svolgono attività giovanile, e peraltro in Germania si parla di 600mila monitorati all’anno), di cui 110mila passati dai Centri, ma non si sa esattamente quanti soldi siano stati investiti nel “più grande investimento federale”, considerando anche che dai diritti tv la Figc trattiene l’1 per cento dei fondi da destinare a vari usi (compresi i centri federali). In Germania la DFB ha speso nei primi dieci anni di questa attività circa 300 milioni. In Germania, in più, una quota dei diritti tv viene distribuita in base alla valorizzazione dei giovani, come premio per le società che osano (oltre ai vincoli di investimenti nel settore giovanile.

 

Nei pomposi annunci di Tavecchio si percepisce la mancanza di praticità e di visione. Cosa vuol dire avere centri federali solo per la fascia d’età tra i 12 e i 14 anni e per periodi così brevi? Manca un progetto globale, perché ad esempio al compimento del 15esimo anno non c’è un percorso che guidi (ecco, la Germania lo fa) il ragazzo in un ulteriore avvicinamento al professionismo e in una ulteriore crescita tecnica.

 

Ecco perché i centri federali che dovevano essere la svolta hanno funzionato poco e male e, soprattutto – anche concedendo tempo a un’iniziativa partita sì in clamoroso ritardo rispetto alla Germania, ma comunque partita da poco – non c’era da aver fiducia. Visto così, non sembra un progetto completo in grado di recuperare talenti e accompagnarli fino alla serie A e alla Nazionale.

 

E le squadre B?

Nella Germania cara a Tavecchio e un po’ a tutti quelli che vogliono vedere un modello positivo di un rilancio del calcio nazionale che passi dai giovani, esistono le squadre B. Esistono, in realtà, in tutti i paesi che hanno deciso di puntare sul talento.

 

In Italia il massimo che si è riuscito a strappare nella campagna elettorale che ha portato al secondo mandato dell’ormai ex presidente federale, sono poche righe in cui si dice che «oltre alle seconde proprietà e in una prospettiva di riforma complessiva e di risanamento e contenimento numerico dell’intero settore professionistico, occorre definire le modalità di funzionamento delle “seconde squadre”». Occorre definire le modalità, tutto qui. E dopo l’elezione dell’argomento non si è più parlato, dando esattamente la stessa idea del momento in cui è stato scritto sul programma: una concessione verbale fatta ad Andrea Agnelli, nel frattempo passato in maggioranza. Poi se ne sarebbe parlato. Perché, ad esempio, nel primo programma di Tavecchio non c’era alcun riferimento.

 

Il punto è che le seconde squadre, se si vuole dare un senso alla crescita dei giovani, sono un presupposto necessario per completarne l’inserimento e, forse, anche per accelerarlo. Sono una zona cuscinetto tra la fine del campionato Primavera, che non ha una competitività all’altezza, e il professionismo reale: i giovani, nelle seconde squadre di club di Serie A, vengono allenati, allevati e educati a metodi che sono quelli dei grandi, arrivano più pronti al momento del “lancio”.

 

Per fare un esempio, che tanto per cambiare viene da altri paesi, nell’ultima giornata del campionato olandese l’Ajax ha vinto 5-1 contro il Roda, con una tripletta di Justin Kluivert che a poco più di 18 anni si è già ritagliato un posto in prima squadra, dopo l’esordio a 17 anni e 8 mesi in Eredivisie, ed è già nazionale U-21. Kluivert jr non è nato sotto un cavolo accidentalmente finito in un campo di calcio: si è formato nello Jong Ajax, che è la squadra riserva degli olandesi e gioca in Eerste Divisie, la loro serie B. Certo, non tutti sono d’accordo (in Inghilterra ad esempio sono contrari perché rischierebbe di compromettere la profondità del loro calcio, con squadre nobili, con un bacino di utenza grande e attrezzate da un punto di vista economico, anche nelle serie inferiori) ma in Italia non si è neanche discusso del contesto in cui una simile innovazione si inserirebbe. Per questo delle squadre B se ne parla al massimo, lo si sintetizza in poche righe di un programma in campagna elettorale. Un «combatteremo l’evasione fiscale» più educato, adeguato al contesto.

 

Nemmeno i numeri sono a favore

Ma tutto questo parlare di giovani, in attesa che gli investimenti diventassero veri, poteva almeno servire come “moral suasion” verso le società, come missione per la Nazionale. Un ringiovanimento del calcio almeno come tentativo, nell’attesa dei frutti sul lavoro dei ragazzi. Ma non ci sono stati, nemmeno quelli: l’ultima Nazionale con Prandelli allenatore, quella prima dell’arrivo di Tavecchio, aveva un’età media di 28 anni. Dopo tre anni di gestione delle Nazionali da parte del nuovo (ora vecchio) presidente federale si è arrivati al disastro con la Svezia con una squadra dall’età media di 28,6, che era la stessa dell’ultima formazione messa in campo da Conte.

 

Dopo tre anni la Nazionale è diventata più vecchia e in campo c’erano ancora Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Darmian, Parolo e Immobile. Non solo nessun rinnovamento, ma anzi una squadra più vecchia. Perché la strategia di ringiovanire il calcio italiano partendo dalle Nazionali si è rivelata solo uno slogan, qualcosa da mostrare come fosse un’intenzione vera. Ad esempio, gli stage: quattro appuntamenti con convocazioni sperimentali per osservare più da vicino i giovani e avere poi la possibilità di portare i migliori nella Nazionale dei grandi. Il concetto era farli vedere bene a Ventura, farli seguire dal tecnico che avrebbe dovuto avere il coraggio poi di lanciarli, una volta testata l’adattabilità ai propri principi. Il risultato è che in quattro stage fatti a novembre scorso, febbraio, aprile e maggio (con amichevole finale con il San Marino) sono passati 46 giocatori diversi da Coverciano e, di questi, nei convocati per la Svezia c’erano solo Gagliardini e El Shaarawy, non proprio due colpi tirati fuori dal cilindro, né i segni di un’innovazione.

 

L’esatta metafora delle promesse sul rilancio dei giovani: tanto movimento per poco. Quasi nulla. Anzi, visto che bisogna ricominciare daccapo, diciamo proprio nulla.

 

Tags : carlo tavecchiofigcmichele uvanazionale italiana

Fulvio Paglialunga è nato a Taranto, vive a Roma. Scrive per la tv ed è autore dei libri “Un giorno questo calcio sarà tuo. Storie di padri e figli, e di pallone” (Baldini&Castoldi, 2017) e “Ogni Benedetta Domenica" (ADD editore, 2013), tratto dalla trasmissione ideata e condotta su Radio Rai.

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