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Giuseppe Pastore
Cosa andò storto tra Carlo Ancelotti e la Juventus
28 set 2018
28 set 2018
Storia del fallimento di Carletto in bianconero.
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Giuseppe Pastore
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“Un maiale non può allenare” compare subito, alla prima partita. Anzi addirittura prima, nel settore ospiti dello stadio Garilli di Piacenza, a qualche minuto dal calcio d'inizio dell'esordio di Carlo Ancelotti come allenatore della Juventus. Certo, la frase è estrapolata da un contesto semantico molto più articolato, in cui la metafora suina era solo una parte di un concetto più ampio: “Un maiale non può allenare, Ancelotti vattene. Moggi maiale”, con disegnato accanto un bel faccione tondo da porcello. Rispettoso com'è sempre stato dell'affabile creatura dal colorito rosé, alla quale tributerà un omaggio indiretto anche nel titolo dell'autobiografia Preferisco la coppa, Ancelotti non fa un plissé, limitandosi a vincere per 2-0, con le firme non troppo prestigiose di Mirkovic e Birindelli.

 

Nelle stesse ore l'Atletico Madrid dà il benservito al suo mentore Arrigo Sacchi, la cui carriera si è ormai irrimediabilmente avvitata in fantasmi privati e pubbliche paranoie: sic transit gloria mundi. Per la prima volta nel 1999 la Juventus conclude una partita senza subire gol, dopo averne concessi a Bari, Venezia, Perugia e Cagliari fino al definitivo 2-4 interno contro il Parma che ha propiziato il de profundis di Marcello Lippi: “Se il problema sono io, me ne vado”, e nessuno ha mosso un dito per opporsi a dimissioni che altre volte sarebbero state ritirate. La novità più rilevante dei primi 90 minuti juventini di Ancelotti è l'accettare l'eccezionalità del Pallone d'Oro Zidane, fino a lì autore di una stagione orripilante, e schierarlo trequartista, proprio lui che a Parma aveva costretto Zola all'esilio al Chelsea in nome del 4-4-2. Questa la formazione titolare, schierata col 4-3-1-2: Peruzzi; Mirkovic, Iuliano, Montero, Di Livio; Conte, Deschamps, Davids; Zidane; Henry, Esnaider.

 



 

Due anni e quattro mesi dopo, pur vincendo 2-1 sull'Atalanta in una partita che finisce incidentalmente anche nel piccolo cult generazionale “Santa Maradona”, l'ultima Juve di Ancelotti si arrende all'evidenza di uno scudetto romanista annunciato da mesi, e che pure quasi quasi stava per scivolare di mano a Capello. L'uomo di Reggiolo, attorno al quale fioriscono sempre poco fantasiose metafore gastronomiche dal culatello al tortellino, è un dead man walking da parecchie settimane, almeno sin da quando hanno iniziato a girare, mai smentite, voci di abboccamenti, incontri, pranzi e strette di mano tra la dirigenza bianconera e Marcello Lippi, il grande cavallo di ritorno che nella “centrifuga Inter” (copyright Giovanni Trapattoni) ha rischiato l'annegamento. Lo sguardo con cui Ancelotti si presenta alle ultime interviste e conferenze stampa è sì, quello del marito tradito, ma da una moglie con cui si era illuso di stare davvero bene solo per pochi mesi. “La Juventus non l'ho mai veramente amata”, avrà a dire più volte in futuro, e Ancelotti non è proprio il genere di persona che sostiene il falso solo per rendersi spiacevole.

 

Gli 853 strani giorni di Carlo Ancelotti alla Juventus hanno la suggestione e le perturbazioni di un disco dei Pink Floyd. Oppure sembrano usciti direttamente da “Arrival”, lo splendido e complesso film di fantascienza di Denis Villeneuve in cui a un certo punto non si capisce più se il tempo scorra in avanti, all'indietro oppure segua una trama circolare. Sono ventotto mesi fitti di luoghi e personaggi che ritornano o che ritorneranno, cattivi presagi, false note, false piste, errori necessari, meschinità gratuite, colmo paradossale per un allenatore che si è sempre imposto un'immagine di serenità e piacevolezza.

 


Cosa accade nella testa e nella pancia di un gruppo di giocatori che si butterebbe nel fuoco per un allenatore e poi assiste incredulo alle sue dimissioni, chiedendosi perché la società le abbia accettate con tanta fretta e furia? Come minimo si fa delle domande, prende tempo e aspetta gli eventi.

 

Nona in classifica a 10 punti dal quarto posto che per la prima volta dà accesso ai preliminari di Champions League, la primissima Juventus di Ancelotti è già naturalmente protesa verso le partite del mercoledì. Ancelotti asseconda questa volontà lasciando ripetutamente a riposo Zidane e così rimedia sconfitte in campi periferici come Empoli e Salerno con il miraggio di una Coppa a cui si accosta con spensieratezza fanciullesca: “Pensate se fossi proprio io a vincerla”, aveva confidato ai parenti al momento di lasciare la tenuta di Felegara per andare a Torino. Se la gioca benissimo, va detto. Supera le forche caudine del temibile (allora sì) Olympiakos dominando a Torino ad onta del misero 2-1 finale, e salvandosi di mestiere ad Atene con una zampata di Antonio Conte. Il capolavoro a metà è la semifinale d'andata a Old Trafford, stadio in cui Carletto scriverà lunghi capitoli da raccontare ai nipoti. Lo 0-1 all'intervallo, ancora firmato Conte, sta finanche stretto ai bianconeri, che sprecano con Inzaghi e Pessotto le possibilità di raddoppio.

 

Il prevedibile assedio dei Red Devils è gestito alla perfezione, ma bisogna sapere che, come una lunga estate molto umida, nel cuore dell'era Ferguson i quindici minuti finali a Old Trafford sono percepiti come venti, venticinque, mezz'ora; e proprio qui, all'ennesimo mischione, arriva il tap-in di Giggs a dare a tutti l'appuntamento al Delle Alpi. Dove Ancelotti scopre, semplicemente, che Alex Ferguson e il Manchester United sono due cose ancora troppo grandi per lui, che la grande illusione dell'uno-due griffato Inzaghi nei primi dieci minuti serve solo a sentire più dolore al momento della caduta, scandita dai gol del Roy Keane più grande di sempre e dei Calipso Boys Dwight Yorke e Andy Cole.

 


Dagli highlights di Juventus-Manchester United si può anche apprezzare la simpatica abitudine di Salvatore Bagni, tanto benvoluto da tutti i telecronisti per la sua tendenza ad anticiparli sui gol dicendo semplicemente “rete”.


 


L'inutile appendice del campionato scivola via nella vacua rincorsa a un piazzamento UEFA, un traguardo non particolarmente eccitante per un gruppo reduce da tre finali e una semifinale Champions in quattro anni. La strada per l'Europa minore passa attraverso le porticine di uno spareggio andata e ritorno contro l'Udinese di Guidolin. Gara-1 al Friuli termina 0-0, con una traversa timbrata da fuori area da Henry sulla quale è lecito chiedersi se avrebbe potuto cambiare la storia juventina dell'attaccante francese.

 

Nel corso della stagione il giovane Titì ha inciso solo marginalmente, schierato a centrocampo largo a sinistra nel 4-4-1-1, e sembra più che altro un esterno estremamente fumoso, niente più che una splendida ipotesi. Così in coppa UEFA ci vanno i bianconeri più piccoli, che al Delle Alpi, dopo il vantaggio di Inzaghi, sono bravi ad approfittare di una dormita di Tudor per il gol di Paolino Poggi che vale l'1-1 finale. Quattro anni dopo l'ironia della sorte si svelerà in tutto il suo fascino, quando per Ancelotti il doppio pareggio andata/ritorno non varrà un modesto sesto posto, bensì una finale di Champions...

 

Da un altro doppio pareggio – questa volta a risultati invertiti - parte l'estenuante stagione 1999-2000, che inizia con il raduno del 1° luglio propedeutico alla laboriosa Coppa Intertoto, la Salerno-Reggio Calabria delle competizioni UEFA. Una Juve imballatissima rischia grosso persino contro gli sconosciuti rumeni del Ceahlaul Peatra Neamt, a cui la Juventus strappa l'1-1 in trasferta con un tiraccio di Tacchinardi prima di qualificarsi grazie a un balbettante 0-0 nel feudo amico di Cesena. La star dell'estate juventina è per forza di cose Alex Del Piero, attesissimo al rientro dall'infortunio al ginocchio e salutato da ovazioni bibliche quando va in gol al secondo turno contro il Rostov, e ancora più osannato quando decide il Trofeo Berlusconi contro il Milan, per un decennio abbondante l'appuntamento must dell'estate italiana. La qualificazione in UEFA arriva senza patemi, ma la realtà e la routine di una stagione lunga dieci mesi e mezzo saranno molto meno entusiasmanti: non troppo in sintonia con i numeri 10 nella prima parte della sua carriera, Ancelotti dovrà lungamente fare i conti con la complicata abulia del suo attaccante più celebrato.

 


Test per juventini di ferro: quanti di loro hanno avuto il fegato di guardare l'intera Juventus-Ceahlaul 0-0, Coppa Intertoto 1999?


 


Le big spendono e spandono. Il Milan si regala Shevchenko, l'Inter paga Vieri a peso d'oro, la Lazio risponde con Veron e Simeone, la Roma prende Montella, il Parma mette le mani sul capocannoniere Amoroso, persino la Fiorentina tenta l'all-in scritturando Chiesa e Mijatovic, match-winner di una finale di Champions solo due anni prima. Nonostante sia reduce da un settimo posto, la Juventus rimane in sordina puntando sull'orgoglio ferito da una stagione da incubo, su uno Zidane un po' meno gattone e naturalmente su Del Piero. I correttivi sono minimi: c'è da sostituire Peruzzi, volato da Lippi all'Inter, e si va su Van Der Sar dell'Ajax, che si rivelerà olandese non così volante. C'è da migliorare le rotazioni in attacco e si sceglie lo spilungone Kovacevic; Henry viene ceduto all'Arsenal per 27 miliardi, senza che da corso Galileo Ferraris si sollevi la minima voce di rimpianto. Arrivano Bachini dall'Udinese e il nigeriano Oliseh, strappato alla Roma, ma l'acquisto migliore sarà anche quello meno celebrato, il tornante Zambrotta dal Bari.

 

La Juventus 1999-2000 è una squadra molto più conforme all'originale lippiano. Perlomeno in campionato, dove Ancelotti può bearsi del genio di uno Zidane a tratti poetico, come nell'azione del gol alla Reggina, quando manda nello Stretto tre avversari con una semplice finta di corpo. La difesa ha ritrovato solidità, il centrocampo Conte-Tacchinardi-Davids è un ottimo mix di cattiveria e intensità, l'elettrico Inzaghi sopperisce ai gol di Del Piero che arrivano solo su rigore. Ma i fantasmi dei black-out futuri possono apparire di colpo, come succede a Vigo, quarti di finale di ritorno di coppa UEFA, dove la Juventus vanifica l'1-0 dell'andata con una prestazione che lascia esterrefatti. Il Celta segna quattro gol e non ce n'è uno normale: una difesa che ha subito solo 11 gol in 24 partite affonda inspiegabilmente, Van der Sar in testa, sulle rive dell'Atlantico.

 

Quattro anni più tardi, in Champions con il Milan, Ancelotti tornerà in Galizia – a La Coruna che da Vigo dista meno di un'ora di macchina - solo per incappare in un'altra serata nerissima, conclusa con lo stesso drammatico punteggio. Il 4-0 del Balaidos accende per la prima volta la spia d'emergenza in una stagione piuttosto tranquilla e positiva.

 


È il Celta Vigo dei due russi Karpin e Mostovoi, delizie per il pubblico nostalgico.


 


La rimonta subita l'anno prima dal Manchester United era stata ancora più bruciante, ma accettata molto meglio dal momento che la banda di Ferguson era evidentemente superiore. Il crollo di Vigo invece spande attorno al pacioso Carletto un cattivo odore: ma non è che questo Ancelotti...?, lasciando in sospeso la sentenza, senza neanche finire la frase.

 

A otto giornate dalla fine la Juventus ha nove punti di vantaggio sulla Lazio, che sta pagando la concentrazione feroce verso una Champions League più logorante che mai. In mezzo c'è ancora lo scontro diretto al Delle Alpi, e dietro tutta una serie di occasioni mancate che al momento non sembrano fattori di turbamento.

 

Eppure i punti, come i centimetri del famoso monologo di Al Pacino – Tony D'Amato in

, sono intorno a noi, stanno dappertutto. Stanno nel gioco di gambe e nella rasoiata sul secondo palo di Hernan Crespo il 9 gennaio 2000, in quello che i suoi tifosi hanno votato come “gol del secolo” e che apre il terzo millennio della Juve, raggiunta sull'1-1 al Tardini da un Parma ridotto in nove. Stanno nel balordo pomeriggio di Lecce in cui a Lima e Conticchio non par vero di poter infierire su questa specie di Juventus; stanno nella punizione rasoterra di Gionatha Spinesi che buca la barriera e sorprende Van der Sar inchiodato sulla linea di porta, a Bari, nei minuti finali. Stanno nella dormita collettiva che porta al pareggio di Mohamed “Mimmo” Kallon, il centravanti con la maglia numero 2 che proprio al Delle Alpi regala alla Reggina il suo primo storico punto in serie A.

 

Stanno nei gol prima sbagliati e poi neanche più cercati, nell'apatia di Alessandro Del Piero che ci metterà trentatré partite prima di segnare finalmente su azione. Stanno nella cattiveria da bulletto di scuola media con cui Inzaghi anticipa proditoriamente il collega Alex davanti alla porta vuota del “Penzo” di Venezia, costringendo la società a mettere in piedi un teatrino un po' penoso in cui i due si giurano eterna amicizia. Quando la Lazio vince lo scontro diretto con gol di Simeone (i due si ritroveranno nel 2014 in una finale di Champions che per il Cholo sarà fonte di grandi amarezze) e si riporta a -3, la sarabanda di occasioni sprecate raggiunge lo zenit e si mischia col fatalismo, una sensazione da torinisti, da romanisti, da interisti, ma non certo da juventini.

 

La paura di una sconfitta inaudita paralizza i muscoli bianconeri in un caldo pomeriggio di sole a Verona, dove il cappuccio del boia è indossato dall'insospettabile Fabrizio Cammarata, attaccante da one-hit-wonder con lontani trascorsi nella Primavera juventina. La settimana dopo, in casa contro il Parma, si sblocca finalmente Del Piero ma l'intero movimento insorge per il gol regolare spudoratamente annullato al 90' a Cannavaro dall'arbitro De Santis, romano e perciò ancora più indigeribile per i tifosi laziali, che organizzano un corteo funebre alla vigilia di Lazio-Reggina, ultima giornata. Qui il mite Carletto capisce che la situazione è troppo sporca e scivolosa per le sue manone, e lascia che sia.

 

Lascia senza colpo ferire che la Juventus butti via il primo tempo a Perugia, mentre la Lazio va già sul 2-0 e si dispone in posizione da spareggio. Lascia cadere tanta di quella acqua come non se n'è mai vista in un campionato intero, e lascia la scena a Pierluigi Collina, che in un vecchio Juventus-Parma del 1997 si era già dimostrato disponibile a forzature di regolamento che ne esaltassero carisma e decisionismo: aveva allontanato Ancelotti non indicandogli semplicemente la via degli spogliatoi, come da prassi quando si caccia un allenatore, ma addirittura mostrandogli il cartellino rosso. Nel pantano del Curi Collina decide di aspettare oltre ogni limite, adeguandosi all'eccezionalità della situazione. Del tutto impreparato ad affrontare il lato più grottesco e perfido del pallone, Ancelotti affonda con tutte le scarpe, sentendo piantarsi tra le scapole la coltellata del gol di Calori, una sensazione che lo accompagnerà per almeno quattro anni, resistendo anche all'estasi di Manchester 2003. Il filo sottile tra Ancelotti e la Juventus si spezza qui; la stagione che segue sarebbe degna dei versi di Vasco Rossi. “Ci limitiamo a vivere/dentro nello stesso letto/un po' per abitudine/o forse un po' anche per dispetto”.

 


Il romanista Mazzone consegna lo Scudetto alla Lazio, uno dei side plot più gustosi del calcio italiano di fine millennio.


 


L'orribile stagione 1999-2000 di Del Piero vive il suo culmine negli sciagurati quaranta minuti di Rotterdam, finale europea Italia-Francia, quando si divora per due volte l'occasione del 2-0, prima che arrivi Wiltord. Moggi & co. sentono puzza di bruciato e rinforzano l'attacco acquistando dal Monaco proprio l'autore del golden gol, David Trezeguet.

 

Il resto del mercato è francamente trascurabile, essendo composto dall'onesto Paramatti, terzino bolognese con connotati da spadaccino, nonché uno dei peggiori acquisti della storia della Juventus: Fabian O'Neill, uruguaiano ben poco provvisto di garra charrùa, che si farà notare per i malanni più disparati – una volta, anche le vesciche ai piedi - che affioreranno puntualmente il sabato, dopo una settimana di allenamenti regolari. A febbraio, la ciliegina sulla torta sarà il brasiliano Athirson.

 

Nonostante il finale-shock di Perugia, la società assicura ad Ancelotti sonni tranquilli: in fondo ha preso la Juventus da un settimo posto e l'ha riportata ai gironi di Champions. Ma l'amore che strappa i capelli è perduto ormai, ammesso che sia mai esistito. In Europa succedono cose inconcepibili: quando mai una squadra con la tradizione e il codice nobiliare della Vecchia Signora si concede un 4-4 in trasferta come quello di Amburgo, prima partita di girone, dopo essere stata in vantaggio 1-3 a mezz'ora dalla fine? Segna persino Hans-Jorg Butt, primo portiere della storia a fare gol ai bianconeri (curiosamente ci riuscirà altre due volte con due squadre diverse, il Bayer Leverkusen e il Bayern Monaco). È l'inizio di un girone delle streghe che precipita nel grottesco negli ultimi 180 minuti, quando si arriva al dunque.

 

Ai tifosi juventini il mite Amburgo evoca ricordi orribili di una finale persa contro ogni pronostico (vedi capitolo 6), ma per certi giocatori dalle doti sopra la media deve aprire anche squarci premonitori sul futuro, una specie di shining. Non si spiega altrimenti il gesto di Zidane, che sullo 0-1 sceglie la via dell'harakiri centrando con una testata il volto di Kientz, costringendo l'arbitro Dougal a cacciarlo. La Juve rimane quindi anche in 9 (espulso Davids) e perde 1-3, aprendo nuovamente baratri vertiginosi sulla propria stabilità nervosa, suggeriti anche dal sopracciglio di Ancelotti che ormai sta raggiungendo vette himalayane.

 


La testata 2000 di Zidane è un capolavoro di coordinazione e precisione, che coglie l'avversario in pieno volto. Un capolavoro, se paragonata alla testata 2006.


 


A causa delle Olimpiadi di Sydney il campionato è iniziato solo il 30 settembre ed è appena alla quinta giornata quando la Juventus – che nel frattempo è già stata eliminata in coppa Italia dal Brescia - è subito chiamata a giocarsi mezza stagione a casa del Panathinaikos. Nella gestione Ancelotti i bianconeri sono già alla terza visita all'Olimpico di Atene (le altre due contro l'Olympiakos), stadio che evoca gli spettri della finale 1983 (quella del gol di Magath) e che con Ancelotti sarà molto più benevolo nel 2007.

 

Alla Juventus potrebbe anche bastare il pareggio, se l'Amburgo non vincesse in casa contro il Deportivo già qualificato (e infatti finirà 1-1). Ma il breakdown mentale è ormai regola di vita e questa volta coinvolge anche un portiere quantomeno traballante come Van der Sar, uccellato senza pietà da una punizione da 30 metri di Paulo Sousa, uno dei tanti che in Europa si sono presi gioco della loro ex squadra. Nella ripresa, dopo il pareggio di Inzaghi, seguono altre numerose catastrofi, che porteranno l'indomani i giornali poco originali a parlare di “tragedia greca”: Van der Sar causa un rigore e viene espulso, il Pana sfrutta il contropiede e si porta sul 3-1, Kovacevic completa la frittata con l'ennesimo cartellino rosso. La Juventus termina ultima, fuori anche dalla consolazione della coppa UEFA.

 

A fine partita, ancora nella pancia dello stadio, Ancelotti presenta le dimissioni ai suoi dirigenti, senza preannunciarle alla stampa come il suo predecessore: forse è anche per questo che Moggi, Giraudo e Bettega lo invitano a tornare sui suoi passi. Al rientro all'aeroporto di Caselle, alle quattro e mezza del mattino, la truppa bianconera trova incredibilmente ad aspettarli due tifosi con intenzioni bellicose, che cercano la zuffa con Van der Sar e persino con Zidane prima di incappare nella reazione di Fonseca: pugno in faccia e inizio delle ostilità, con Montero e Davids pronti a dare manforte prima dell'intervento della polizia. E' il 9 novembre 2000, compleanno di Alex Del Piero, nemmeno lui risparmiato dagli ultrà riuniti in contestazione al Comunale di Torino: “Andate a mangiare la torta dell'infame”.

 


Il gol del 3-1 è segnato dal polacco Krzysztof Warzycha, vera leggenda del Pana con cui ha giocato fino a 39 anni.


 


E' una Juventus da ricostruire totalmente a cominciare dal suo numero 1, che tre giorni dopo, al ritorno al Delle Alpi, subisce da Marcelo Salas un gol di cui si è imbarazzati a parlare. A fine partita molti giocatori laziali confessano candidamente l'ordine di scuderia ricevuto: tirate il più possibile da fuori area.

 

L'1-1 finale rallenta la caduta di una Juve che la settimana dopo incappa in un altro gramo 0-0 a Brescia in cui la crisi di Del Piero assume caratteri cubitali: sostituito all'intervallo dopo essere stato annullato in marcatura dal 19enne Daniele Bonera, che a fine partita dichiara “Calori mi diceva di stare attento, ma lui si incartava da solo...”. Eppure la Juve resiste, tiene botta e col passare delle settimane si rilancia come unica avversaria credibile della Roma di Capello che ha fatto il vuoto grazie a una partenza-sprint. A metà campionato i giallorossi comandano con sei punti di vantaggio, ma una Juve senza distrazioni infra-settimanali crede nella rimonta, ritrovando nel frattempo anche Del Piero: Alex segna uno dei gol più belli e famosi della carriera il 18 febbraio a Bari, cinque giorni dopo la scomparsa di suo padre Gino.

 

Nonostante da tempo tutti sappiano che l'esperienza juventina di Ancelotti si esaurirà il 30 giugno, si parla anche di un rinnovo del contratto “a rendimento”, legato probabilmente alla conquista di un insperato Scudetto. Ma il 1° aprile 2001 lo scherzo è di quelli brutti.

 

La palla parte dal piede destro di Andrea Pirlo, arrivato a gennaio in prestito dall'Inter e schierato regista di centrocampo da Mazzone, un'idea che l'altro Carletto non avrà problemi a ricopiare in bella al momento di progettare l'architettura del suo voluttuoso Milan 2002-2007.

 

Attraversa mezzo campo e atterra sul piede di Baggio, e il resto lo sapete: 1-1 a due minuti dalla fine. L'Olimpico esplode in un'esultanza rauca al vedersi la Juventus dietro di nove punti. Per Ancelotti è l'ennesimo screzio del destino, forse quello definitivo: arriva dall'animo mansueto solo in apparenza di un giocatore che aveva smaccatamente rimandato al mittente quando il cavalier Tanzi gliel'aveva quasi comprato, ai tempi di Parma in cui Ancelotti era ancora imbevuto del credo integralista del 4-4-2. Mancano ancora dieci giornate alla fine ma sono i due punti in più che mettono la Roma a distanza di sicurezza, al riparo dalla più distruttiva delle primavere capelliane che, abbinata a un braccino finale degno del Foro Italico, rischierà di riaprire i giochi. È un pareggio disastroso anche perché è l'ennesimo singhiozzo di una squadra che in due anni non è mai stata capace di fare veramente paura, com'è missione di vita della Juventus.

 


Molto più di Magath, Mijatovic e compagnia bella, poche cose mandano in bestia gli juventini come questo gol di Baggio, per tutto ciò che il Divin Codino ha rappresentato – o non ha rappresentato – nella storia bianconera.


 



Il finale di campionato è teso e appassionante. La Roma arranca invece che correre, perde a Firenze di lunedì pomeriggio (nonostante il celeberrimo striscione del settore ospite, strapieno: “Semo tutti parrucchieri”) e rischia le penne il sabato di Pasqua contro il Perugia di Cosmi, quando Antonioli si produce in un'aberrazione tecnica peggiore persino di quelle di Van der Sar. Un certo Castroman le impone il pareggio nel derby al 94' e così si arriva allo scontro diretto al Delle Alpi con la Juventus a -6, in grado di riaprire i giochi in caso di vittoria.

 

Dopo sei minuti il risultato è già 2-0, con le firme di platino di Zidane e Del Piero che lasciano presagire una cavalcata trionfale. Per almeno 60 minuti la Juventus tracima furore agonistico come mai ha fatto la squadra nella gestione Ancelotti: dà un'illusione di calore persino il Delle Alpi, solitamente gelido come un fior di fragola. Sfiora ripetutamente il 3-0 e cancella dal campo Totti, costringendo Capello al cambio indicibile a mezz'ora dalla fine: fuori il capitano, dentro Hidetoshi Nakata, riemerso dalle mollezze della Tribuna Monte Mario grazie a una tempestiva delibera dell'insigne giurista Andrea Manzella, il Presidente della Corte Federale che 48 ore prima ha abolito il limite dei tre extracomunitari in campo nello stesso momento. Così Capello sale direttamente a cinque, gettando nella mischia anche Assunçao, a fare compagnia a Samuel, Batistuta e Cafu.

 

Capello e Ancelotti sono due uomini che hanno dedicato molti anni delle loro carriere tanto alla causa bianconera quanto a quella romanista. Un terzo allenatore che condivide questo percorso è Claudio Ranieri, che ebbe la sfortuna di guidare la Juventus negli anni furiosi e furibondi dell'immediato post-Calciopoli, in cui a Torino andavano cercando un condottiero con gli occhi di bragia e la bava alla bocca (e l'avrebbero poi trovato nel 2011). Una delle maggiori colpe imputate a Ranieri fu quello di essere e rappresentare il prototipo della “brava persona”, e dunque un debole, ben rappresentato dall'atavico soprannome di “Er Fettina”, fisiologicamente inadatto alle trincee fisiche e mentali che esigeva la nuova condizione della Juventus, divenuta subalterna all'Inter.

 

Al momento di serrare i ranghi e portare a casa i tre punti più decisivi della stagione, Ancelotti casca proprio qui, scivolando sul suo biglietto da visita fatto di paragoni iper-calorici, mentre Capello si ricorda di quel Juventus-Lazio dell'autunno precedente e ordina ai suoi di cannoneggiare Van der Sar dalla distanza. Proprio Nakata pesca da 25 metri il jolly che fa tornare le palpitazioni alla Juventus, ed è sempre il giapponese a condannare al 90' Ancelotti alla subalternità con un tiraccio malamente respinto dal portiere olandese, là dove c'è – come c'è sempre, in quella primavera 2001 – Vincenzo Montella.

 


Tra le perle di questa lunga sintesi, oltre all'atto di nascita della celebre sentenza caressiana “Il calcio è strano!”, anche la citazione a 6:28 di Alessio Secco “addetto stampa della Juventus” e futuro direttore sportivo di un'epoca bianconera più nera che bianca.


 

Come si fa a spiegare razionalmente questa suggestione calcistica? La gente semplice ti spiega che non c'è bisogno di parole, che Capello e Ancelotti basta guardarli in faccia per sapere che vincerà sempre Capello. E la Juventus agnelliana pare assecondare questa visione del mondo un po' tranchant, in cui il secondo è solo il primo degli incapaci. Un giornalista come Maurizio Crosetti, storicamente inviso alla dirigenza juventina ma per questo molto più attendibile di tanti cicisbei, osserva: “Il sospetto è che Ancelotti sia proprio come sembra, cioè ottima persona ma un po' fiacca, forse inadatta a quella vasca di pescecani che è la Juventus. In fondo, lui e la squadra un po' si somigliano: bravi, a volte bravissimi ma in giro c'è gente migliore di loro”.

 

È per questo che Carletto godrà con gusto particolare dello scudetto 2004, suo primo e fin qui unico, vinto in volata proprio sulla Roma di Capello sorpassata in tromba a metà campionato proprio in stile capelliano, con cinismo e qualità, con le goleade a San Siro ma anche con gli 0-1 in trasferta firmati Pancaro. Quando, dopo un recupero di sette minuti, l'arbitro Messina fischierà la fine di quel Milan-Roma e di quel campionato, avrà già iniziato a piovere a dirotto da qualche minuto. Ancelotti è un uomo mite e sereno, e come molti uomini miti e sereni ha una memoria di ferro: quella pioggia laverà via una volta per sempre un'amarezza passata che non ha bisogno di spiegazioni.

 

Ormai è finita. Nelle ultime sei giornate la Juventus fa diciotto punti e non le resta che attendere i doppi falli dei giallorossi, che scivolano in casa con il Milan e al San Paolo contro il Napoli, ma mantengono due punti di vantaggio fino all'ultima giornata, nel bagno di folla del 17 giugno contro il Parma. Ancelotti già sa, o perlomeno ha già capito: quel che i suoi dirigenti non gli hanno ancora comunicato ufficialmente l'ha sentito dire in tv dal presidente Vittorio Chiusano, solitamente restio a tenere la bocca chiusa. “Siamo contenti di Ancelotti, ma non c'è limite al meglio”.

 

Il meglio si chiama Marcello Lippi. Nelle ultime conferenze stampa Carletto non risparmia allusioni e battutine; l'amarezza e il malessere dell'abbandono gli si leggono in faccia. In futuro non spenderà belle parole per la Juventus, neanche nei suoi libri, ferito dalla falsa cortesia sabauda con cui è stato sbolognato (“Ancelotti va via perché è difficile vivere in una città in cui gran parte dei tifosi e della stampa gli è contro”, parole di Umberto Agnelli). Ma la vita e la carriera gli andranno benone e in fondo anche alla Juventus, che con Lippi di nuovo in sella vincerà i due scudetti successivi. E quando, in una notte inglese di fine primavera, ritroverà i suoi amati e odiati juventini - calciatori, dirigenti, tifosi, giornalisti - Ancelotti metterà le ali, guardandoli dall'alto come il maiale della copertina dei Pink Floyd.

 

 

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