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Le MMA sono di estrema destra?
23 dic 2020
23 dic 2020
Una riflessione fatta con gli strumenti dell'antropologia.
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Negli ultimi tempi le arti marziali miste e gli sport da combattimento in generale sono assurti agli onori della cronaca per eventi drammatici che non dovrebbero riguardare lo sport. Secondo una tendenza troppo diffusa alla semplificazione estrema dei fatti sociali, l’opinione pubblica e la stampa si sono divise in maniera manichea, schematica, tra la condanna inoppugnabile (le MMA generano mostri, vanno abolite) e la strenua difesa (le MMA insegnano la disciplina, sono casomai gli imputati del caso Monteiro Duarte che dovevano essere allontanati in tempo dalla virtuosa realtà delle palestre).

Entrambe, in realtà, sono posizioni difficili da sostenere. Lo ha chiarito Daniele Manusia in questo pezzo di qualche settimana fa, e in un’intervista che fece ad Alessandro Dal Lago, sempre su L’Ultimo Uomo, dove il sociologo spiegava le sue posizioni, approfondite anche in una testata scientifica.

Da antropologo, ho dedicato tutto il mio percorso di ricerca all’analisi delle pratiche sportive, e in particolare di alcune discipline di lotta, e vorrei contribuire al dibattito. Soprattutto perché ritengo che lo sport rappresenti ancora un tema marginale nell’ambito delle scienze umane e sociali, e che un caso come quello di Colleferro abbia invece portato i nodi al pettine: lo sport è un fenomeno centrale nel mondo contemporaneo, ed è indispensabile avere gli strumenti per comprenderlo nella sua complessità.

Foto di Quinn Rooney / Getty Images.

Partiamo dalla violenza, principale capo d’accusa imputato a chi pratica MMA. Il concetto di violenza è relativo. La violenza non sta solo nell’atto violento in sé. Molto dipende, infatti, dalle circostanze in cui quell’atto viene compiuto, da chi è che lo esegue e da chi lo subisce, da qual è la relazione che lega i soggetti coinvolti, e così via. Un pugno dato per strada, per esempio, è un’offesa per chi lo prende, un’infamia per chi ne è testimone, e un capo d’accusa per l’ordinamento giuridico, mentre lo stesso pugno dato su un ring può diventare un meraviglioso uppercut, ovvero un raffinato gesto tecnico – senza contraddittorio – per chi lo dà, per chi lo prende e per chi lo valuta o assiste. Pur essendo lo stesso gesto, insomma, non ha assolutamente le stesse conseguenze, e non può e non deve essere valutato nello stesso modo. È una differenza talmente evidente da apparire scontata: con le sue regole (scritte e non scritte) uno sport come la boxe definisce un contesto relativamente indipendente rispetto agli altri ambiti del sociale, in cui un gesto viene valutato secondo criteri e logiche che non valgono nella realtà ordinaria. Ma da questa differenza scontata sorge una riflessione meno banale su queste attività: e cioè che raramente un gesto è violento di per sé; piuttosto, diventa violento, in base al contesto (ce l’hanno insegnato, tra i molti che si sono occupati di violenza, gli antropologi americani Nancy Scheper-Hughes e Philippe Bourgois).

Certo, pensare che un qualsiasi ambiente sportivo non abbia relazione alcuna con la realtà ordinaria, e che quello che succede su un ring, o in uno stadio, rimanga completamente indipendente rispetto alla quotidianità, sarebbe un’ingenuità in cui nessuno cadrebbe. Le relazioni ci sono, è evidente. Il problema è che sono molteplici, variabili, e non possono essere ricondotte a un unico modello che spiega una volta per tutte, per esempio, la relazione tra MMA e movimenti di estrema destra. Perché quella relazione dipende dal processo storico secondo il quale le MMA (e le destre radicali) si sono affermate in certi luoghi e in certi ambienti.

In Italia, per esempio, la sinistra ha sempre nutrito un certo pregiudizio nei confronti dello sport. Storici come Stefano Pivato ci raccontano come, sin dall’affermazione del fenomeno sportivo in tutta la sua trascinante potenza, una parte consistente della sinistra vi abbia letto un’invenzione del capitalismo per distrarre i giovani e allontanarli dalla politica e dalla consapevolezza: un “oppio dei popoli”, insomma. È un punto di vista che ha influenzato profondamente il pensiero nel nostro paese, non solo nelle fila della sinistra, e l’inconciliabilità dell’attività fisica (e di certe attività fisiche più di altre) con quella intellettuale è un assunto difficile da decostruire persino nel mondo accademico contemporaneo (a quanto ne so, non esistono al momento studi di antropologia o di sociologia sul movimento delle arti marziali miste in Italia).

Anche il pugilato, pur essendosi caratterizzato per essere uno sport “popolare”, non ha mai conquistato fino in fondo le simpatie della sinistra italiana illuminata – salvo eccezioni, chiaramente. Verosimilmente, è anche per questo che sono state le destre ad appropriarsi degli ambienti delle discipline da combattimento, a farle “proprie”, a orientarne la retorica e condizionarne gli ambienti, e non perché, come potrebbe apparire, la lotta o il combattimento abbiano più affinità con le ideologie di destra.

Del resto, vari esempi dimostrano che sarebbe potuta andare diversamente: la coerenza ideologica del campione cubano Teofilo Stevenson, che rifiutò ingaggi milionari per passare al professionismo in America, diventando un eroe della Rivoluzione; le “red gyms of England”; o, per rimanere in Italia, la militanza di un pugile comunista come Lenny Bottai, e il movimento della boxe popolare milanese, appena ricostruito in una approfondita ricerca dal sociologo Lorenzo Pedrini.

Quello che voglio dire è che uno sport – qualsiasi esso sia – non è, di per sé (come abbiamo detto dei gesti violenti), un’attività che veicola un’ideologia, o un’etica, o un approccio al mondo e alla vita. Semmai è una certa ideologia (o un certo contesto culturale) che si appropria di una pratica sportiva, attribuendole una concezione etica particolare, e usandola per veicolare un certo approccio al mondo, alla vita e agli altri. Ma questa attribuzione viene fatta, appunto, a posteriori, e non è automatica o scontata.

Interessante, a questo proposito, è il caso del cricket, forse una delle pratiche più studiate dagli antropologi “classici”, in un passato non troppo remoto. Il cricket, disciplina britannica per eccellenza, venne introdotto dagli inglesi in epoca coloniale nei territori annessi alla corona col proposito di esportare un po’ dello spirito anglosassone e diffondere nelle colonie il senso di appartenenza alla madrepatria. Gli esiti furono paradossali, visto che proprio nel cricket molti dei popoli annessi (in India come nelle Isole Trobriand) trovarono un modo per manifestare apertamente l’orgoglio locale e il senso di rivalsa nei confronti dell’oppressore, stravolgendo le regole e il modo di giocare secondo le loro tradizioni, e usando i successi delle loro squadre su quelle dei colonizzatori come rivincite simboliche.

In questo senso, anche chi ha una visione superficiale delle arti marziali per come si sono affermate dalle nostre parti sa bene che tra quelle orientali con la “filosofia” dietro e le versioni radicalmente sportivizzate delle più efficaci discipline di combattimento (come, appunto, le MMA) c’è un bel po’ di differenza. Eppure, in molti casi, le tecniche del secondo gruppo di attività sono mutuate dalle prime, e in alcune delle più “nobili” discipline orientali troviamo tecniche di una violenza potenziale sorprendente, se si considera, appunto, che sono considerate (anche) “arti”, “filosofie”. Nel judo, per esempio, preso a modello dell’etica sportiva, del rispetto reciproco e del valore pedagogico delle arti marziali un po’ in tutto il mondo, sono previsti strangolamenti e leve articolari, tecniche di submission volte a costringere l’avversario alla resa e, in potenza, a renderlo inabile al combattimento, o addirittura a ucciderlo. Tutto sta, insomma, nel modo in cui ce le spieghiamo quelle tecniche, nel significato e nella funzione che gli attribuiamo, nel modo e nei contesti in cui le mettiamo in pratica, e non nelle tecniche in sé.

La boxe fornisce alcuni esempi interessanti di questo assunto. In uno degli studi più accreditati sulle culture fisiche del combattimento, quello che il francese Loïc Wacquant ha condotto a fine anni Ottanta in una palestra di boxe del violento ghetto nero di Chicago (Anima e corpo, un libro piacevole da leggere anche per i non addetti ai lavori), si scopre per esempio che il pugilato era un ambito in cui si costruivano una morale e dei valori che, per quanto potessero essere contestabili da diversi punti di vista (il machismo, per esempio), si opponevano alla “cultura” della strada e rendevano la palestra un luogo in cui i giovani potevano trovare relazioni e affetti, riferimenti, uno stile di vita regolare e, in fondo, un modo per dare senso alle loro esistenze che non fosse quello prepotente e vessatorio della strada. A simili conclusioni sono arrivati anche molti altri studi, come quello di Jérôme Beauchez nelle periferie urbane francesi e quello del nostro Giuseppe Scandurra nella palestra Tranvieri del quartiere Bolognina a Bologna, frequentata prevalentemente da giovani immigrati. In questi contesti, quella che a qualcuno può sembrare un’attività violenta a prescindere svolge invece funzioni integrative, offre un’alternativa all’isolamento e alla marginalità sociale, alla “devianza” e alla microcriminalità, e fornisce un orizzonte di possibilità di vita, forse illusorio, ma comunque concreto nella sua capacità di alimentare le aspettative e la passione di chi decide di mettersi i guanti.

Da questi esempi, e dalla ricerca scientifica in generale, è evidente che le pratiche di combattimento, i modi in cui sono praticate e organizzate, i significati che assumono per i praticanti e gli immaginari cui fanno riferimento dipendono, in maniera più profonda rispetto alla semplice retorica politica, sia dal contesto sociale specifico (il ghetto o la periferia, negli esempi citati sopra) che dall’orientamento culturale prevalente nelle realtà in cui vengono praticate (la cultura americana per la palestra di Chicago, quella italiana per la Tranvieri).

A questo proposito, torno alle MMA per un altro esempio interessante. È stato detto che gli incontri di MMA si combattono “chiusi in gabbia”, come se ci si trovasse di fronte non ad atleti, ma ad animali feroci. Le obiezioni di molti praticanti a questa accusa tirano in ballo le esigenze tecniche: si tratta di “una rete elastica che impedisce a degli atleti di finire fuori dal ring”, come ha scritto lo stesso Daniele Manusia. È evidente, tuttavia, che non si tratta solo di questo. In fondo, in molte discipline di combattimento la superficie di gara non viene delimitata fisicamente in alcun modo: semplicemente, quando gli atleti la superano l’arbitro interrompe l’incontro per poi farlo riprendere all’interno di quei confini, eventualmente sanzionando l’atleta che ne è uscito volontariamente. In realtà, per la UFC la rete è soprattutto un elemento scenografico che serve ad estremizzare la brutalità per chi guarda e, in senso più pratico, evitare di dover interrompere il combattimento se gli atleti escono dall’area, spezzando così il pathos degli spettatori. Non a caso, come lo stesso Manusia riporta nell’intervista a Dal Lago, è al regista John Milius (uno che di scenografie se ne intende) che “si deve l’idea del ring ottagonale, che aveva già usato proprio per una scena di Conan il Barbaro”. La rete richiama allora certo la dimensione deumanizzata dell’animalità e, implicitamente, la brutalità e la ferocia della “belva” umana, ma non perché gli atleti che vi si muovono dentro siano effettivamente bestie da contenere: piuttosto, perché li si vuol rappresentare e quindi vedere così. L’animalità e la brutalità, insomma, stanno più nei corpi di chi si confronta o negli occhi di chi guarda? È chiaro che non c’è una risposta univoca a questa domanda, e che le due realtà si influenzano a vicenda, ma è una questione che non può non essere presa in considerazione.

Foto di Holly Stein / Getty Images.

Ma la realtà delle MMA non si esaurisce certo con i team degli atleti professionisti o con gli incontri mediatici, che rappresentano anzi una minoranza del movimento. Pensare che sia sufficiente guardare quello che succede nel professionismo per spiegare quello che succede nelle palestre è come dire che basta guardare Gomorra per capire la camorra. In ogni caso, anche volendo circoscrivere l’analisi a quello che delle MMA si vede in televisione, mi sembra evidente che non sono certo quelli gli unici contesti nella cultura euro-americana a costruire individui che vogliono imporsi con prepotenza sugli altri, secondo quell’imperativo della “promozione di se stessi come protagonisti del mondo” che anche Dal Lago ha messo in luce. Un imperativo che, però, mi sembra che mal si concili col militarismo che lo stesso sociologo individuava come sostrato fertile per l’affermazione delle MMA, dal momento che il militarismo prevede che un individuo si sottoponga completamente all’istituzione, per un bene superiore – la patria – e in nome di uno spirito corporativo che non può tollerare protagonismi o colpi di testa, ma solo “ordine e disciplina”.

In realtà, per capire le MMA sarebbe meglio scavare in quello stesso contesto in cui il culto dell’individuo, del successo sociale e della volontà individuale come unico mezzo per ottenerlo sono diventati imperativi categorici, in quel mondo in cui si può tutto se solo lo si vuole (l’“impossible is nothing” di Adidas e il “just do it” di Nike). Un’ideologia che ha meno a che fare con il militarismo che con altri aspetti della contemporaneità. D’altro canto, sostenere che la diffusione delle MMA nella cultura euro-americana trovi una spiegazione nel militarismo che avrebbe caratterizzato in anni recenti tale cultura lascia non pochi dubbi. Se è vero che l’esercito americano, come riporta Dal Lago, si è appropriato della pratica sportiva delle MMA per trasformarla in allenamento utile alla guerra, l’esercito israeliano (per dirne uno) ha programmaticamente elaborato un sistema di combattimento corpo a corpo che potesse essere efficace in situazioni di scontro reale, con il Krav Maga, che per un po’ ha avuto una certa diffusione nel mondo. Non comparabile, però, con quella che hanno le MMA adesso. Se ci pensate, la guerra e il militarismo hanno avuto un’influenza profonda anche all’origine di quelle arti marziali orientali cui attribuiamo oggi una valenza riflessiva e filosofica, molte delle quali sono state codificate proprio a partire da tecniche di guerra, per poi essere trasformate in discipline fisiche formative e, nel senso più ampio, conoscitive. La connessione tra pratiche fisiche e militarismo non è esclusiva dei nostri tempi, insomma, né della cultura euro-americana.

Ciò che invece è proprio del nostro tempo e della nostra cultura è la spettacolarizzazione cinematografica delle imprese atletiche e del successo individuale. Verosimilmente, la diffusione delle MMA nel mondo americano ed europeo ha più a che fare con l’entertainment che con la guerra. Le pantomime di Conor McGregor, o il trash-talking scenografico di alcuni degli atleti più famosi, che ha ormai raggiunto livelli drammaturgici degni del wrestling di Hulk Hogan, rappresentano in questo senso dei “modelli di cultura”, come diceva Edgar Morin. Sono rappresentazioni drammatiche di quel progetto virile ed eroico che viene estremizzato nell’immaginario mediatico americano, e che avrebbero meno senso altrove – per esempio, nel Giappone o nella Cina delle arti marziali, che pure non sono affatto estranei al militarismo. Quelle sceneggiate rispondono però, in tutto e per tutto, alle logiche dello spettacolo, che benché vi eserciti un’influenza, poco ha a che fare con lo sport di base, quello delle palestre in cui si va a sudare a fine giornata.

La riflessione dovrebbe dunque spostarsi, credo, sulle conseguenze che questa cultura del protagonismo e dell’individualismo radicale ha sugli sport che vi vengono praticati, perché pensare che siano gli sport – o addirittura uno sport in particolare – a generarla è, ovviamente, una tesi priva di fondamento. Al massimo, gli sport possono fare da cassa di risonanza per quelle attitudini, o addirittura da amplificatori. E allora il modo in cui quegli sport vengono praticati può diventare un indicatore, una lente utile per leggere e comprendere il mondo in cui viviamo. In questo senso, come ci fa capire Manolo Farci in questo lucidissimo articolo, quello che ci attrae negli sguardi da bullo e nelle pose degli imputati di Colleferro è che, in un certo senso, ci parlano di noi. E poco c’entrano le arti marziali: quelli “sono i figli degenerati di quel racconto che vede la mascolinità come un progetto virile ed eroico di affermazione nello spazio pubblico”.

Purtroppo, come lamentavo a inizio articolo, non possiamo ancora contare su analisi approfondite delle MMA in Italia (e questo è un invito, perché ce ne sarebbe bisogno). Tra i molti che se ne sono occupati nel panorama internazionale, un approccio interessante è stato proposto da Kyle Green, un sociologo americano che ha condotto una ricerca nelle palestre di Minneapolis, e che è anche tra i promotori della campagna “Love fighting, hate violence”, mirata proprio a “promuovere la consapevolezza della fondamentale differenza morale tra il combattimento sportivo e la violenza”. Al di là dei circuiti professionistici, Green ha deciso di mettersi i guanti per cercare di capire cosa succede in quei luoghi, e perché la gente ci va.

Green focalizza l’attenzione sul dolore volontariamente accettato, e anzi ricercato dai praticanti di MMA di quelle palestre, come strumento per riprendere consapevolezza del loro corpo e dei suoi limiti. In sostanza, il contatto, e soprattutto il contatto doloroso, permetterebbe ai lottatori di sentirsi vivi, e di percepirsi come individui reali, fatti di carne, ossa e nervi. Si tratterebbe insomma di un’esperienza riflessiva, che ci fa sentire presenti a noi stessi, attraverso la presa di coscienza del nostro corpo. Per di più, attraverso la percezione e il controllo del dolore (e l’incombenza della morte, per tornare a quel che diceva Dal Lago) i fighters possono vivere un’esperienza del limite, come accade per esempio negli sport estremi. Da un punto di vista filosofico, esplorare il limite significa esplorare le possibilità umane, tracciarne i confini, e dunque capire, se non proprio chi siamo, almeno cosa possiamo fare, dove possiamo spingerci. Esplorare il limite in contesti simili comporta un assiduo lavoro su se stessi per arrivare gradualmente a controllare, con la tecnica, il dolore. Ma comporta anche, uscendo dalla dimensione individuale, la necessità di poter contare sugli altri: mettersi consapevolmente a rischio e testare il “limite” negli allenamenti di MMA implica, oltre al “brivido” del pericolo, la necessità di fidarsi delle persone che si allenano con noi, di sapere che sono in pieno controllo.

Questa conclusione è stata il punto di partenza di una riflessione che sto coordinando con Giuseppe Scandurra e che ha coinvolto diversi ricercatori in tutto il mondo (sarà pubblicata a breve in una rivista scientifica). Nelle nostre esperienze di ricerca negli ambienti degli sport da combattimento, e in quelle che abbiamo avuto modo di leggere, infatti, siamo rimasti colpiti da un’evidenza: benché molto diverse tra loro, queste pratiche che, per statuto, oppongono fisicamente due individui, tendono tutte a creare legami estremamente profondi tra le persone che vi si dedicano, e che si allenano insieme. Anche se in un primo momento i praticanti possono essere spinti ad approcciarsi alla pratica per quella voglia di essere i protagonisti del modo di cui parlavamo, finiscono poi per trovarvi l’occasione per mettersi a disposizione di un gruppo: difficile, del resto, diventare protagonisti assoluti in un contesto in cui per imparare serve dedizione, costanza, disponibilità alla sconfitta e, soprattutto, serve l’altro.

Si può imparare a correre o a nuotare da soli, ma nelle discipline di combattimento serve (almeno) un’altra persona. Serve mettersi a disposizione dell’altro, affinché entrambi possiamo apprendere. Serve, anche, potersi fidare dell’altro. E proprio dalla fiducia emerge la dimensione sociale, collettiva, di queste attività. Certo, non è detto che questo processo non possa sfociare in un cameratismo miope dedito all’autocelebrazione e alla stigmatizzazione di altri gruppi o di altre persone; ma di sicuro rappresenta un presupposto per decostruire l’aspirazione al protagonismo individualista e spostare l’attenzione sul valore del gruppo, della comunità e delle relazioni sociali. Se il mondo degli intellettuali, dell’accademia e delle sinistre democratiche, invece che respingere questi universi sportivi, cominciasse a occuparsene seriamente, forse potremmo avere una chance per sfruttarne tutto il potenziale comunitario e aggregativo.

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