Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Cannibali
13 mag 2015
Il Barça del trio MSN viaggia verso la leggenda, mentre Guardiola ha davanti un'estate di riflessioni.
(articolo)
14 min
Dark mode
(ON)

Nella partita d’andata, dopo un avvio shock in cui la squadra di casa avrebbe meritato di essere in vantaggio di almeno due gol, tutto si era deciso quando ormai il risultato sembrava congelato, e il Barça si era preso con gli interessi quanto gli spettava, grazie al deus ex machina di Rosario, Leo Messi.

Nella partita di ritorno, Guardiola affrontava il più difficile dei dilemmi: come ribaltare un 3-0 contro una squadra che ha nelle ripartenze il proprio (inaspettato) punto forte, sempre nella speranza che l’essere più ultraterreno del calcio moderno, quello con il numero 10, non decidesse di chiudere la sfida con un guizzo indifendibile.

Uno dei “problemi” dei bavaresi è aver vinto la Bundesliga con 7 giornate di anticipo, a fine marzo: la squadra sembra aver perso il livello competitivo di chi costantemente gioca per un obiettivo. Escludendo il campionato da quel momento in avanti, e senza considerare la partita di ieri, il Bayern ha vinto una sola partita (il magnifico 6-1 contro il Porto), pareggiato due volte in Coppa di Germania (vincendo ai rigori ai quarti, perdendo ai rigori in semifinale) e subito due sconfitte in Champions League (l’andata con il Porto e con il Barça). Il Bayern arrivava alla partita più importante della stagione con 3 sconfitte consecutive senza segnare neppure un gol.

I catalani, invece, sono gli unici insieme alla Juve a poter puntare ancora verso il triplete: già in finale di Coppa del Re, in campionato hanno vinto una sfida decisiva contro la Real Sociedad, creando un distacco sufficiente dal Real Madrid per poter festeggiare la conquista della Liga già nella prossima giornata. Partite importanti come quella con la Real Sociedad hanno probabilmente esaltato la dinamica competitiva dei blaugrana, invece di stancarli. Nelle ultime 7 partite prima della trasferta bavarese: 25 gol segnati e zero subiti.

Con queste premesse c’era poco da essere ottimisti, e invece del solito slogan dei bavaresi “mia san mia” (cioè noi siamo noi, quasi da Marchese del Grillo), forse era più giusto un semplice e umile “in bocca al lupo, Pep”.

Mosse e contromosse

«La gente pensa che dobbiamo attaccare, invece dobbiamo difendere». La frase pronunciata da Guardiola in conferenza stampa riassume bene l'enigma che si trovava davanti. Per ribaltare il risultato doveva soprattutto trovare un modo per prevenire le ripartenze del trio Messi-Suárez-Neymar, per evitare un gol fuori casa che avrebbe reso qualunque sforzo vano, obbligando i bavaresi a segnarne 5.

E il Bayern è sceso in campo con la formazione della partita d’andata, stavolta sistemata con la difesa a 4 sin dal primo minuto, con una inversione dei centrali: Boateng viene spostato sulla destra, forse per tenerlo il più lontano possibile dall’incubo Messi, che invece viene seguito da Benatia, spostato a sinistra. A centrocampo, un teorico doble pivote davanti alla difesa diventa in realtà una specie di trio non lineare con Schweinsteiger interno sinistro e Thiago sulla destra ma spesso vicino a Xabi Alonso. In avanti, Lewandowski è affiancato da Müller, che agisce spesso largo sulla destra; a sorpresa, ancora più largo a destra c’è Lahm, in posizione di ala.

Come in ogni partita del Bayern, il modulo diventa presto fluido e irrintracciabile, con giocatori sempre su linee sfalsate, alla ricerca di corridoi di passaggio alle spalle degli avversari. Il ruolo di Lahm ci permette di capire almeno l’intenzione di Pep: attaccare in ampiezza per allargare la linea difensiva blaugrana e colpire lo spazio tra Jordi Alba e Mascherano, cercando allo stesso tempo di dare un punto di riferimento a Müller, fluttuante tra le linee.

Anche il Barça ripropone gli stessi undici del Camp Nou, il classico 4-3-3 di Luis Enrique, ma in campo si capisce subito che c’è qualcosa di diverso: in fase di non possesso i catalani si schierano con un 4-1-4-1 in cui Busquets scherma la difesa in zona centrale, Neymar copre la fascia sinistra, mentre sulla destra un Messi in versione “si può dare di più” finisce per fare sul serio l’esterno di centrocampo (e chiude ancora con il miglior record statistico della sua squadra: 4 passaggi chiave, 2 dribbling riusciti, 11 duelli vinti).

Il campanello d’allarme che Guardiola non ha saputo ascoltare: dopo quattro minuti Rakitic buca una linea difensiva dedita alla marcatura dei tre tenori. Xabi Alonso non riesce a stare al passo del croato, servito perfettamente da Dani Alves.

15 minuti di celebrità

Ad inizio partita le due squadre sembrano voler imporre dei ritmi da fantascienza, ma è solo un tentativo di intimorirsi a vicenda. Dopo pochi minuti il Barça dimostra il suo vero piano di gara: la posizione di Messi serve per allargare e distrarre la difesa del Bayern, per poi attaccarla con il movimento in profondità di Neymar, Suárez e Rakitic. Il croato ha avuto la prima occasione seguendo una manovra che sta diventando classica nei blaugrana, quella dell’inversione a U: la palla, sulla sinistra, da Neymar scende fino ad Iniesta, che in orizzontale la invia a Dani Alves; il brasiliano lancia lungo scavalcando l’uomo davanti a sé, dove di solito a ricevere c’è Messi ma stavolta invece c’è Rakitic che attacca perfettamente lo spazio dietro i due centrali avversari. Da posizione defilata ovviamente non può sorprendere il miglior portiere di hockey su prato del mondo, Neuer, che devia.

Il Bayern, forse, viene svegliato da questo pericolo e comincia a rendersi pericoloso: dopo 7 minuti Benatia segna di testa su calcio d’angolo, sorprendendo sia Ter Stegen, poco reattivo, che una disattenta difesa. La partita sembra già riaperta, il pubblico di casa ci crede e il Bayern dopo i festeggiamenti ricomincia pressando a ritmi altissimi sul primo possesso del Barça, anche se, per la verità, senza troppi risultati.

In fase di possesso, Benatia e Boateng si uniscono centralmente a Xabi Alonso (meno pressato dell’andata e autore di una grande partita, con ben 4 assist, 9 passaggi chiave, 10 palle recuperate e 8 duelli vinti) a formare una sorta di cuneo centrale, mentre Thiago e Schweinsteiger riescono a incontrare spazio tra le linee di un avversario solo temporaneamente disordinato.

Il Bayern dopo il gol del vantaggio ci crede e va in pressing alto sul primo possesso del Barcellona: alla fine Piqué non riuscirà a servire un compagno.

Allo scoccare del quindicesimo la favola finisce, interrotta dallo strapotere tecnico del trio MSN: Neymar taglia il campo in orizzontale e scarica su Messi, che serve una palla deliziosa sul movimento in profondità di Suárez, che a sua volta, leggermente defilato, si accorge di Neymar da solo al centro e gli regala un gol tanto facile quanto prezioso. Difesa del Bayern completamente disorganizzata, con l’incertezza tra aggredire il portatore o scappare all’indietro.

È una mazzata per il morale dei tedeschi, che sanno di essere ormai quasi fuori: il Bayern comincia a costruire occasioni da gol solo con cross dalle fasce, o con sporadiche iniziative individuali di Thiago (recordman per dribbling riusciti, 3, a cui si aggiungono 2 passaggi chiave e 6 duelli vinti), che mandano in crisi il dispositivo difensivo del Barça ed evidenziano il peso delle assenze.

Il piano di Pep: creare densità sulla fascia destra, forse quella più vulnerabile, occupando anche lo spazio tra le linee: Schweinsteiger riceverà il pallone tutto libero e pronto a calciare. Si intravede anche il 4-1-4-1 del Barcellona in fase di non possesso.

Senza Alaba, Ribéry e Robben, c’è un problema non solo di qualità e di finalizzazione, ma anche di modifiche di gioco. La squadra si era ormai abituata ad usare ali posizionate quasi sulla linea laterale, in grado di disordinare la difesa avversaria; i terzini potevano giocare molto più dentro il campo, formando una sorta di protezione per Xabi Alonso, in caso di contropiede. Saltato questo meccanismo, i bavaresi sembrano non riuscire più a segnare e neppure a contenere le ripartenze avversarie.

Dopo venti minuti, il Bayern si vede costretto persino ad inutili lanci lunghi dalle retrovie per la disperazione del suo allenatore. Il Barça continua a giocare come all’andata, molto compatto e con le distanze perfette tra i reparti, ma senza aggredire (l’altezza media delle palle recuperate è solo di 31 metri, un dato insolitamente basso per i blaugrana): Busquets impedisce quasi tutte le linee di passaggio centrale (a fine partita infatti ben 12 palle recuperate), e in più le due ali d’attacco aiutano a coprire la fascia, con Messi che addirittura recupera un pallone nella posizione di terzino sinistro.

Ancora una volta il Bayern non riesce a difendere a palla scoperta: incredibile per questi livelli. Messi accende la lampadina e serve il movimento di Suárez, in linea, alle spalle di Benatia.

Alla mezz'ora, il Barcellona chiude definitivamente i giochi (o almeno così sembrava), con un’azione che è l’incredibile copia di quella sprecata da Suárez all’andata: stavolta il lancio lungo è di Mascherano, a centrocampo Messi vince il duello aereo (una divinità non ha bisogno dell’altezza) e serve l’attaccante uruguaiano che si invola nella prateria lasciata dalla pessima marcatura a uomo di Benatia (e conoscendolo sappiamo che è decisamente più bravo ad anticipare che a coprire la profondità...). Ancora una volta, quasi a sottolineare la loro special relationship nella notte bavarese, Suárez preferisce servire Neymar, che da solo sulla sinistra ha il tempo di stoppare e infilare Neuer all’angolino.

È davvero incredibile che Guardiola abbia speso la sua conferenza stampa nel sottolineare l’importanza di difendersi bene e che la sua squadra, poi, abbia difeso così male: lasciando così tanti spazi tra le linee, permettendo di attaccare spesso in zona centrale, e lasciandosi attrarre fuori dall’area da Messi. I movimenti della linea difensiva sono sembrati caotici in più di un’occasione, e ne sono bastate poche al Barça per chiudere la partita.

Dopo il gol del vantaggio, il Barça comincia ad allungarsi, lasciando i tre davanti scollegati dal resto ma pronti a punire, e il Bayern prova almeno una reazione emotiva, sempre puntando sull’anarchia di Thiago. Anche l’Indice di Pericolosità Offensiva, che aveva segnalato la superiorità catalana fino al 40’, comincia a scendere fino ad arrivare a fine primo tempo con un leggero vantaggio bavarese, 33 a 29.

Il tridente che pende sulla destra nella sua interezza: Lahm è quasi sulla linea di fallo laterale per attrarre Jordi Alba, mentre l’avvoltoio Müller è pronto a inserirsi nello spazio tra il terzino e Mascherano, preoccupato da Lewandowski.

Il sogno e l’orgoglio

Al rientro dall’intervallo, è il Barça a cambiare assetto: per garantire maggior copertura e maggior velocità sulla fascia, Pedro sostituisce uno strepitoso Suárez, autore anche di un sombrero di tacco su Benatia, ma soprattutto decisivo sia all’andata che al ritorno, persino senza segnare.

E a Luis Enrique va dato il grande merito di aver liberato Suárez, ma non solo. Il Barcellona è una squadra che sembra giocare in modo naturale, come se si fosse appena radunata per una partita da giocare in un campo sterrato. Anche questo è merito di LE: aver saputo seppellire il dogma del calcio associativo per permettere alle individualità di risaltare. Ed è particolare che questo sia accaduto proprio nella squadra che di questo dogma è ormai custode da anni, e che invece non sia accaduto quando Luis Enrique era nel campionato più pragmatico del mondo (il nostro...): come a dire, è solo in Vaticano che si può discutere di Dio.

Nel nuovo tridente, Pedro diventa ala destra, Messi falso centravanti e Neymar rimane ala sinistra. La squadra forse prende questa sostituzione troppo sul serio, e la vede come un segnale: la partita ormai è finita, ci si può rilassare, aprendo lo scenario a 45 minuti davvero mediocri per i blaugana. Il Bayern nel frattempo, fedele al vecchio proverbio tedesco «meglio usare la testa che perderla», passa al rombo a centrocampo, con Thiago sulla sinistra, Schweinsteiger vertice alto e Lahm di nuovo dentro il campo, con Müller invece ad allargarsi sulla destra. Il risultato è una squadra molto alta, più corta, meno disgregata, e capace di interrompere tutte le linee di passaggio in zona centrale (a fine partita l’altezza media delle palle recuperate sarà addirittura 46 metri, praticamente a centrocampo). Con la forza dell’orgoglio, i tedeschi approfittano della svagatezza catalana per portarsi sul pareggio, firmato da uno splendido gol di Lewandowski, e poi addirittura a passare in vantaggio con Thomas Müller.

Al Barça non riesce davvero più niente, nonostante la pressione del Bayern non sia così asfissiante: il calo d’attenzione ad un certo punto si fa spaventoso, perché l’Allianz Arena, a quasi venti minuti dalla fine, sembra credere nell’impresa di realizzare altri 3 gol. Anche l’IPO segnala l’assenza dei catalani dal campo: nel secondo tempo rimane piatto ed aumenta solo di 4 punti, mentre il Bayern crea occasioni e finisce a quota 53.

Pep Guardiola incita i suoi quasi teneramente, assistendo alla partita che avrebbe voluto sin dall’inizio, ma che è stata possibile solo grazie all’autoesclusione dell’avversario. La stanchezza a un certo punto arriva anche per i bavaresi, che riescono ad ottenere una vittoria che vale solo per l’orgoglio.

Da questa pressione, niente affatto intensa, nasce il pareggio del Bayern: Xabi Alonso recupera palla in scivolata e serve Schweinsteiger, che verticalizza immediatamente per Lewandowski. Magia e 2-2.

Continuare a innovare è più difficile che innovare e basta

Per Guardiola questa stagione assume i contorni della replica inquietante di quella passata: campionato vinto con mesi di anticipo, e brutta sconfitta in semifinale. L’anno scorso ci fu lo 0-5 complessivo contro il Real Madrid, adesso il 3-5 contro il Barcellona: il timore è che arrivato ad un certo punto il Bayern non abbia il livello competitivo adatto per affrontare le grandi squadre europee. E siccome nessuno osa mettere in dubbio una squadra composta da numerosi campioni del mondo, e che prima dell’arrivo del catalano aveva disputato ben 3 finali di Champions in 4 anni (vincendone una sola), è ovvio che il discorso si sposti proprio su di lui. Guardiola ha già fatto tantissimo da allenatore (spostando in avanti la frontiera dell’innovazione tattica) e non ha più nulla da dimostrare: agli altri, almeno.

A sé stesso, e forse anche a chi crede nel suo modo di intendere il calcio, deve ancora dimostrare che si può vincere in Europa anche senza essersi allenati per più di 10.000 ore secondo i dettami del calcio di posizione: è questo il quantitativo di allenamenti che in media ha alle spalle un giocatore della cantera del Barcellona, quando arriva in prima squadra (e 10.000 ore di pratica sembra lo standard in più di una storia di successo, sportivo e non, su cui il saggista americano Malcom Gladwell ha costruito una teoria che, per dirla tutta, non ha convinto tutti).

Anche per il Bayern è un momento di riflessione: Guardiola aveva ereditato una squadra in grado di vincere 7-0 in semifinale (tra andata e ritorno) contro il Barça di Messi; dopo due anni, ne ha plasmato una in grado di subire quasi lo stesso passivo, ribaltando completamente l’inerzia e completando una bizzarra ringkomposition. La vera domanda, quindi, è: il Bayern ha sprecato due anni di potenziale dominio europeo per inseguire un’utopia irraggiungibile?

La prossima stagione, probabilmente l’ultima di Pep in Baviera, rischia di essere in qualche modo una sentenza sull’esportabilità di un modello tanto splendido quanto difficile da assorbire. Proprio per questo, si spera che Guardiola non molli proprio ora: questa sfida si può ancora vincere, ma non c’è più possibilità d’errore.

Il Barça, invece, va a gonfie vele in finale, dimostrando di non essere solo un esempio di collettivo organizzato, ma anche un fantastico insieme di campioni. Ci arriva battendo proprio colui che quel collettivo aveva forgiato; e lo fa attraverso un suo discepolo, Luis Enrique, che ha deviato dalla filosofia storica del Barça per trovare una nuova identità e uscire dal pantano del passato inarrivabile: una sublimazione quasi freudiana, con l’uccisione del padre (Guardiola, a sua volta emanazione di Cruijff) a garantire una sorta di purificazione totale.

Adesso il Barça non deve più rendere conto della sua maniera di giocare, e può affidarsi al cannibalismo dei suoi magnifici attaccanti, serviti anche attraverso verticalizzazioni dalla difesa (o addirittura del portiere), perché no, e lasciando il possesso palla al suo avversario (un evento che in Champions League non si verificava dal 2006).

Se il Barça, con la sua miscela perfetta di talento individuale e sofisticati strumenti di gioco (i blaugrana sanno ancora pressare alto come poche squadre al mondo), vincesse la quarta Champions League in 10 stagioni stabilirebbe un record senza uguali nell’epoca moderna, e che troverebbe antecedenti lontani solo nel grande Real Madrid degli anni ’50 e nel leggendario Liverpool a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.

Ringraziamo per i dati SICS (che potete anche seguire su Facebook e Twitter).

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura