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Calcio Daniele Manusia 6 maggio 2017 5'

Il campo da calcio sta diventando troppo piccolo?

Fabio ci ha chiesto se prima o poi non ci sarà bisogno di ingrandire il terreno di gioco. Risponde Daniele Manusia.

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Cara redazione,
forse a causa di una inconfessata paura della morte sono terrorizzato dalle cose che finiscono. Ad esempio: un’arte come la musica lavora sull’organizzazione di un insieme di possibilità stilistiche in fondo limitate. Un giorno la musica finirà? La sperimentazione avrà lavorato su tutte le possibilità?

 

Ultimamente questa mia fobia riguarda il calcio. Hulshoff diceva che il gioco del calcio è soprattutto una ricerca dello spazio, e a me sembra che negli ultimi anni questo spazio stia semplicemente finendo. Gli atleti sono diventati sempre più grossi e veloci e abitano il rettangolo di gioco come elefanti costretti a ballare su un cornicione. In più i ritmi di gioco sono sempre più elevati e alcune scuole tattiche (penso a Roger Schmidt) lavorano proprio sul trarre vantaggio dall’entropia, di fatto rinunciando a qualsiasi ambizione di controllo.

 

Guardando certi match di alto livello in Premier League, in cui la partita si trasforma in un gigantesco flipper in cui i giocatori perdono la loro individualità – tecnica e umana – e sono costretti a giocare come pure variabili fisiche, è facile sentirsi oppressi dalla mancanza di spazio.

 

Arrivando alla mia domanda, secondo voi arriveremo, prima o poi, al punto in cui sarà necessario ampliare il rettangolo di gioco per cucirlo sopra giocatori sempre più forti e veloci?

 

Grazie, vi seguo sempre

 

Fabio Concato

 

Risponde il direttore Daniele Manusia

 

Ciao Fabio,

Grazie per la domanda davvero interessante e ricca di possibili speculazioni, da persona veramente sensibile, sono da sempre tuo fan, nel caso fossi il vero Fabio Concato e non un semplice omonimo. Per qualche ragione l’idea che le possibilità di comporre musica siano finite – quasi infinte ma tecnicamente finite, se non sbaglio per estrema semplificazione dell’idea stessa di musica e di nota il numero di possibilità è una cosa come trentasei elevato alla settima – mi ha sempre depresso. Allo stesso modo mi ha sempre depresso quella storia delle scimmie che battono a caso i tasti di una macchina da scrivere e hanno qualche possibilità di scrivere all’identico un capolavoro della letteratura mondiale. Una scimmia può scrivere l’Ulisse di Joyce? Ma anche se fosse un romanzo di Fabio Volo, che tristezza dai. Certo, è molto difficile che accada veramente una cosa del genere (e non credo sarà mai legale costringere una o più scimmie a battere sui tasti di una macchina da scrivere per fare un esperimento) ma comunque sono pensieri che non aiutano chi, come me e come te, Fabio, prova a vivere della propria creatività. Perché la voglia di esprimere le proprie idee e sentimenti è accettabile solo se si pensa che ognuno di noi sia speciale, a cominciare da James Joyce.

 

Adesso che ci penso mi sembra molto difficile che il vero Fabio Concato scriva al mailbag dell’Ultimo Uomo ma, chiunque tu sia, proverò a risponderti con lo stesso slancio con cui avrei avrei risposto al vero Fabio Concato. Anche perché la questione centrale che poni mi sta a cuore: fino a che punto possiamo spingere il discorso dell’intensità prima di ritrovarci a parlare di qualcosa che non è più calcio? Secondo me questo discorso non è veramente collegato con quello della finitezza della musica, non c’è nesso logico, al limite sullo sfondo c’è l’angoscia di morte che diventa generica paura che le cose finiscano; ma se ci pensi bene sono due discorsi diversi. In questo caso non è che il calcio finisce perché le combinazioni tattiche possibili si esauriscono: come spesso ripetiamo su queste pagine, non c’è un modo oggettivamente migliore di giocare, si può vincere con approcci totalmente opposti e a seconda dei contesti un tipo di gioco prevarrà sull’altro, e a seconda dello spettatore un tipo di calcio sarà più godibile dell’altro, più corrispondente alla sua idea di calcio.

 

Ma arrivato a questo della mia risposta inizio a pensare che dietro Fabio Concato si nasconda qualcuno che conosco, magari qualche scrittore mio amico, qualcuno con cui ho guardato almeno qualche partita di Premier League, perché la metafora degli elefanti che ballano sul cornicione mi sembra di averla già sentita.. e mi sto chiedendo se questa domanda non mi sia stata girata solo per solleticare le mie paure più profonde, quella sensazione che ho confessato solo ai miei amici più cari che, appunto, da un momento all’altro possa cadermi un elefante in testa. Anche se fosse questo lo scopo, Fabio, chiunque tu sia, ho deciso che meriti una risposta sincera.

 

È vero, anche a me il calcio iper-atletico mette l’ansia, un calcio fatto di marcature asfissianti che impediscono di ragionare o di zone strettissime che eliminano quello spazio tra le linee in cui i più grandi pensatori hanno scritto le loro opere migliori con la palla; un calcio in cui se c’è uno spazio – in verticale – va percorso il più velocemente possibile, anche a costo di perdere contatto con il pallone, anche correndo a testa bassa, senza sapere dove sono i propri compagni; un calcio che deve frustrare qualsiasi ambizione avversaria e sfruttarne ogni esitazione, debolezza, ogni perdita momentanea di equilibrio; un calcio, come dici te menzionando Roger Schmidt, in cui si può persino arrivare a sostituire il controllo della palla con l’idea che probabilmente, condensando una certa zona e facendoci finire il pallone in qualsiasi modo, avrò un vantaggio da sfruttare; un calcio molto più randomico.

 

Il calcio si è professionalizzato, facciamocene una ragione Fabio Concato. E d’altra parte è vero anche che per marcare a uomo ci vuole cervello e che per scalare se salta una marcatura bisogna ragionare collettivamente. Persino per sfruttare gli spazi velocemente ci vuole tecnica e visione di gioco. Diciamo che la competizione si è alzata là dove era più semplice che si alzasse: sull’aspetto atletico e sull’organizzazione collettiva, perché il talento non si può creare. Ma, nonostante ciò, non credo ci sarà mai bisogno di ampliare il campo da calcio, almeno finché ci saranno giocatori in grado di resistere al ritmo imposto dalla pressione avversaria. Finché il talento troverà il modo di esprimersi anche in corpi “sempre più forti e veloci”: Gareth Bale è un buon esempio, ma non dimenticare che anche Messi sarebbe in grado di proteggere palla nelle strade di Pamplona durante la Festa di San Firmino con la sola forza delle proprie gambe, con il bacino. E se non ti basta, guarda di quanto poco si stacca la palla dal piede di Ousmane Dembélé mentre percorre il campo come se fosse in discesa.

 

Nel calcio il corpo conta moltissimo, ma conterà sempre di più la palla. E non ci sarà bisogno di allargare e allungare la superficie di gioco finché ci saranno giocatori in grado di far sembrare il campo da calcio troppo grande ai loro avversari (ricordi il video in cui i giocatori del PSG avevano paura di giocare al Camp Nou perché gli sembrava infinito?). Finché, come dici te, alcuni elefanti saranno in grado di farci lo schiaccianoci su quel maledetto cornicione. Un calcio in cui si debba mettere ordine nel caos in fondo rispecchia i tempi difficili in cui viviamo e se questo ti mette l’ansia, be’ siamo in due Fabio Concato, ma non possiamo che avere fede nel talento e nella capacità umana di resistere alla pressione esterna. O avversaria.

 

 

Tags : la posta del cuorepremier league

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020).

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