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Marco D'Ottavi
I campi da calcio della mia vita
08 dic 2021
08 dic 2021
Una riflessione sul campo da calcio come spazio sociale e memoria.
(di)
Marco D'Ottavi
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Dal gruppo Facebook della ex squadra dell'autore
(foto) Dal gruppo Facebook della ex squadra dell'autore
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A San Lorenzo, un quartiere storico di Roma stretto tra il cimitero monumentale del Verano e le Mura aureliane, c’è un campo da calcio a 11 che vogliono smantellare. Sta lì dal 1926, quando il terreno venne donato alla Fondazione dei Cavalieri di Colombo per "essere messo a disposizione gratuita delle parrocchie, delle scuole, delle colonie e della gioventù romana in genere ... e per migliorare direttamente ed indirettamente le condizioni di vita del quartiere”. È un campo di pozzolana, di quelli che fanno rimbalzare male il pallone, che quando cadi te lo ricordi per settimane. È anche un campo un po’ maltrattato, con l’erba cattiva che cresce ai bordi, in uno strano tentativo del verde di prendersi un pezzo di terra fatto per essere arido. Ma è anche un campo bello, stretto tra palazzi centenari, che apre lo sguardo di chi ci abita sopra, in una città in cui è molto difficile non trovare un altro palazzo davanti alle finestre. È romantico da osservare al tramonto dall’alto, accogliente il giorno delle partite. Un campo così particolare da essere anche finito, di recente, nella pubblicità di una birra. Il suo futuro però è quello di essere diviso a metà: metà parcheggio in asfalto per i vicini campi da padel, che sorgeranno dove ora c’è un piccolo spazio verde, e metà - così dicono - campo da calcio a 9 da affittare, forse l’unica versione di calcio di cui non avevo mai sentito parlare. Il campo "Benedetto XV" non è il campo perfetto in nessun modo, le tribune ad esempio possono essere definite come “fatiscenti”, ma non è neanche un campo abbandonato. Lì è nato e cresciuto l’Atletico San Lorenzo, una di quelle realtà di calcio popolare nate dal basso e che si impegna ogni giorno per fare politica nel quartiere. Cos’è una squadra di quartiere senza il campo del quartiere? L’Atletico San Lorenzo si sta battendo per impedire l’inevitabile. Al ritorno agli allenamenti, a settembre, hanno trovato il campo recintato all’improvviso. Gli oltre duecento tesserati, che vanno dai bambini e le bambine che a malapena riescono a trascinarsi il pallone in giro alla prima squadra che milita in Seconda Categoria, privati di uno spazio per allenarsi, ma anche e soprattutto di uno spazio sociale. Da quel momento tutta la comunità si è mossa. L’Atletico San Lorenzo ha presentato un suo progetto per riqualificare l’area senza cedere alla tentazione di rinunciare al calcio a 11, ma sta passando inascoltato. I ragazzi al momento continuano ad allenarsi lì, nonostante abbiano già tolto le porte e la presenza delle recinzioni (e di pericolose basi di cemento) rende il gioco del calcio più simile a un percorso a ostacoli.

In una zona della città completamente occupata da “cose”, palazzi, chiese, supermercati, bar, hotel, un campo da calcio era una piccola ventata di spazio; basta guardarne la geografia dall’alto. Un campo da calcio è principalmente spazio: dentro non c’è nulla, neanche le porte, se ci pensate, solo le persone che lo occupano. E in un contesto urbano ogni spazio occupato dalle persone ha un significato. La volontà di riadattare un rettangolo di pozzolana da luogo di aggregazione a luogo di profitto è una scelta che prima di tutto è politica. Uno spazio vuoto non è abbastanza remunerativo, o utile, e ogni spazio deve esserlo. Bisogna riempire gli spazi di altri parcheggi, di altri palazzi, di altri luoghi dove la socialità non è contemplata. Questa idea non è una novità in una città come Roma: a pochi metri di distanza da quel campo c’era, fino a poco tempo fa, il “Cinema Palazzo”, una delle occupazioni più vivaci della città. Era stato occupato per impedire la costruzione di uno di quegli asettici e luminosi regni delle slot machine e per 10 anni aveva portato cultura nel quartiere. Durante uno dei vari lockdown d'emergenza è stato sgomberato e oggi non c'è nulla al suo posto.Solo apparentemente sport e cultura sono all’opposto. Al contrario sono due realtà che possono convivere sullo stesso piano quando appartengono alle persone, quando non hanno solo una strategia economica ma anche una sociale. Una squadra per un quartiere, un campo per la comunità, un luogo dove bambini e ragazzi possono stare insieme e fare attività all’aria aperta, senza che i genitori debbano spendere chissà quanto o portarli chissà dove. Anche io, ad esempio, in un quartiere solo leggermente più periferico di San Lorenzo, uno di quei quartieri in cui sembrano esserci solo palazzi e supermercati, sono cresciuto su uno di quei campi di pozzolana. Stava appena dietro la mia scuola, leggermente rialzato che lo vedevo dalla finestra della mia classe. Era anche così vicino a casa che non avevo bisogno di essere accompagnato il pomeriggio, o ripreso la sera. Per un periodo, dai sei agli undici anni diciamo, quel campo è stato il mio mondo. In qualche modo lo è anche oggi, dato che due dei miei migliori amici, migliori amici oggi che abbiamo 35 anni, li ho conosciuti lì. I primi tempi eravamo troppo piccoli e quel campo lo occupavamo per trasversale. Giocavamo partite confuse con delle porte piantate malamente nel terreno che non avevano neanche la profondità della rete, che invece era tirata da un palo a un altro come se dovesse respingere il pallone più che accoglierlo. Dopo la doccia restavo a guardare l’allenamento “a tutto campo” dei grandi e pensavo a quanto era gigante la porta. Poi, quando ci sono arrivato, la porta mi era sembrata piccolissima. Quel campo oggi è diventato “due campi da calcetto e uno da calciotto”. Viene usato solo da studenti fuori sede, che trovandosi tramite un'app sfogano il loro bisogno di giocare a calcio una volta a settimana. Una cosa che rispetto, ma la sua funzione sociale originale è sparita. L’unica scuola calcio del quartiere è compressa nel minuscolo campo da calcio a 5 della chiesa. Si può dire che sia la stessa cosa, ma non è la stessa cosa mi pare. Forse sarà nostalgia, forse è un problema che esiste solo a Roma Est - ho provato a fare una ricerca sui censimenti dei campi da calcio a 11 in Italia, ma i dati sono spesso incompleti oppure dissimili tra loro - eppure aver perso quel campo e sapere che a breve altri faranno la stessa fine è triste. Esiste una precisa geografia dei campi, che taglia la città e i ricordi, e sta scomparendo dietro logiche di profitto, dietro spazi sempre più produttivi, dietro una pandemia che ci ha insegnato a giocare a padel.Da piccolo attraversavo una città nuova e sconosciuta stipato in macchine stracolme di bambini per raggiungere quartieri che erano solo squadre e campi. Il riscaldamento a palla e la divisa sociale sempre rattoppata. In qualche modo è stato come allargare l’orizzonte, scoprire posti che poi avrebbero acquisito altri significati. Mi ricordo una delle prime partite, sul campo dell’Albarossa di Pietralata, storico quartiere di periferia famoso per essere finito nei romanzi di Pasolini. È un quartiere di lotti, case basse, che costeggia l’Aniene. In quel momento mi era sembrato tutto così nuovo, così diverso rispetto alla mia realtà fatta di palazzi a otto piani e strade larghe e trafficate. Solo più avanti avrei scoperto che quel posto era invece praticamente dietro casa, memoria storica di una Roma di borgata che non c’è più. Quel campo, il campo XXV Aprile, per molti anni è stato abbandonato. Oggi è gestito e difeso dalla Liberi Nantes, un'associazione sportiva che si occupa di integrare i rifugiati politici tramite lo sport. Uno spazio tornato vivo grazie alla sua funzione sociale, almeno fino a che nessuno penserà di farci un parcheggio o chissà cosa. Lì vicino c’è anche un altro campo che oggi sembra un fantasma. Sta sotto la tangenziale, in un angolo di città che sembra non esistere. Da piccolo devo averci giocato spesso, anche se non ricordo bene. Vent’anni dopo lì mi sarei rotto la clavicola in maniera scomposta cadendo su quella pozzolana inaccogliente e all’ospedale mi avrebbero messo messo male il tutore, lasciandomi un osso che sembra un boomerang. Anche questa è una storia.

Dal gruppo Facebook "ALBAROSSA 1968... il vero calcio che fu... a Pietralata"

La città è sparsa di campi e i campi sono sparsi di storie. Ci sono posti che per me sono solo campi. Ce n’era uno - spero ci sia ancora - che stava al Villaggio Breda. Lo ricordo perché eravamo piccoli e ne storpiavamo il nome per ridere. La sua squadra aveva i numeri personalizzati e, soprattutto, schierava una ragazza. Per noi questa cosa era difficile da processare, anche se - a quell’età - non c’erano differenze, anzi: in una partita la ragazza ci aveva segnato e, da allora, il nome Villaggio Breda è rimasto impresso nella memoria mia e dei miei amici. Il posto è una borgata depressa fuori dal Raccordo, dove probabilmente non metterò mai più piede eppure rimarrà per sempre con me. Così come a Santa Maria delle Mole, un paesino dove passa la ferrovia e niente più, ma dove ho segnato il mio primo gol. La mia esperienza con i campi di pozzolana non durò molto, o almeno non quanto avrei voluto. La squadra per cui giocavo era fallita all’improvviso e a me avevano proposto di andare a giocare in un’altra squadra, buona, ma il suo campo era lontano da casa e avrei dovuto prendere l’autobus, un'opzione non percorribile a 11-12 anni. Così, forse per superare quella delusione - come tutti ero convinto che se avessi continuato avrei combinato qualcosa - a 23-24 anni ero tornato a giocare a calcio a 11. Quasi a volermi punire, lo feci su un campo di pozzolana. Uno dei peggiori campi di Roma mi sento di dire. Alle spalle c’era lo spiazzo occupato dal Circo Togni quando era in città, con i tendoni, le tigri e gli elefanti; dall’altra parte della strada, all’improvviso, scoprirono che c’era un lago. Il proprietario, una figura che sarebbe stata bene in un film di Caligari, usava il piccolo bar ricavato in una baracca per vendere articoli sportivi. Il tuttofare viveva in un ufficio, con le coppe e le foto dei tempi andati. Alla fine di ogni stagione ci prometteva che avrebbe messo il sintetico.

Furono anni calcisticamente snervanti, ma fu un modo perfetto per scoprire una città che sembrava non finire mai. Ora che il tempo passa e Roma si stringe intorno a me - casa, lavoro, il solito locale - quelle partite formano una ragnatela di luoghi, di ricordi, allargano lo spazio. C’è un campo a Fonte Nuova che sta su una collina, aperto alle intemperie. Arrivarci era come inerpicarsi verso il castello di Dracula, la sensazione di entrare in un’atmosfera più rarefatta, spirituale. Le partite, poi, erano uno strazio: pioveva sempre, faceva un freddo cane, gli avversari sembravano esistere solo per farti male. Esiste una Fonte Nuova normale? Con il giorno, con il sole, in cui le persone non ti insultano? Per me è difficile rispondere. C’erano campi belli e campi brutti, campi vicini e campi lontani, ma non era importante, l’importante erano i ricordi che ci attaccavo. In quel periodo scrivevo per un blog di letteratura che era un po’ pretenzioso e avevamo iniziato a fare recensioni dei campi di Roma come se fossero romanzi. C’era il campo che sembrava uscito da Steinbeck, quello da Salinger, cose così. La sensazione è che ogni campo riesca a esistere su un piano leggermente diverso del tempo, come la letteratura dopotutto. Che lì la memoria si stratifica in maniera più convinta, tra le panche fredde e scomode degli spogliatoi e le perdite d’acqua. Se la città in continua evoluzione promette di attirarti con spazi di memoria posticci, i campi da calcio sembrano conservare un ricordo più vero del tempo che passa. Non voglio essere retorico: anche il campo da calciotto dove andrò a giocare con i miei amici appena finito di scrivere questa invettiva luddista una volta era un campo da calcio a 11 di pozzolana, un campo storico di un bel quartiere residenziale, anche questo stretto tra i palazzi. In questa vecchia foto del 1946 i palazzi sembrano quasi entrare in campo, come se non ci fosse discontinuità tra il campo e il quartiere. Quando era ancora un vero campo, e non un centro sportivo a cui si aggiunge un locale elegante stile newyorkese, era una delle poche trasferte in cui sapevo avrei trovato un po’ di tifosi, con gli striscioni, i fumogeni e tutto. Lì, una volta, mi ero procurato un rigore saltando il difensore avversario con un dribbling che se qualcuno avesse ripreso avrei riguardato mille volte nei momenti di tristezza. Poi il rigore lo aveva sbagliato uno dei miei migliori amici. Un altro ricordo. Mi accorgo di difendere una posizione ideologica e di farlo nella maniera peggiore, quella ipocrita. Perché difendo i campi da calcio a 11 se gioco a calcio a 8? Perché difendo la terra se preferisco il sintetico? Le battaglie a difesa del passato, nel calcio, hanno sempre sfumature conservatrici, ed è difficile distinguere tra nostalgia e rifiuto della modernità. I campi da calcio a 11 sono inattuali? È strano pensarlo, vista l’importanza del calcio nel dibattito pubblico, ma forse è così. Se in una città come Roma ogni campo è una lotta tra spazio e profitto, altrove può diventare una questione di fruizione. Nel paese dei miei nonni in Abruzzo non c’è quasi nulla, ma c’è un campo da calcio da sempre, visto che lo spazio non è certo un problema. Lo chiamano in maniera affettuosa “Polveroso” ed è un campo tragico. Non sembra fatto neanche di pozzolana, ma, ancora peggio, di una specie di ghiaia sabbiosa di colore chiaro. Quando è secco sembra di giocare nel deserto, quando piove in uno stagno. Da spettatore era un’esperienza divertente vedere degli uomini provare a giocare uno sport pieno di variabili in uno spazio così ostile. C’era solo un attaccante che, in qualche modo, riusciva a controllare quello che gli accadeva intorno e infatti segnava caterve di gol. In paese era - è, spero - una specie di eroe.

Non torno al “Polveroso” da qualche anno, i miei nonni non ci sono più e la casa è stata venduta. La squadra del paese è un po’ in decadimento e recentemente in un’intervista il presidente si lamentava che hanno sempre più difficoltà a trovare ragazzi che vogliono giocare sulla pozzolana. Il loro sogno è quello di accedere a dei fondi - dello stato, della regione, del PNRR - per ristrutturare il campo, perché di soldi da loro non ce ne sono. Nel frattempo vivono in questo limbo, dove l’unico luogo di aggregazione del paese che non sia un bar o una chiesa è visto come un posto che respinge i giovani. Cosa ne sarà di tutti quei ricordi che stratificano e rendono vivi questi campi dopo che questi saranno smembrati perché improduttivi? Nelle prime righe del racconto Trilobiti il protagonista sta guardando una collinetta. “C’è voluto più di un milione di anni per fare questa piccola collina liscia e io ho cercato dappertutto trilobiti. Penso a com’è sempre stata lì e a come ci starà sempre, almeno per tutto il tempo che importerà qualcosa” dice, pensando a un tempo infinito. Se ogni campo nella mia memoria è come quella collina piena di trilobiti, il tempo sta andando da un'altra parte. Se non rimarranno i campi, però, rimarranno almeno i ricordi, almeno fino a che importerà qualcosa.

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