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Andrea Lamperti
Cosa può fare il calcio contro la violenza di genere
25 nov 2023
25 nov 2023
Una riflessione sul ruolo del calcio nel dibattito sulla violenza maschile.
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Andrea Lamperti
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IMAGO / ZUMA Press
(foto) IMAGO / ZUMA Press
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«Mi sono preso del tempo per pensare, ma trovare delle parole per una situazione del genere è sempre difficile… ed è estenuante e logorante sentire che continuino a capitare cose del genere. Non è più accettabile, non lo è mai stato. Eppure è un continuo, io non oso immaginare il dolore. Ho una sorella più piccola, più o meno dell’età di Giulia Cecchettin. E dopo aver immaginato il dolore che potesse provare il padre, il primo pensiero che mi è venuto in mente è stato: e se questa cosa dovesse capitare a mia sorella? A mia madre? Alla mia migliore amica? Alla mia futura figlia?».

Questi i pensieri che Luca Pellegrini, difensore della Lazio, ha condiviso martedì sul suo profilo Instagram, unendosi timidamente al dibattito sulla violenza di genere - o meglio, come giustamente appuntato in questi giorni: violenza maschile - alimentato dal recente omicidio di Giulia Checchettin. Dopo le parole di Luciano Spalletti prima di Ucraina-Italia, Pellegrini è stato il primo calciatore di Serie A a condividere una riflessione sul tema. «Non mi sono mai espresso su situazioni al di fuori del mio lavoro», conclude, «ma non ce la facevo stavolta a stare in silenzio: BASTA».

Forse il dibattito in Italia non è mai stato forte e polarizzato come in questi giorni. Se da una parte cerca di sottolineare la natura sistemica dell’omicidio, dall’altra si cerca di individualizzarlo, dandogli come unica motivazione lo squilibrio mentale - o la corruzione morale (mostro) - dell’assassino Filippo Turetta.Le ultime righe del messaggio di Pellegrini evocano il vuoto che deve aver sentito intorno a sé mentre scriveva quelle parole, il bisogno quasi di giustificarsi - da calciatore - per aver provato ad andare oltre il proprio ruolo. È una percezione non distante dalla realtà per chi viene meno a una consuetudine radicata e in un certo senso incoraggiata nell’ambiente calcistico: il silenzio.

In occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, in questo fine settimana avrà luogo una lunga serie di iniziative sui campi di tutta Italia, non solo calcistici. I segni sul viso ai palloni rossi, i minuti di raccoglimento ai messaggi di sensibilizzazione; il tentativo di coinvolgere un pubblico prevalentemente maschile in qualche riflessione - spesso però producendo un effetto quasi opposto, cioè di rifiuto del pensiero, di fronte a iniziative burocratiche, pre-confezionate. In che modo il calcio può far sentire la sua voce e diventare efficace, per ispirare una riflessione sulla natura sistemica del fenomeno? E soprattutto: perché è importante che lo faccia?

Che la sparizione di Giulia Cecchettin e il gesto di Filippo Turetta non rappresentino un caso isolato, lo confermano i dati Istat. Preso atto di questo, è necessaria una riflessione più ampia sul contesto di violenza in cui si inseriscono. Sono 106 le vittime registrate nel 2023, ma sono quasi sette milioni le donne italiane che nel corso della propria vita hanno sperimentato la violenza fisica di un uomo. Insomma, non bisogna per forza morire per essere delle vittime. L’anno scorso, più di 20.000 donne hanno chiesto il supporto di un centro antiviolenza e più di 30.000 hanno chiamato l’1522.

L’inquadramento del femminicidio come punta dell’iceberg di tutte le disuguaglianze, le ingiustizie e le violenze di genere nella società è un passaggio fondamentale nella comprensione del problema. Bisognerebbe partire dalle basi: riconoscere le connotazioni maschiliste e patriarcali della società e della cultura che abitiamo. Riconoscere le carenze politiche e legali che alimentano le diseguaglianze. E infine, ed è la cosa più difficile, riconoscere che in quanto maschi si è parte di questo sistema: nei gesti, nelle abitudini, negli schemi di pensiero più comuni. Lo siamo anche involontariamente, e anzi a volte proprio contro la nostra volontà. E forse non c’è territorio in cui è più difficile riconoscere queste dinamiche che il calcio. Non c’è forse mondo più maschile e maschilista, considerando sia chi lo guarda e chi lo gioca. O, se preferite, non c’è mondo meno auto-critico, meno capace di mettersi in discussione. Lo vediamo ogni volta che i temi sulla diversità si sollevano nel territorio calcistico.

Luca Pellegrini è l’unico calciatore italiano, finora, ad aver espresso una riflessione pubblica. Nel mondo del calcio femminile lo ha fatto l’attaccante della Roma Valentina Giacinti, con un altro post sui social. Giovedì Giacinti è scesa in campo contro l’Ajax in una partita di Women Champions League e la tifoseria della Roma ha esposto uno striscione con su scritto: «L’amore vero non uccide… basta!!! Ciao Giulia». Non c’è da stupirsi, visto che il mondo del calcio femminile è estremamente politicizzato, proprio come reazione dialettica al maschilismo del calcio maschile.

Ne avevamo scritto su Ultimo Uomo in seguito all’assoluzione di Benjamin Mendy, scagionato definitivamente lo scorso luglio da molteplici denunce per abusi sessuali. In quell’occasione, diversi calciatori di fama internazionale si erano esposti pubblicamente - evento di per sé raro su tematiche sociali, come osservato da Sarah Shephard su The Athletic - mostrando solidarietà al francese. La retorica è quella di sempre, quella inquinante di “All lives matters”, del “a noi chi ci protegge”, del “e ora chi risarcirà Mendy”.

Mendy che ha, per quello che sappiamo dagli atti, adottato comportamenti considerabili abusivi e violenti, almeno usando una sensibilità che ha a che fare col buon senso; comportamenti che però non sono stati considerati punibili dalla legge. Un caso che sottolinea il gap che esiste oggi tra violenza sociale e sistema giuridico, non certo la persecuzione nei confronti dei maschi. In quel caso non aveva certo senso indignarsi sulla sentenza per Mendy, non era quello il punto, ma di certo si è mancata un’occasione per contribuire al dibattito sulla cultura dello stupro.

Utilizzata per identificare una gamma di comportamenti ben più ampia del solo stupro, questa espressione fa riferimento a pratiche e abitudini calcificate, appunto, nella cultura di una società o di una sua sfera, e dunque nell’imprinting che fornisce agli individui che la compongono. Non riguarda solo l’atto di violenza sessuale, ma anche e soprattutto ciò che crea terreno fertile per gli abusi: la normalizzazione della prevaricazione (fisica o verbale) e della disparità, l’utilizzo di espressioni misogine, la minimizzazione di episodi di molestie, l’oggettificazione del corpo femminile. «Questo è un piccolo quadro di quella che viene chiamata rape culture», scriveva Valerio Moggia. «Che non significa che tutti i calciatori (o tutti gli uomini) sono stupratori, ma che esiste una diffusa cultura per cui gli atti di prevaricazione sessuale, dalle molestie allo stupro propriamente detto, vengono normalizzati, tollerati e, in alcuni casi, addirittura incentivati».

Prendendo in prestito le parole di Michela Murgia, è un ecosistema in cui «la violenza è sexy e la sessualità è violenta», come suggeriscono svariati episodi del recente passato. Per fare qualche esempio dal 2018 a oggi:

  • le minacce di stupro ricevute da Chloe Sanderson, moglie di Davide Santon;
  • le parole dell’ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Felice Belloli, sui finanziamenti al calcio femminile: “dare soldi a quattro lesbiche”;
  • il comunicato del gruppo Diabolik Pluto in cui si descrive così la Curva Nord della Lazio: «un luogo sacro, un ambiente con un codice non scritto da rispettare; dove le prime file, da sempre, le viviamo come fossero una linea trincerata, e all’interno di essa non ammettiamo donne, mogli e fidanzate»;
  • il commento dell’ex presidente della Sampdoria, Massimo Ferrero, dopo un derby finito 0-0: “la porta è come una donna, non va contemplata, va penetrata”;
  • i cori sessisti della curva interista nei confronti di un’addetta dal campo che stava tagliando l’erba;
  • l’insinuazione di Fulvio Collovati secondo cui «una donna non capisce come un uomo di calcio, quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco, non ce la faccio»;
  • il caso dalla giornalista Greta Beccaglia, bersaglio prima di una molestia fuori dallo stadio, subito dopo della minimizzazione in diretta tv di quanto accaduto (tra l’altro, proprio nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne) e infine di uno striscione comparso allo stadio la settimana successiva: “prima razzisti, poi sessisti, ma mai giornalisti”;
  • la definizione di “cattivo giocatore” fornita dal dirigente Cristiano Giuntoli: «è come una fidanzata che porti a casa e capisci che non va bene, che non lava, non cucina e non stira».

Niente più del linguaggio tradisce le strutture di pensiero. Non serve frequentare gli stadi, o guardare partite e trasmissioni calcistiche tutte le domeniche, per afferrare la diffusione delle discriminazioni sessiste nell’ambiente. Molte donne che ci si affacciano, anzi, lo scoprono rapidamente. Un recente studio della Football Supporters’ Association ha svelato che il 20% delle tifose in Inghilterra ha subito molestie allo stadio e il 49% racconta di aver provato rabbia o paura per il comportamento degli uomini nei loro confronti. Facendo una rassegna di testate sportive online e media del settore, poi, si trova facilmente un riscontro di questa mentalità.

L’oggettificazione del corpo femminile sui quotidiani online è una pratica accettata (anche se sempre meno, va detto). Da anni, alla ricerca di interazioni, le homepage propongono quotidianamente angoli dedicati alle atlete più “hot” del momento. Ma anche partner di atleti, familiari, semplici tifose - basta che ci sia qualcosa di sessualmente stimolante da dare in pasto all’utenza. Si tratta di un aspetto critico della comunicazione contemporanea e non solo in ambito sportivo, anzi; ma che interessa in particolar modo il calcio, per via delle connotazioni sociali e demografiche del suo pubblico, oltre che per ragioni storiche.E così, presentando le donne sempre più come oggetti non è sorprendente che i fruitori del servizio finiscano per essere a loro volta degli agenti di propagazione della misoginia. Allontanando ulteriormente le donne dal calcio, rendendolo un ambiente ancora più chiuso, ancora più maschile. E se possibile ancora più mascolino, nell’accezione più negativa del termine, di una cultura machista indifferente alla parità di genere così come a ogni forma di diversità e sensibilità. È un circolo vizioso che si alimenta a oltranza.

Un altro modo in cui la narrazione sportiva si rivela nociva in tal senso ha a che fare con lo stereotipo del calciatore e con il suo status di soggetto massimamente desiderabile, quasi irresistibile, per il genere femminile. Una simile concezione porta inevitabilmente alla delegittimazione, agli occhi degli stessi calciatori, del rifiuto delle donne: il fondamento della cultura dello stupro. Purtroppo i casi denunce per violenza sessuale che riguardano i calciatori sono diverse.

Gli ultimi giorni hanno tragicamente offerto un’occasione importante. Innanzitutto perché, in senso assoluto, intensificare le discussioni sul tema delle violenze di genere non solo favorisce una maggior consapevolezza del problema, ma incoraggia anche le vittime a denunciare e le potenziali vittime a prevenire (come testimonia il raddoppio nel volume delle chiamate ricevute dall’1522 negli ultimi giorni, o l’aumento che generalmente si osserva nell’ultimo weekend di novembre). Nel contesto calcistico, invece, la potenzialità di questa occasione risiede nel pubblico a cui si rivolge e negli strumenti che ha a disposizione. È per questo che ha senso ripetere tutto quello che abbiamo detto in questo articolo, e per questo che il calcio può diventare un terreno importante di rinegoziazione delle pratiche sociali, per il rapporto tra i sessi. Ripetere discorsi che in altri contesti possono suonare scontati, nel calcio è importante.

Innanzitutto per la risonanza mediatica che ha il calcio, e questo è il punto più ovvio.

L’audience della Serie A è enorme, conta praticamente mezza Italia. Un sondaggio condotto dalla FIGC ha quantificato in oltre 22 milioni il numero di cittadini che guardano regolarmente partite di campionato e in circa 34 milioni quelli generalmente interessati.

L'altro punto, però, è demografico.

Quasi l’80%, secondo i dati forniti da European Football Benchmark, sono uomini, di variegata anagrafica e tendenzialmente esposti al retaggio culturale sportivo di cui si è parlato. Insomma, il pubblico ideale da sensibilizzare sulla violenza di genere, soprattutto se a coinvolgerlo nel discorso sono (fossero) gli attori protagonisti.

I calciatori godono generalmente di grande visibilità e in alcuni casi rappresentano dei modelli di comportamento, consci o inconsci, per i giovani maschi. Tale potere sulle nuove generazioni li renderebbe dei perfetti alleati per queste lotte sociali. Pensiamo all’impatto avuto negli Stati Uniti dalle proteste dei giocatori NBA contro il razzismo sistemico e la violenza della polizia. In Europa però gli atleti preferiscono un approccio - il più delle volte anche legittimo - anti-politico. Ci tengono a non prendere posizione, a non essere divisivi, anche se spesso questo silenzio è mantenuto per nascondere una mentalità reazionaria, di conservazione del privilegio.

La domenica si limitano dunque a fare da portatori neutrali dei messaggi della lega: “Un rosso alla violenza”. Non fraintendetemi: sono azioni importanti, per la loro istituzionalità, che però è anche l’aspetto che ne riduce l’impatto. Una massiccia esposizione degli atleti avrebbe un altro impatto? È lecito pensare di sì. Non solo per l’intensità del rapporto tifoso-calciatore, ma anche per l’urgente necessità di voci maschili in questo dibattito, e per il significato intrinseco che avrebbero tali voci - con tutte le implicazioni autocritiche di cui si è parlato - se emerse dall’ambiente maschilista per eccellenza.

Non è giusto pretendere gesti o parole dai singoli, ma è legittimo aspettarsi che in un momento del genere il mondo del calcio, nella sua interezza e con tutto quello che rappresenta per i maschi di questo paese, riesca a dare un contributo più sostanzioso; più spontaneo, più profondo, più coraggioso.

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