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Calcio totalitario
09 apr 2015
09 apr 2015
Arrogante, permaloso, onesto e sincero fino all'estremo. Louis van Gaal ha vinto tutto, e anche quando non vince va avanti a modo suo.
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Ebbi l’impressione di aver imparato qualcosa sul gioco degli scacchi, eppure ero perplesso: «Ma perché, c’è differenza tra i principi degli scacchi e i principi della vita?». (…) Il vecchio (…) rispose che gli scacchi consistevano in un preciso numero di pezzi e in una scacchiera di una data grandezza. I principi che li regolavano erano sempre gli stessi, ma cambiavano le situazioni. I pezzi sulla scacchiera erano tutti bene in vista. Negli eventi del mondo invece erano troppe le cose di cui non si sapeva nulla. (…) Non tutti i pezzi sono sulla scacchiera, è una partita che non si può giocare.

Zhong Achéng, Il Re degli Scacchi.

Non possiamo sapere se Louis van Gaal ha letto Il Re degli Scacchi, ma possiamo dire con sicurezza che il tecnico del Manchester United è quanto di più lontano dal modello del saggio taoista, che si astiene dall’intervenire sulla realtà. Van Gaal è olandese, e per le stesse circostanze che hanno reso possibile l’esistenza dei Paesi Bassi (modificare la natura, strappando la terra al mare) il genio olandese presuppone una fiducia assoluta nella capacità dell'uomo di intervenire sulla realtà che lo circonda, piegandola al proprio disegno. La frase sulla porta dell’ufficio di van Gaal ai tempi dell’Ajax rispecchia in maniera esemplare questa concezione: «La qualità è l’esclusione della coincidenza».

Se il fascino del calcio in un certo senso risiede anche nell’assomigliare a una guerra giocata, in cui hai sempre la possibilità di rifarti e non ci sono vittime, il fascino delle squadre di van Gaal, per alcuni il loro aspetto inquietante, e in particolare il fascino del suo capolavoro, l’Ajax di metà anni ’90, risiede nell’illusione di controllo assoluto fornita nei suoi momenti migliori. Un meccanismo perfetto, dove tutto ciò che avveniva sul campo era previsto e puntualmente risolto. Anche qui, una versione giocosa del fascino che nella realtà possono esercitare quelle ideologie che pretendono di offrire una soluzione a qualsiasi problema. Insomma, più che Calcio Totale, Calcio Totalitario.

L’educatore

Volendo proseguire con quest’analogia maligna, il totalitarismo di van Gaal si manifesta anche nella sua storica predilezione per i giocatori giovani. In fondo, chi sono i giovani? Sono quelli che sanno meno, e che per questo possono essere meglio plasmati. Nei regimi totalitari i primi ad essere fatti fuori sono proprio quelli che sanno troppo. E van Gaal in tutta la carriera ha sempre avuto la predisposizione a sbarazzarsi dei giocatori che, vuoi per una questione di motivazioni, vuoi per aver consolidato una propria identità ormai refrattaria a modifiche radicali, non sono disposti a seguirlo con l’entusiasmo e la fiducia cieca tipica del giovane alle prime armi. Se vogliamo, una delle cause della mancata qualificazione dell’Olanda al Mondiale 2002 (il più clamoroso fallimento di tutta la carriera di van Gaal), fu proprio questa: quegli stessi giocatori che una decina di anni prima, appena promossi dal vivaio dell’Ajax, erano “pagine bianche su cui scrivere le più belle poesie” (citando un altro cinese, meno bravo di van Gaal come tecnico ma più abile come dittatore), ora semplicemente sapevano troppo, e van Gaal, poco propenso di suo all’autocritica, si è lamentato a posteriori di non aver trovato la stessa disponibilità e motivazione degli inizi nei vari Davids, Seedorf, de Boer etc...

Prima di approfondire ulteriormente quest’analogia fino a sprofondare nel ridicolo, dobbiamo dire, però, che la vocazione di educatore in van Gaal è assolutamente sincera. Gli effetti di questa sua vocazione sono innegabili: ha lanciato e formato giocatori fondamentali del più grande Barcellona della storia: Xavi, Iniesta, Valdés e Puyol, quest’ultimo “salvato” all’ultimo da una cessione in prestito al Málaga; anche la Germania campione del mondo gli deve qualcosa: il lancio di Thomas Müller, il cambio di ruolo che ha consacrato Schweinsteiger, ad esempio. Oltre a questo van Gaal, che in passato ha effettivamente alternato il lavoro di insegnante di educazione fisica a quello di calciatore, ha sempre manifestato intenzioni coerenti con questa vocazione.

Un aneddoto vale per tutti: nel ’96 si sapeva già che prima o poi sarebbe diventato il tecnico del Barça, ma quando ancora c’erano probabilità che Robson rimanesse sulla panchina della prima squadra, a van Gaal era stato offerto un primo anno da coordinatore del settore giovanile. Nel documentario a lui dedicato di Recorda Mister (una trasmissione di Barça TV), van Gaal ricorda che fu proprio questa la ragione che lo convinse a preferire il Barcellona ad altre proposte come ad esempio quella del Milan. Van Gaal aveva già vinto tre campionati olandesi, una Coppa Uefa, una Champions League, una Supercoppa europea e una Coppa Intercontinentale (oltre a una coppa olandese e tre supercoppe). Ora, quale tecnico con una bacheca del genere, al centro delle attenzioni mediatiche, sceglierebbe un ruolo così di secondo piano se non fosse conscio del suo valore profondo, prima di qualunque riconoscimento di breve termine?

Insomma, quando van Gaal nell’intervista rilasciata a Gary Neville per il Daily Telegraph afferma di pensare «sempre al lungo termine, mai al breve. Perché non sono qui per me stesso. Sono qui per il club», sembra uno a cui credere. Lungo termine all’Ajax, quando nei primi mesi i tifosi invocavano Cruijff (l’acerrimo nemico) e la stampa quasi dileggiava la sua insistenza sul “team building” come processo graduale. Lungo termine a Barcellona, dove i catastrofici inizi di stagione erano un classico (l’umiliante girone di Champions nel ’97, con la passeggiata di Shevchenko al Camp Nou; la panchina salvata nel ’98 grazie a un gol di Xavi a Valladolid) a cui seguivano travolgenti gironi di ritorno e campionati vinti in carrozza; e lungo termine sarà anche nei tre anni a Manchester. Quella del “progetto” non è una formula di comodo.

Non un grande comunicatore

Sincerità, onestà e coerenza sono qualità che nessuno, nemmeno i suoi nemici, ha mai negato a van Gaal, semmai rimproverandogliene dosi eccessive che sfociano nella rigidità. E in fondo è figlia anche di questa onestà la spettacolare, interminabile guerra fra van Gaal e la stampa. Dal «sono io troppo intelligente o tu troppo stupido?» rivolto a un giornalista ai tempi dell’Ajax al «tu eres muy malo!» dei tempi del Barça, fino al «questa è una domanda stupida» di una delle prime interviste coi giornalisti inglesi, tanto per entrare in clima.

Oltre all’indubbia suscettibilità e alla superbia, in queste reazioni c’è anche umanità. Non è il Mourinho che allestisce il suo spettacolino per domare a piacimento i giornalisti e fare da scudo alla squadra, è la persona che non riesce a trattenersi e spende energie preziose che potrebbe dedicare a preparare ulteriormente la partita a difendere una sua idea o a criticare interpretazioni che a suo dire sviliscono il gioco del calcio nella sua ricchezza di contenuti, spesso rimettendoci con uscite talmente fuori luogo da testimoniare proprio quanto tutto sia sincero e poco studiato.

Ulteriore dimostrazione un’altra sfuriata, stavolta nelle vesti di commentatore della tv olandese, quando van Gaal si offese perché non invitato a rimanere in studio per commentare la Champions League. Al di là della reazione infantile (quando il presentatore si scusa dicendo «noi pensavamo avesse da fare», lui risponde: «Sono preparato, sono campione con l'AZ e posso analizzare le avversarie per l'anno prossimo. Poi fate entrare gli altri ospiti»), ciò che colpisce e quasi commuove è che dopo decenni di carriera van Gaal ha ancora una voglia fortissima di rimanere lì in studio a parlare di calcio.

Luis Enrique racconta il van Gaal che si impuntava sulla maglietta fuori dai pantaloncini, il colletto alzato e altri dettagli mal digeriti dallo spogliatoio blaugrana. Qui mima l’esatta posa richiesta da van Gaal ai giocatori durante la foto di gruppo.

Sistema vs individuo

Ma la rigidità imputata a van Gaal nelle relazioni interpersonali è un’accusa che prima di tutto riguarda la sua maniera di vedere il calcio. Un dittatore che vede i suoi giocatori come semplici pezzi di una scacchiera.

Uno stereotipo contraddetto da quanto riporta chi ha avuto modo di lavorare col tecnico olandese, e cioè che il calcio di van Gaal è un calcio che prima di ogni altra cosa pone grande fiducia nell’intelligenza del giocatore. «Ho sempre avuto problemi con la gente che critica il mio approccio ritenendolo solo esercitazioni e sottomissione del giocatore. Chiunque analizzi in profondità il mio modo di lavorare non potrebbe mai arrivare a una conclusione di questo tipo perché contraria alla mia visione della vita. (...) Appena cominci a comunicare e spiegare di più, loro capiscono meglio. (...) Al principio, l’analisi dopo-partita era un monologo da parte mia, ma ora è un dialogo». Questa citazione è tratta dalla biografia scritta da M. Meijer, e si capisce che per van Gaal l’obiettivo principale sia migliorare la capacità del giocatore di leggere le situazioni e prendere decisioni in campo, l’esatto contrario dello stereotipo del soldatino: «Con me i giocatori devono sempre sapere perché stanno facendo qualcosa in campo». Parlando con Gary Neville, van Gaal giustifica le ricorrenti difficoltà iniziali delle sue squadre con le difficoltà implicite nel «passare da un comportamento istintivo a uno razionale».

Il pugno di ferro di van Gaal durante la foto di gruppo. Vitor Baia lo asseconda in un patetico tentativo di ingraziarselo dopo aver già perso il posto in favore di Hesp, già si intravede in Giovanni l’odio che lo porterà a paragonare il suo allenatore a Hitler, mentre degna di ogni lode è la posa dell’irreprensibile Okunowo, qui in una delle migliori prove della sua carriera.

Nella sua autobiografia, Dennis Bergkamp racconta che grazie a van Gaal cominciò a pensare «criticamente e creativamente a ogni aspetto del gioco» e a scegliere posizioni sempre migliori in cui smarcarsi (van Gaal peraltro inventò per lui il ruolo di “centravanti ombra” alle spalle della punta, poi consacrato da Litmanen).

Questa fiducia nell’intelligenza individuale inserisce pienamente van Gaal nella tradizione del calcio (e non solo del calcio!) olandese; discutere sempre e discutere tutto è parte inscindibile dell’identità olandese, nel bene quando comunque genera giocatori dalla “cultura tecnico-tattica” sopra la media, nel male quando questa storica attitudine porta i grandi giocatori olandesi a non accettare nessuna autorità e a dilapidare quantità smisurate di talento in guerre intestine e fasi di anarchia più o meno pronunciate, vedi gli storici flop del Mondiale 1990 e dell’Europeo 1996.

Anche un signore come Bergkamp, alieno a personalismi e ribellioni chiassose, ha sentito a un certo punto l’esigenza di fare di testa sua: «Discutevamo (con van Gaal, ndr), ma ultimamente cominciai a pensare a ciò che ritenevo più appropriato. Può suonare presuntuoso, ma anche allora ero più sviluppato come giocatore di quanto non lo fosse van Gaal come allenatore. Sapevo solo, istintivamente, dove avevo bisogno di muovermi per essere decisivo». Più che lo stereotipo del giocatore di scacchi, che lo stesso Bergkamp ripete in altri punti del libro, qui van Gaal sembra rappresentare quello dello stregone che a un certo punto non riesce più a controllare le forze da lui stesso evocate. La conoscenza del gioco e la fiducia in sé del giocatore allenato da van Gaal cresce sino a un certo punto in cui il sistema della squadra comincia ad andare stretto a quella stessa intelligenza tanto stimolata dall’allenatore.

Peraltro non è estranea a questa reazione di rigetto lo stress generato dalla routine sotto van Gaal, una fatica dovuta non tanto allo sforzo fisico (pur riconoscendone ovviamente l’importanza, il tecnico olandese ha sempre relativizzato l’aspetto atletico, decidendo per primo di abolire i test di resistenza negli allenamenti dell’Ajax per allenarsi solo col pallone: correre meglio dell’avversario prima che correre di più) quanto piuttosto alla massima concentrazione che il tecnico esige in ogni secondo di allenamento. Bergkamp ricorda: «Eravamo giovani e desiderosi di imparare, ma se fossimo stati insieme per cinque anni non credo che l’approccio fanatico di van Gaal avrebbe funzionato». Dove passi il confine fra l’arricchimento dell’individuo e la sua “repressione” è il mistero che accompagna da sempre il calcio di van Gaal.

Magia nera

L’elemento di base del calcio cerebrale di van Gaal, e per alcuni la camicia di forza, è il concetto di “posizione”. Il “gioco di posizione”, sulla scia del Calcio Totale, prevede che ogni giocatore possa e debba prendere il posto dell’altro in un movimento continuo per sorprendere l’avversario a difesa schierata (da qui l’esigenza di giocatori polifunzionali), ma il disegno della squadra nel suo insieme rimane fisso e le posizioni in astratto sempre legate a una serie di compiti predeterminati. Non esistono cani sciolti in questo sistema.

Kluivert che viene incontro sulla trequarti potrà in quel momento occupare la posizione del “10” mentre Litmanen che attacca l’area passa a fare il “9”, ma il “10” e il “9” come riferimento spaziale rimangono sempre (e van Gaal nell’epoca in cui i numeri andavano ancora dall’1 all’11 insisteva in maniera martellante su questa terminologia), e dovranno sempre e solo compiere quei movimenti. Da qui non si scappa, ed è l’aspetto che inquieta i critici del sistema di van Gaal.

I riferimenti fissi sono imprescindibili sostegni del secondo elemento chiave, la velocità del pallone. Citato in Brilliant Orange di David Winner, l’aiutante di van Gaal all’Ajax, Gerard van der Lem, ricorda: «Parlavamo sempre di velocità del pallone, spazio e tempo. (…) Ogni giocatore deve capire la geometria complessiva di tutto il campo e del sistema nel suo insieme». Solo se so già che il 9, il 10, il 7, l’8 e tutte le altre posizioni faranno sempre immancabilmente quei movimenti potrò trovarli anche senza guardare, e se li trovo senza guardare il pallone correrà sicuramente più veloce dell’avversario intento a inseguirlo.

La palla deve mantenere un ritmo costante ed elevato, ma con pazienza e senza saltare un reparto (perché questi devono avanzare uniti in vista della successiva fase di recupero; se non si penetra da un lato, si passa indietro e si cambia lato). Perché la palla possa correre senza dare il tempo all’avversario di coprire la distanza i giocatori di van Gaal devono occupare posizioni che rendano il campo “troppo largo” e “troppo lungo” per il sistema difensivo avversario, quindi offrire l’appoggio non tanto andando incontro al pallone, ma smarcandosi alle spalle della linea avversaria oppure restando larghissimi per ricevere il cambio di gioco, da qui l’importanza storica delle ali o comunque di giocatori con funzioni simili nel sistema di van Gaal. Come dice il tecnico spagnolo Juanma Lillo, si tratta di «allontanarsi dal pallone per avvicinarsi al gioco». Indipendentemente dal modulo adottato, questi sono i principi del sistema di van Gaal.

Il “gioco di posizione” all’opera. L’Arsenal ha un solo attaccante, quindi il difensore centrale (Smalling) può avanzare palla al piede provando ad attirare un avversario verso di sé (già ai tempi dell’Ajax, con Rijkaard e Blind a sdoppiarsi fra retroguardia e centrocampo, van Gaal affermava che i difensori centrali sarebbero stati i “playmaker del futuro”, posto che gli spazi per i numeri 10 sulla trequarti son sempre meno). In quel momento si crea lo spazio per smarcare le mezzali (Fellaini ed Herrera) che si offrono alle spalle del centrocampo avversario. Così si prova ad allungare il sistema difensivo avversario. Per allargarlo, l’ala (Young) offre sempre il riferimento sul lato opposto.

Il sistema di van Gaal in fase di non possesso esige ugualmente un certo sforzo intellettuale da parte del giocatore: hanno sorpreso all’ultimo Mondiale le marcature a uomo dell’Olanda, ma nel calcio di van Gaal l’avversario da marcare è sempre stato solo uno dei riferimenti da tenere in conto. Non l’unico, visto che i giocatori (qui sta lo sforzo) devono saper distinguere il momento in cui seguire l’uomo e quello in cui tenere la linea.

Luis Enrique in Recorda Mister racconta come i primi tempi lui e i suoi compagni al Barça fossero disorientati dalla richiesta di van Gaal di lasciare l’uomo che si sta marcando per andare a pressare direttamente più avanti, prendendo l’avversario più prossimo a ricevere il pallone, senza esitare per la paura di lasciare un buco dietro. È anche per l’importanza dell’avversario diretto come riferimento in marcatura che van Gaal tende a modificare la composizione della difesa a seconda del numero di attaccanti avversari: «Quando l’avversario gioca con due attaccanti, voglio un uomo in più a centrocampo, e quindi 3-4-3 con rombo a centrocampo. E quindi, visto che gioco col rombo, più rischio nelle zone laterali che diventano più scoperte. È uno stile di gioco molto attraente ma molto rischioso. Però con questo modulo possiamo pressare più avanti e in maniera più intensa perché ci sono più giocatori a centrocampo».

Non tutti però apprezzano questa idea di calcio, anche nella sua migliore espressione. È interessante leggere in Brilliant Orange le critiche rivolte da Jan Mulder, attaccante olandese degli anni ’70, all’Ajax di van Gaal, critiche che anticipano quelle che verranno rivolte da alcuni anche al gioco del Barça di Guardiola: «Il mondo pensa che giochiamo calcio offensivo. Ma lo giochiamo sempre con la mano sul freno. Tutti questi passaggi indietro... tick-tock... laterale... tick-tock... è noioso! Van Gaal, Beenhakker... freni a mano!”.

Mulder rimpiange l’epoca dei dribbling di Cruijff e Keizer, i lanci di Krol o Koeman che non si preoccupavano di saltare il centrocampo a differenza del dotato ma “noioso” Frank de Boer, ma a rifletterci bene il sistema di van Gaal non è che l’evoluzione logica e la risposta al processo innescato dalla stessa Olanda degli anni ’70 (e poi perfezionato dal Milan di Sacchi) che Mulder rimpiange: un processo di progressiva compressione degli spazi giocabili nella zona della palla, che il sistema di van Gaal cerca di aggirare proprio con la sua enfasi sul possesso del pallone e il gioco di posizione.

Gioco di squadra

In questo calcio di massima, talvolta opprimente, responsabilità individuale, la bellezza sta piuttosto nell’audacia collettiva: «All’Ajax ho messo fuori giocatori del vecchio stampo per rimpiazzarli con altri più capaci di prendere l’iniziativa. Ogni singolo giocatore dell’Ajax è creativo». Non esiste, cioè, un fantasista a cui viene delegata tutta la parte creativa, ma ogni giocatore nel rispetto delle posizioni del sistema è spinto a partecipare e osare.

Una volta ho assistito a una conferenza di Ángel Cappa (tecnico argentino, assistente di Valdano al Tenerife e al Real Madrid, esponente del cosiddetto “menottismo”, che si distingue dal “gioco di posizione” per la massima libertà concessa ai giocatori sulla trequarti) in cui riferiva di come Guardiola una volta gli avesse detto: «La differenza fra la mia idea di calcio e la tua è che il mio gol ideale nascerebbe da un’azione in cui tutti e 11 i giocatori partecipano con uno-due tocchi; nel tuo gol invece c’è sempre qualche dribbling». Mentre Guardiola è sceso volentieri a qualche compromesso col dribbling di Messi, probabilmente ciò che descrive meglio la frase riportata da Cappa è proprio l’ideale di van Gaal.

Il gol ideale di van Gaal.

Guerra civile olandese

Al riparo del fatto che van Gaal non sa l’italiano, possiamo menzionare anche il suo dualismo con Cruijff per meglio definire la sua idea di gioco. Uno scontro non solo di personalità, come mostra un episodio di capitale importanza nella storia recente dell’Ajax, ovvero il golpe con cui Cruijff costrinse la vecchia dirigenza dell’Ajax a farsi da parte. Van Gaal entrò nella disputa non solo perché nominato temporaneamente Amministratore Delegato del club per l’ira di Cruijff, ma perché la rivoluzione di Cruijff puntava a smantellare proprio il sistema di organizzazione del settore giovanile disegnato da van Gaal più di venti anni fa.

Bergkamp, ora a capo del settore giovanile con Wim Jonk, lamenta tutti questi anni di produzione in serie di giocatori tecnici e ordinati ma senza cuore e creatività («Non ho mai visto uno dei tipici ragazzi del vecchio Ajax con quell’attitudine sfrontata: 'Dammi la palla che ci combino qualcosa'») a suo avviso frutto del culto del Sistema impiantato da van Gaal.

L’idea è tornare a concentrarsi prima di tutto sull’individuo, e quindi allenamento individuale sulla tecnica sotto la direzione dei grandi ex giocatori, stimolare il genio senza alcuna preparazione tattica, assolutamente nessuna, fino ai 14 anni (non potrebbe essere più grande la differenza di vedute col van Gaal citato invece da Meijer: «Come giocare la palla in tempo; trovarsi nello spazio giusto al momento giusto; come passi la palla a un compagno in relazione a un avversario; pensare collettivamente durante il possesso e quando perdi la palla. Questo tipo di fondamenta devono essere costruite in un gruppo fra i 12 e i 16 anni. (…) Non puoi insegnare questo a dei veterani, con loro devi lavorare sulla continuità delle prestazioni».

Van Gaal è anche anche colui che, dopo l’intuizione originaria di Cruijff, ha davvero sistematizzato la filosofia del settore giovanile del Barcellona. Intuizione contro Sistema, due mondi opposti, pur all’interno di una predilezione comune per un gioco di possesso e iniziativa: da un lato un Cruijff che come tutti i geni gode del privilegio di poter risolvere i problemi prima ancora di porseli; dall’altro un van Gaal che ha costante bisogno di analizzare ed elaborare.

Un giovane van Gaal che allena le giovani promesse dell'Ajax.

Recorda Mister chiede a entrambi i tecnici quale sia secondo loro l’aspetto più importante fra quello strategico, tattico, atletico e psicologico, ottenendo risposte sintomatiche: van Gaal senza dubbi individua la tattica, mentre Cruijff aggira la domanda affermando che «la base nel calcio è la tecnica... se controlli bene il pallone automaticamente controlli la posizione (per il decimo di secondo che guadagni con un buon controllo puoi anche guadagnare una posizione migliore)... le due cose vanno insieme». Praticamente un’inversione dei principi di van Gaal, che invece tanto enfatizza la posizione.

Per quanto sia significativa la differenza, queste due differenti ispirazioni non si escludono reciprocamente (è difficile pensare che Cruijff ritenga che nei momenti in cui non entra in contatto col pallone il giocatore debba disinteressarsi della struttura di squadra...); anzi, combinate hanno regalato i migliori momenti all’Ajax e al calcio olandese.

Ciò che invece sembra irriducibile, e affascinante pensando agli sviluppi futuri, è il conflitto riguardo alla formazione del giocatore emerso durante il “golpe” di Cruijff all’Ajax. In fondo tutta questa bella storia è nata da decisioni di brillanti individui fuori dagli schemi (per esempio, attraverso le testimonianze dei giocatori dell’epoca, in Brilliant Orange si ricorda che il pressing del Calcio Totale è nato dal dinamismo e l’aggressività del tutto spontanea di Neeskens nei movimenti senza palla, che ha convinto anche i compagni a seguirlo), e allora si può capire la preoccupazione di Cruijff volta a ridare spazio all’immaginazione oltre il sistema. D’altro canto però i geni per definizione sono pochi, e un sistema basato sull’esaltazione dell’individualità non darà mai tanti Cruijff, mentre il giocatore medio renderà meglio con le certezze che può offrirgli la struttura su cui pone invece l’accento Van Gaal.

La maturità

Per alcuni però l’ultimo van Gaal è già un altro van Gaal, meno rigido. Il campionato olandese vinto con l’AZ Alkmaar nel 2009 segna il rilancio ed è uno dei suoi capolavori: van Gaal nota che nella Eredivisie tutti giocano molto aperti, e allora per la prima volta in carriera opta per difesa e contropiede. Lui che, nonostante i tantissimi cambi di modulo in carriera (dal mitico 3-4-3 col centrocampo a rombo dell’Ajax allo strambo 3-4-2-1 del suo fallimentare secondo Barça, passando per i 4-2-3-1 di Bayern e Olanda 2000-2002), ha sempre dichiarato il 4-3-3 suo modulo ideale, per la particolare geometria che favorisce la formazione di triangoli in tutto il campo; lui che ha sempre sottolineato la necessità in fase di possesso di “scomporre” questo 4-3-3 in molte più linee («quando ho il pallone voglio i giocatori disposti su otto linee», per moltiplicare le opzioni di passaggio utili) e “allargare” il campo, ora che non vuole più il possesso fa leva sulla necessità opposta, e cioè raccogliersi in poche linee ben strette per coprire meglio sugli attacchi avversari. Cosa c’è di meglio quindi del tanto classico quanto anti-olandese 4-4-2 senza ali?

E in tutto questo van Gaal arriva a esprimere convinzioni prima impensabili: «Quando diventai il nuovo allenatore, cercai di imporre alcuni aspetti del gioco a ragazzi che giocavano in maniera intuitiva, e questo non funzionò. Ho imparato che questo tipo di giocatori beneficia meno di strutture e sistemi, e ha bisogno di maggior libertà. Moussa Dembélé era un giocatore intuitivo che ho lasciato libero in una misura notevole per il mio stile abituale (...) aveva tantissima libertà». Chi avrebbe immaginato che un semplice Dembélé avrebbe potuto innescare sviluppi simili quando circa dieci anni prima van Gaal non si faceva problemi a mettere in panchina il Rivaldo fresco di Pallone d’Oro che si rifiutava di continuare a giocare sulla fascia sinistra?

Se togliessimo la (comunque importantissima) parentesi al Bayern, di nuovo ricca di tensioni e accuse di rigidità (Ribéry dice di non essersi mai divertito giocando per van Gaal), la fase pragmatica dell’AZ sembrerebbe quasi il prologo del van Gaal camaleontico dell’ultimo Mondiale. L’Olanda si qualifica agevolmente con un 4-3-3 canonico che convince critica e tifosi. Nel mandato affidatogli dalla federazione c’era anche quello di recuperare l’essenza storica del calcio olandese dopo la parentesi interlocutoria di van Marwijk. Ma con l’infortunio di Strootman, “collante” fra centrocampo e altri reparti, van Gaal rivolta come un calzino la squadra: i modi e il risultato di questo cambiamento sono in totale controtendenza rispetto allo stereotipo del personaggio.

Non trova nessuno pronto a ricalcare le funzioni di Strootman, e quindi ha paura che senza quel tipo di giocatore il 4-3-3 si allunghi lasciando troppi spazi dietro; allora va a vedere una partita del Feyenoord e trae ispirazione da uno dei suoi “nemici”: Ronald Koeman (dissidi risalenti al periodo in cui Koeman era giocatore e van Gaal dirigente dell'Ajax) che gioca con la difesa a 5. Non solo, prima di decidere il cambio consulta le stelle della squadra, van Persie che assiste alla gara con lui, Robben via telefono: quelle stelle che nella sua “ideologia” non vengono mai prima del collettivo, cucendogli addosso un modulo che, nonostante lo shock iniziale del pubblico olandese, alla fine calza a pennello.

Libertà pressochè totale per Robben, van Persie e Sneijder in un sistema di gioco che, cedendo il pallone all’avversario (contrastato con marcature a uomo che avrebbero emozionato Gianni Brera) cerca di creare loro più spazio possibile in contropiede. Van Gaal porta in alto un’Olanda qualitativamente non ai suoi massimi storici facendo tesoro della lezione appresa dal precedente fallimento da CT, e cioè che una Nazionale non si può organizzare nei minimi dettagli come un club. E ora che può di nuovo plasmare un club a sua immagine, che van Gaal stiamo vedendo?

La partita che più di tutte testimonia la bontà dell'intuizione di van Gaal: il 5-1 alla Spagna campione del mondo in carica (via FIFA TV).

Contro il calcio inglese

Alla prima stagione a Manchester non si può dire che van Gaal abbia deluso le aspettative. Anzi, forse è andato persino oltre. Se le sue squadre tendono a stentare nei primi mesi, qui gli stenti si sono prolungati fino al mese scorso, da quando ha iniziato a vedersi qualche incoraggiante schiarita. Il van Gaal di sempre arriva, pubblicizza la sua “filosofia”, stampa e tifosi si chiedono cosa sia e come faccia a essere così sicuro delle sue idee visti i continui cambidi formazione e le prestazioni altalenanti. Dopodiché arrivano puntuali le polemiche e le incomprensioni, che comunque non minano la base di fiducia e di rispetto per risultati più o meno in linea con le aspettative.

Contando che dopo i disastri della scorsa stagione non si esigeva tanto la vittoria immediata del campionato quanto piuttosto un ritorno fra le grandi, che la rosa rimane non definita al meglio (dei nuovi acquisti solo Blind e Rojo pare siano state espresse richieste di van Gaal) e che pure gli infortuni hanno pesato, l’attuale terzo posto, piuttosto saldo e con possibilità di scalata al secondo (un solo punto di distacco dall'Arsenal) potrebbe rappresentare una buona premessa per gli altri due anni previsti dal contratto di van Gaal.

Dopo il capolavoro di flessibilità con la Nazionale olandese, allo United è tornato un van Gaal deciso a imporre le sue idee. E la sua visione del calcio ci ha messo poco a scontrarsi con la cultura calcistica inglese e del Manchester United in particolare. Il suo United è primo nel campionato inglese per passaggi indietro effettuati, e se è vero che van Gaal viene da una “cultura del passaggio indietro” (non di rado capita di sentire l’Amsterdam Arena o il Camp Nou applaudire un passaggio indietro come premessa per un attacco ordinato e corale, che coinvolga tutti i reparti), forse è capitato nel posto in assoluto in è difficile che una cultura del genere attecchisca.

Scontro tra titani

Manchester United vuol dire Sir Alex Ferguson, vuol dire Treble 1999, vuol dire una squadra che volava senza paracadute, assaltando l’avversario senza mai fare un passaggio indietro, al massimo la sponda di Cole e Yorke per l’inserimento a rete di Scholes. E pure quando in Europa Ferguson ha optato per difesa e contropiede (Champions 2008), l’idea di gioco verticale non è mai venuta meno. Non sorprende quindi che proprio Scholes arrivi a definire “miserable” lo United di van Gaal: «Per vincere devi attaccare, e per attaccare devi rischiare. Troppo pochi in questa squadra son pronti a prendersi questi rischi». Anche van Gaal vuole avere sempre l’iniziativa, ma il suo possesso palla controllato parte da premesse che tanto a una leggenda del club come a un tifoso medio possono sembrare innaturali.

Se il primo scoglio incontrato da van Gaal è “filosofico”, il secondo è puramente tattico. Diventa impossibile ricapitolare qui per filo e per segno tutti i diversi moduli e giocatori utilizzati in questa stagione, si può solo azzardare un riassunto. Pochi hanno capito tutte queste giravolte di van Gaal, ma ancora meno hanno capito l’iniziale ricorso alla difesa a 5. Ciò che con l’Olanda era un ingegnoso adattamento alle circostanze, allo United, in condizioni completamente diverse, è parso una forzatura.

Nell’intervista già citata con Gary Neville, van Gaal spiega che con 5 uomini dietro diventa più facile difendere, perché i tre centrali possono alternarsi fra i due riferimenti («La zona e l’avversario che ci si muove») lasciando comunque meno di 15 metri fra l’uno e l’altro. Al tempo stesso, argomenta van Gaal, con la copertura dei tre difensori centrali, i due uomini di fascia, i terzini-ala, hanno completa libertà offensiva («Possono sempre spingere. Tutti e due allo stesso tempo»). Non a caso nel ruolo vengono adattate ali vere e proprie come Ashley Young, che compete a sinistra con il costosissimo e finora deludente Luke Shaw, e Antonio Valencia, che presto si impadronisce della fascia destra davanti a un inadeguato Rafael. Nello United immaginato in estate da van Gaal i terzini-ala sono il riferimento “a occhi chiusi” determinante per dare al pallone la velocità desiderata («Devi cambiare gioco. Sai che i giocatori larghi sono sempre liberi»).

Tutto questo però è rimasto solo sulla carta: anzitutto, è diverso il contesto dello United rispetto a quello dell’Olanda del Mondiale. Qui a Old Trafford l’idea di van Gaal è un calcio di possesso, e comunque, anche non volendolo, nel 90% delle partite di Premier l’iniziativa l’avrà lo United per la differenza di livello con la maggior parte degli avversari. Il 5-3-2 dello United deve quindi crearsi gli spazi utili in attacco in maniera completamente opposta al 5-3-2 contropiedista dell’Olanda del Mondiale. Inoltre, considerando che, a dispetto della tradizione dei cross e dei centravanti puri, anche in Premier League ormai il 4-2-3-1 va per la maggiore, il terzo difensore centrale inizialmente proposto da van Gaal in molti casi diventa quasi un giocatore superfluo, un uomo regalato al centrocampo avversario.

Difensori del passato

Il problema però non riguarda mai i moduli in astratto, quanto piuttosto il significato che gli danno i giocatori una volta in possesso del pallone. Nello United con la difesa a 5, nonostante le idee di van Gaal sui difensori centrali come “registi del futuro”, i due difensori in più non hanno mai generato alcuna superiorità numerica e la fase di uscita del pallone dalla difesa ha anzi creato svantaggi a catena su tutte le altre fasi del gioco, condannando lo United a un perenne squilibrio.

Vuoi per insufficiente organizzazione, vuoi per limiti tecnici degli interpreti, i tre centrali scelti di volta in volta fra Jones, Smalling, Rojo, Evans e i giovani Blackett e McNair (senza dimenticare le apparizioni di Carrick in difesa) non hanno mai fatto guadagnare metri allo United, né portando palla né trovando il passaggio smarcante per i centrocampisti. Anzi, essendo così tanti hanno finito per togliersi spazi a vicenda e rendere più facile il pressing avversario.

Il punto più basso della stagione del Manchester United, il 4-0 subito in Coppa di Lega dal Milton Keynes Dons, club di Football League One, la terza divisione del calcio inglese.

Se la palla esce così male dalla difesa, i terzini-ala, che si devono fare tutto il campo per smarcarsi in attacco, non potranno mai salire nei tempi e nei modi giusti. Questa linea di 5 giocatori rimane tutta schiacciata dietro, lontanissima dall’attacco, per cui l’unica possibilità di raggiungerlo spesso diventa il pallone lungo, frontale e con poca possibilità di successo.

Nei suoi peggiori momenti, lo United della difesa a 5 si trasforma in una bizzarra overdose di passaggi all'indietro intervallata da lanci a casaccio: quello che Gary Neville ha paragonato a una “squadra da torneo dei pub” e Sam Allardyce (dopo una partita col West Ham che lo United aveva a dire il vero giocato, malissimo, già con la difesa a 4) “Long-Ball United”, ottenendo una risposta piccata da van Gaal in una conferenza stampa con tanto di dossier statistici consegnati ai giornalisti e distinguo sui lanci lunghi che non sono fatti tanto per buttare il pallone ma per cambiare lato alla manovra.

Se la palla viene giocata male e persa presto, con la linea di difesa appiattita sull’area di rigore, il centrocampo ha troppi pochi effettivi per coprire la superficie necessaria, e allora diventa relativamente facile per l’avversario far circolare il pallone. Più l’avversario fa circolare il pallone, più gli spostamenti richiesti dalle marcature a uomo si prolungano e rimescolano le posizioni, disordinando lo United, che una volta recuperato il pallone sarà disposto male per ricominciare l’azione.

Questo il circolo vizioso in cui nei primi mesi si sono trovati i Red Devils, che (per quanto risultino ora la terza miglior difesa della Premier dopo Southampton e Chelsea con 28 gol subiti) più di una volta hanno dovuto ringraziare il loro miglior giocatore in questa stagione, il portiere De Gea, capace di rimediare alle incertezze in marcatura di Evans e Smalling (più affidabili invece Jones e Rojo, per quanto gli standard di Ferdinand e Vidic rimangano lontani) o alle ricorrenti distrazioni di Shaw nelle chiusure in diagonale.

Il circolo vizioso dello United. I 5 difensori (in questa partita da sinistra a destra Blind, Rojo, Evans, Jones e—fuori quadro—Valencia) hanno dovuto tutti ripiegare molto bassi. Con i difensori centrali tanto stretti e i terzini con così tanti metri da percorrere, a Carrick davanti alla difesa non rimane che rilanciare lungo (nemmeno Mata, il centrocampista più vicino, è un’opzione consigliabile, marcato e spalle alla porta).

Constatato l’insuccesso della difesa a 5, anche van Gaal si convince della soluzione invocata a furor di popolo: il ritorno alla difesa a 4. Questa permette una distribuzione dei giocatori un po’ più razionale, ma di per sé non è la pozione miracolosa. Se ora lo United non si chiude da solo le linee di passaggio a inizio azione come avveniva coi tre impacciati difensori centrali, continua tuttavia a fare una fatica tremenda ad attaccare le difese avversarie schierate.

Sterilità

Quando van Gaal passa al 4-3-1-2 col rombo a centrocampo, la distanza fra l’attacco e gli altri reparti teoricamente diminuisce, ma il problema del gioco esclusivamente frontale non scompare. I primi a essere chiamati in causa sono gli attaccanti, la grande delusione di questa stagione, a dispetto dei nomi prestigiosi e dell’investimento pesantissimo.

In particolare, non funziona mai la coppia van Persie-Falcao. Entrambi si muovono centralmente: van Persie ormai lo fa pochissimo (sembra aver cominciato la parabola discendente) e limita la sua partecipazione a quegli spunti nel controllo di palla o nella conclusione che il suo talento ancora gli permette; Falcao è più dinamico, copre molto più campo appoggiando spalle alla porta, ma copre solo l’asse verticale. Questo senza dimenticare che al colombiano stanno clamorosamente mancando l’ispirazione e i riflessi sotto porta (finora 6 gol in tutta la stagione!).

All’attacco dello United mancano i movimenti laterali così necessari nel 4-3-1-2: in questo modulo spetta infatti agli attaccanti e al trequartista a turno tagliare verso l’esterno per portare via avversari e generare così gli spazi in cui si possono inserire le mezzali o sovrapporsi i terzini, altrimenti destinati a portare palla senza alcuna capacità di sorpresa. Il giovane Wilson, interessante ma ancora acerbo, potrebbe fornire un’alternativa di movimento, ma il suo allungo frutta più in campo aperto che a difesa avversaria schierata, dove alcune imprecisioni nel controllo e una certa frenesia non possono ancora garantire l’appoggio di cui ha bisogno la manovra per progredire.

Muovere la difesa avversaria verso un lato e colpire su quello opposto. In questo gol allo Swansea c’è tutto ciò che lo United col 4-3-1-2 avrebbe dovuto fare e invece ha fatto troppo poco. Comincia Di María in percussione centrale, Fellaini legge bene l’azione e taglia lateralmente, portando via un avversario (0:02) e liberando in sovrapposizione Shaw. Lo Swansea è sorpreso e costretto a spostarsi tutto verso la sua destra per coprire, lasciando incustodito il lato opposto in cui, dopo il cross di Shaw, la sponda di Rooney (0:06) e la rifinitura di Di María si inserirà Ander Herrera (0:09) per la conclusione a rete.

La stagione dello Spaghetto

È stato difficile per van Gaal trovare la combinazione giusta tra i due attaccanti, fino ad arrivare in alcune partite all’esperimento Di María seconda punta, presto naufragato. Questa era una stagione potenzialmente di svolta per l’argentino. Dopo anni da spalla di Ronaldo nel Real Madrid e Messi nell’Argentina, il "Fideo" si era guadagnato sul campo il diritto a recitare finalmente da primattore. La maglia numero 7 assegnatagli dallo United di Best, Cantona e Cristiano Ronaldo certificava la nuova responsabilità di un giocatore ultimamente sempre più intento a spostarsi dalla fascia per influire su tutta la trequarti offensiva.

A parte gli infortuni, bisogna ammettere che l’argentino non è stato finora all’altezza di questa responsabilità. Non avendo la possibilità di correre libero e bello come il Robben dell’Olanda contropiedista, ha faticato a trovare posizione e tempi di gioco adeguati. Impiegato da seconda punta e da trequartista nel 4-3-1-2, difficilmente riesce a smarcarsi spalle alla porta, e quando arretra spesso fa confusione portando palla o cercando prematuramente il lancio. Anche da esterno tende a tagliare troppo presto verso il centro, senza aver portato prima via il marcatore, restringendo così gli spazi utili al compagno in possesso del pallone.

Di fatto, il contesto nel quale Di María ha brillato di più è quello iper-semplificato dell’Argentina dell’ultimo Mondiale, in cui il suo compito era prendere palla e portarla fino a Messi (risultando forse anche più incisivo di quel Messi). Ma in un sistema più complesso come quello di van Gaal, Di María sembra uno di quelli che fanno più fatica a passare da un comportamento istintivo a uno razionale.

Caos chiama Fellaini

Lo United col rombo ha offerto momenti di notevole caos, addirittura si è visto Rooney mezzala destra, palesemente a disagio nell’interpretare il momento in cui stringere o allargarsi per offrire la linea di passaggio. Il rombo e le punte non hanno mai dato respiro alla manovra, e se copri male il campo quando hai il pallone difficilmente potrai coprirlo bene quando lo perdi: da qui i rischi in transizione difensiva che, giocando con un difensore centrale in meno, hanno portato van Gaal a (testuali parole) “stringere le chiappe” in panchina.

Solo Januzaj da mezzala sinistra ha mostrato una buona lettura dei movimenti del rombo, ma anche il talentuosissimo belga, una volta schierato come trequartista, non ha saputo imporsi, lasciando indefinito un ruolo così importante. Così, in mancanza di idee ecco che arriva in soccorso il testone di Fellaini. L’anomalia Fellaini.

Talvolta visto come un male necessario e altre volte come un male e basta, il belga in estate era stato invitato a trovarsi un’altra squadra, ma a conti fatti ha finito col giocare parecchio, spesso nel desolante ruolo di ultima risorsa a partita in corso, quando lo United proprio non riesce a far arrivare il pallone all’area avversaria in altro modo che non sia il lancio disperato verso i quasi 2 metri dell’ex Everton.

Per quanto faccia storcere il naso a molti, la presenza di Fellaini acquista sempre più senso, soprattutto con l’ultimo cambio di modulo di van Gaal, passato al più “olandese” dei 4-3-3. Un modulo che in linea di massima, rispetto al 4-4-2 col rombo, offre riferimenti più facili per muoversi ai giocatori, soprattutto le ali fisse che oltre a offrire un passaggio di apertura sicuro diminuiscono anche il rischio, che tanto inquieta van Gaal, di trovarsi scoperti lateralmente in transizione difensiva. Riferimenti più facili a maggior ragione per un Fellaini che da trequartista molto sui generis non poteva trovarsi comodo per agilità sia di passo che di pensiero, spesso aggravando ulteriormente il problema del gioco esclusivamente frontale presentato dagli attaccanti.

Ora Fellaini fa la mezzala sinistra: sui rinvii di De Gea si defila verso un lato del campo, con l’ala e il terzino vicini, ed è molto facile da trovare. Da lì, lo United spesso guadagna la respinta e ricomincia l’azione in zone avanzate. Ma l’aspetto più incoraggiante delle ultime partite è che la palla alta per Fellaini è solo una risorsa in più, inserita in un sistema sempre più riconoscibile e prossimo all’ideale del tecnico.

Come evidenziato dalle ultime convincenti vittorie contro Tottenham e Liverpool, il possesso palla mediamente sempre alto (il Manchester United con 60,4% è secondo nella Premier dopo il Manchester City), ma un tempo sterile, comincia ora a creare situazioni di superiorità in maniera continua e coerente. E i giocatori iniziano a lanciare alcuni segnali che fanno pensare che questa benedetta filosofia abbia finalmente fatto presa: non si spiega altrimenti come lo Smalling che a inizio stagione balbettava palla al piede ora avanzi baldanzoso fino a liberare i compagni a centrocampo, o anche lo stesso Fellaini che si smarca tra le linee e si mette a triangolare senza colpo ferire (splendida la prestazione col Tottenham).

Tre pilastri

La cosa più importante rimane però poter aver finalmente tutti insieme in campo i giocatori più indicati per questo tipo di gioco, quelli che riescono al tempo stesso a non perdere palla, non perdere la distanza dal compagno e fare avanzare la manovra. In ordine sparso: Daley Blind, Michael Carrick e Juan Mata.

Blind, figlio d’arte, ha pregi tipicamente olandesi: senza risaltare agli occhi dimostra di poter giocare in ogni ruolo perché sembra conoscere il calcio meglio degli altri (tipo Philip Cocu che fece persino il centravanti per un paio di partite nel mondiale ’98, e lo fece pure bene). Il suo più grande difetto è quello di non potersi triplicare e giocare contemporaneamente difensore centrale, terzino e centrocampista centrale, i suoi tre ruoli. Ora fa il terzino, e da questa posizione così defilata riesce comunque a lasciare una grande impronta sul gioco. Provvisto di una tecnica tanto sobria quanto priva di sbavature, non fa mai nulla per caso e sa come pochi distinguere il momento in cui portare palla, passarla o sovrapporsi per il cross (precisissimo). Della sua presenza beneficiano elementi non raffinatissimi tatticamente come Fellaini e soprattutto Young (uno dei giocatori più elementari che si possano osservare in una grande europea: tiene la posizione, rientra sul destro e crossa. Stop), smarcati in situazioni favorevoli proprio grazie all’appoggio sempre intelligente di Blind.

Carrick è un giocatore più che mai importante in un sistema che fa leva spesso e volentieri sul passaggio indietro per riorganizzarsi. Il problema dello United nei primi mesi col 5-3-2 e col 4-3-1-2 non è consistito solo nella difficoltà di collegamenti con l’attacco, ma anche nella difficoltà, una volta superata una linea avversaria, di dare continuità al gioco anche col passaggio indietro e il cambio di gioco verso l’altra fascia. Carrick, per visione di gioco e qualità di tocco, è nell’organico il più abile a gestire questo passaggio indietro, e la sua assenza prolungata si è fatta sentire.

Tutta la squadra sembra avere più familiarità col gioco di posizione. Qui Smalling non è marcato, avanza portando palla anche oltre Carrick e serve tra le linee Herrera, che come Fellaini non deve mai abbassarsi troppo per prendere palla (per costringere l’avversario ad allungarsi sull’asse verticale mentre difende). Ancora una volta, «allontanarsi dal pallone per avvicinarsi al gioco».

E Carrick viene rafforzato dai passaggi indietro sensatissimi che dà Mata, altra chiave dei recenti progressi dello United, protagonista di una traiettoria che sembrerebbe stranissima se non fosse un giocatore di van Gaal alla prima stagione: semi-leader tecnico ad agosto quando ancora non era arrivato Di María e van Gaal gli consegnava tutta la trequarti in una sorta di 5-2-1-2; poi mezzala dal protagonismo via via minore, fino a una sorta di occultamento terminato solo poche settimane fa. Ora gioca in maniera paziente e intelligente sulla destra del tridente, da “falsa ala”: rientra sul sinistro, triangola, cuce i reparti, “addensa” il possesso palla e crea spazi per i compagni.

Mentre Blind è il motore del lato sinistro, Mata sta dando vita a una promettente società con Valencia, che finalmente trova qualcuno che gli detti i tempi per arrivare sul fondo senza dover forzare la percussione palla al piede, e con l’altro spagnolo Ander Herrera, anche lui passato da una condizione quasi di scarto (gli si preferiva Fellaini o Rooney fuori ruolo) a titolare praticamente fisso.

Mata offre ad Ander il contesto che desidera: l’ex Athletic Bilbao è un giocatore con un talento speciale nell’individuare già nel momento in cui sta passando o ricevendo palla la prossima linea di passaggio utile; lo si nota anche dalla gestualità tutta particolare, quando subito dopo aver passato palla si fionda come uno sprinter dopo la pistolettata e poi si sbraccia per segnalare ai compagni lo spazio appena “scoperto”. Un giocatore veramente dinamico, capace di dare ritmo al fraseggio, ma non il “box-to-box” della tradizione britannica (di fatto una delle sue più grandi carenze sono gli inserimenti in area avversaria, nonostante la doppietta nell’ultima con l’Aston Villa): ha infatti bisogno di spazi corti e compagni che si muovano in sincronia per esaltare il suo gioco di continui uno-due, quegli spazi corti che il 5-3-2 sfilacciato non gli offriva e quella sincronia difficile da trovare col Di María anarchico e frenetico che si è trovato a giocare nella sua zona.

Mata e Ander hanno fatto a pezzi il Liverpool giocando a nascondino negli spazi intermedi che laterale, centrocampista e difensore avversario non sapevano come gestire, e va detto che considerando il livello tattico non elevatissimo della Premier queste combinazioni così elaborate potrebbero mietere altre vittime. La fase offensiva più ordinata fa sì che anche i tempi di recupero del pallone si accorcino: i giocatori son meglio piazzati e quando marcano “a uomo nella zona” come vuole van Gaal, non sono più costretti a spostamenti così lunghi da alterare il disegno tattico e con ciò rendere più difficile organizzare la successiva fase di possesso.

In questa sequenza di pochi secondi si vedono le marcature a uomo di van Gaal. Uno dei due mediani del Tottenham, Mason, si è sganciato in avanti, Fellaini lo segue fino a terminare sulla linea dei difensori, Carrick invece, che partirebbe come vertice basso al centro, segue il movimento laterale di Eriksen.

Herrera non perde mai Bentaleb, mentre anche Smalling una volta che capita nella sua zona segue Harry Kane. Va comunque detto che con il possesso-palla che funziona, ogni giocatore dello United tende a seguire l’uomo nella sua zona per pochi metri prima di recuperare palla, quindi alterando tendenzialmente poco il 4-3-3 di partenza.

Una squadra

Insomma, pare che le tessere stiano tornando tutte al loro posto, e dopo tante peregrinazioni anche Rooney è tornato a casa, cioè in attacco. Criticato per l’evidente calo realizzativo, candidato secondo alcuni a una riconversione a centrocampista sulla falsariga di Bobby Charlton (lo aveva già utilizzato lì David Moyes) con van Gaal ha finito col giocare tantissimo da mezzala e in alcuni momenti addirittura davanti alla difesa, con uno spirito molto intraprendente e una partecipazione che non hanno comunque mascherato la mancanza di mestiere nel ruolo.

Così, meglio per tutti tornare davanti, ora da unica punta, non solo per l’attuale scarsa credibilità delle alternative ma perché di tutti gli attaccanti Rooney è quello che garantisce più mobilità (anche laterale) e qualità negli appoggi, dettaglio fondamentale in un sistema come quello di van Gaal in cui forse ancora di più dei gol è importante la capacità del “9” di mettere fronte alla porta i compagni (Kluivert è il centravanti ideale, e non è mai stato visto come “quello che deve fare gol”, o almeno non più dei Litmanen e dei Luis Enrique che alle sue spalle agivano da “centravanti ombra”).

Ma anche Rooney dovrà stare in guardia: van Gaal non assicura il posto a nessuno, e una volta radicata l’idea di gioco, la prossima estate gli acquisti saranno determinanti per far fare il salto di qualità al progetto. Considerando l’insuccesso di Falcao e il possibile declino di van Persie, arriverà una punta, mentre van Gaal ha già espresso come principale desiderio l’acquisto di un centrocampista creativo nel ruolo di mezzala, il che dovrebbe far tornare nei ranghi Fellaini e non far stare troppo tranquillo nemmeno Ander Herrera. Probabile anche l’acquisto di un altro difensore centrale, dato il tasso qualitativo non proprio eccelso di quelli attualmente disponibili.

Da non sottovalutare poi l’invecchiamento di Carrick, 33 anni per un giocatore senza reali sostituti in rosa (a parte forse Blind), e nemmeno le prospettive che può ancora offrire l’organico attualmente disponibile. Ad esempio, le qualità di Blind fanno pensare a un futuro spostamento al centro della difesa, una sorta di doppio regista assieme a Carrick (meglio così che ancorati sulla stessa linea a centrocampo), mentre Di María, di cui abbiamo sottolineato più volte le difficoltà, resta comunque uno dei giocatori sulla carta più devastanti della Premier, e dovrebbe tornare naturalmente titolare, probabilmente nel ruolo originario di esterno puro, in una zona più circoscritta rispetto ai tentativi falliti sulla trequarti, non sulla fascia destra di Mata ma a sinistra, al posto di Young, da dove ha già contribuito a partita in corso con l’assist per il secondo gol di Mata ad Anfield e per la perla di Rooney contro l’Aston Villa.

Ora che finalmente sembra esserci una squadra, le cose dovrebbero diventare più facili per lui come per tutti i suoi compagni.

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