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Foto di Alessandro Sabattini/Getty Images
Calcio Daniele Manusia 24 agosto 2021 7'

Cosa c’è dietro una grande giocata

Una riflessione a partire dall’ultimo weekend di calcio.

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Forse il mio momento preferito da questo primo week-end di Serie A è arrivato al 58esimo minuto di gioco di Napoli-Venezia. Lorenzo Insigne aveva appena sbagliato il primo rigore della sua partita (il secondo, come sappiamo, lo avrebbe messo dentro poco più tardi) e il Venezia, con un uomo in più dopo l’espulsione di Osimhen nel primo tempo, giocava tranquillamente la palla con i difensori a metà campo. Dopo un lento giro la palla arriva a Mattia Caldara sul centro-destra, che ha davanti il norvegese Dennis Johnsen, sulla trequarti, nel corridoio tra Mario Rui e Koulibaly. Johnsen indica con la mano i suoi stessi piedi, dove gli piacerebbe ricevere il passaggio, ma Caldara alza la palla con l’interno. Il lancio scavalca Mario Rui ma è troppo corto perché Johnsen lo lasci scorrere. Potrebbe controllarlo con il petto, ma Koulibaly a meno di un metro di distanza non aspetta altro per intervenire. Allora Johnsen ha un’intuizione, si fa sbattere la palla sulla schiena e, con i dorsali o forse direttamente con la scapola, smorza la palla per un compagno di squadra che sta arrivando da dietro, il belga Daan Heymans, che calcia di collo forte ma centrale. Quello di Johnsen è un gesto originale, poco ortodosso, che non si può insegnare in nessuna scuola calcio. Anche se non è un gesto tecnicamente difficile, o esteticamente bello. Una schiena è una schiena, viene da dire, non è che Johnsen può colpire la palla di schiena con maggiore sensibilità o grazia di, mettiamo, Politano, giusto?

 

Quando guardiamo gesti tecnici di solito sottolineiamo la straordinarietà dell’esecuzione, la coordinazione, l’elasticità, il tempismo, la potenza, la precisione. Ma c’è sempre anche una componente puramente mentale, che riguarda la possibilità stessa che quel calciatore pensi quel determinato gesto, e quindi la possibilità stessa di gesti fuori dalla norma.

 

 

Prendete il gol famosissimo segnato da Zinedine Zidane nel 2002, in finale di Champions League contro il Bayer Leverkusen. Certo il movimento del corpo di Zidane ha un’armonia unica, con la gamba d’appoggio a quarantacinque gradi rispetto al terreno da gioco, e la gamba sinistra, quella che calcia, tesa anch’essa, e quella rotazione velocissima che lo fa sembrare un enorme compasso che si muove sulla carta, ma che ha anche qualcosa di brutale e definitivo come i colpi da KO, come se al posto della palla ci fosse stata una testa cioè; ma parte della meraviglia che proviamo di fronte a questo gol (e potrei rivederlo cento volte senza perderla, questa meraviglia) sta nel fatto che nessuno tranne Zidane avrebbe pensato di colpire al volo quel cross di Roberto Carlos che pioveva un po’ a caso al centro dell’area di rigore. Se Zizou avesse controllato come fa di solito, incollandosi la palla al piede, come se fosse sparita all’interno di una busta (o come un tuffatore che curva e sparisce sotto il pelo dell’acqua senza sollevare schizzi), nessuno di noi avrebbe avuto da ridire dicendo che quella era una palla da calciare al volo.

 

Quello che sto cercando di dire è un’ovvietà, ma non si parla abbastanza della difficoltà che c’è dietro all’originalità di certi pensieri che fanno i calciatori. O magari non è facile trovare le parole adatte, distinguere con esattezza tra la capacità decisionale che è dietro certo giocate e l’esecuzione tecnica delle stesse. Facciamo un esempio diverso, sempre da questo week-end. Dopo tredici minuti di Southampton-Manchester United, Paul Pogba lancia in profondità, di esterno, Anthony Martial, che con un difensore addosso decide di fermarsi al limite dell’area di rigore. Martial torna indietro e chiama un triangolo a Bruno Fernandes, che prova a fargli tornare la palla con un pallonetto, anche lui usando l’esterno del piede. L’azione ricorda vagamente quella con cui Cantona manda in porta Irwing (nel 4-1 con il Tottenham della stagione 1992-’93), solo che in quel caso la palla cade sull’interno del piede di Irwing che dopo il controllo calcia indisturbato. Nel caso di Martial invece la palla di ritorno è alta e leggermente arretrata, o forse è lui ad aver corso troppo in avanti, fatto sta che la sola cosa che può fare è colpirla con la spalla, neanche di testa, in controtempo, sperando che in qualche modo Bruno Fernandes copra i metri di campo che lo separano da lui, passi in mezzo alla difesa del Southampton che gli si è chiusa attorno, e calci in porta. Ma era davvero la sola cosa che poteva fare?

 

 

 

In questo caso Martial non ha avuto l’immaginazione per pensare a qualcosa di diverso e la sua idea, per quanto simile a quella di Johnsen, è completamente slegata dal contesto. È come se la palla gli sbattesse addosso, il suo passaggio cade nel vuoto. È un gesto tecnico che resta astratto, del tutto teorico, avrebbe funzionato solo nel caso in cui, ma è impossibile, Bruno Fernandes lo avesse intuito in partenza, nel momento stesso in cui serviva quella palla in area, e avesse corso a tutta velocità in mezzo alla difesa. Quella di Johnsen è una palla, invece, che arriva al compagno senza che neanche se ne accorga, che lo sorprende in positivo, che allarga l’orizzonte delle possibilità a disposizione.

 

Ma non è una questione che riguarda il pensiero razionale, il tempo a disposizione, il tempo di reazione in certi casi va sotto quello necessario al pensiero cosciente. Il corpo in questi casi reagisce con una consapevolezza propria, che per Martial significa la consapevolezza che l’unico gesto tecnico possibile fosse quel colpo di spalla. È una decisione evidentemente sbagliata, qualsiasi tipo di controllo, magari inefficace, sarebbe stato preferibile, ma Martial non ha davvero scelta, quella è davvero l’unica cosa che lui può pensare in quel momento. Avesse avuto un’altra tecnica nel controllo con il petto, un’altra sensibilità nei movimenti a corpo libero, magari avrebbe potuto provare a ruotare insieme alla palla portandosela sul sinistro, o a farla scendere sul destro sul posto.

 

Quando vediamo una grande giocata tecnica ci rendiamo conto, anche noi a livello inconsapevole, della difficoltà del lavoro stratificato che richiede. Per questo a volte basta un singolo gesto per innamorarsi perdutamente di un giocatore, che poi significa credere in lui, nelle sue potenzialità. Il controllo di Antonio Cassano contro l’Inter, il suo primo gol in Serie A, è anticipatorio di quel talento unico per sensibilità e fluidità, che lo faceva sembrare fatto d’acqua, che gli permetteva di scorrere lungo il campo dribblando avversari, e nessuno ha messo in dubbio che fosse qualcosa di episodico, o casuale. Era chiaro che il corpo tutto di quel giocatore avesse negli anni creato un rapporto col pallone che non aveva nessun altro, e che il suo cervello potesse pensare cose nuove, o comunque sorprendenti per chiunque non avesse il suo stesso cervello e rapporto con la palla.

 

In un certo senso, pur parlando di giocatori d’élite, non tutti vivono nello stesso “mondo tecnico”. Le leggi della fisica che impietose costringono Martial a perdere palla in area di rigore non sono le stesse che permettono a Dybala, nel suo primo gol contro l’Udinese, di anticipare due avversari con un colpo di punta-esterna che manda la palla sul secondo palo. Come un uccello non si relaziona allo spazio come facciamo noi, che dobbiamo muoverci con i piedi per terra e considerare gli ostacoli che abbiamo davanti, alla nostra velocità, così per Dybala la distanza che separa la palla dalla porta non è la stessa che per i giocatori più “normali” (che comunque, rispetto a noi spettatori, vivono su un altro mondo ancora).

Anche dietro quel singolo tocco di Dybala è possibile intravedere un intero rapporto col pallone che lo distingue da quasi tutti gli altri professionisti. La memoria di chissà quante centinaia o migliaia di tocchi di esterno memorizzati direttamente nel piede, nei muscoli delle gambe, grazie a cui oggi può arrivare con il passo lungo sulla palla per recuperare il metro e mezzo di svantaggio che ha rispetto ai difensori, e calciare con quella che sarebbe stata la gamba d’appoggio di un altro giocatore.

 

Lo stesso vale per il controllo elettrico con cui Giacomo Raspadori passa alle spalle di Gunter, al 36esimo di Hellas Verona-Sassuolo. Il lancio in diagonale di Djuric gli cade perfettamente sulla corsa e un altro giocatore avrebbe potuto controllare di interno sinistro, dopo il rimbalzo, la palla. Raspadori, invece, che può muovere la palla con entrambi i piedi anche in spazi stretti, allunga leggermente il passo per schiacciare la palla a terra con l’esterno, dandole la forza sufficiente per lanciarsi dietro la difesa, che poi brucia in velocità.

Anche questo è un gesto tecnico impossibile da insegnare, per quanto semplice tecnicamente, facilmente ripetibile. L’idea che ha avuto in quel momento Raspadori – che forse ha intuito la rotazione di Gunter, che al momento del suo controllo è piantato in orizzontale – è intimamente legata alle sue qualità tecniche e ha creato un’occasione dove un altro si sarebbe limitato ad eseguire un controllo. Alcuni giocatori hanno maggiori potenzialità di altri non solo dal punto di vista atletico, o balistico, ma anche sul piano del pensiero. Non voglio dire che Martial – nazionale francese, con una tecnica che la metà degli attaccanti del campionato italiano e inglese si sognano – sia un giocatore limitato, quanto piuttosto che l’intelligenza calcistica, un intreccio indissolubile di memoria, esperienza, allenamento, talento, immaginazione, svolge un ruolo enorme in ogni partita, influenzando la dimensione delle prestazioni di tutti i giocatori. (Da dove nasce il calcio? Dalla testa o dai piedi? È una questione ricorrente nel calcio latino).

 

In una scena del film Opera senza autore (ispirato alla vita del pittore tedesco Gherard Richter) negli anni in cui il protagonista lavora in una tipografia della Germania dell’Est, un collega lo rimprovera perché dipinge a mano le lettere delle insegne, anziché usare gli stencil come tutti. Vuoi farti bello a nostre spese? Umiliarci? Gli chiede più o meno quello. Perché lo fai? Il protagonista ci pensa su e poi risponde: «Perché posso farlo». Allo stesso modo i calciatori con potenzialità più grandi di altri faticano a razionalizzare. Se gli si chiede come gli è venuto in mente di colpire la palla proprio in quel modo, specie se è un gesto tecnico anticonvenzionale, la risposta quasi sempre è che si trattava dell’unico modo con cui avrebbero potuto colpire la palla (risposta che ha dato, ad esempio, Ibrahimovic quando gli è stato chiesto dei suoi gol con lo scorpione). In un certo senso tutti fanno quello che possono, in un campo da calcio, qualcuno però fa cose che può solo lui, o quasi.

 

 

Tags : calciogiacomo raspadoripaulo dybala

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).

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