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Perché i calciatori dicono sempre di essere umili?
02 dic 2017
02 dic 2017
Gianmichele ci ha chiesto perché per i calciatori l'umiltà è così importante. Risponde Emanuele Atturo.
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Alla redazione de "l'Ultimo Uomo",
Essendo un gran appassionato di sport non solo nei suoi meccanismi tecnico/tattici ma anche in quelli psicologici la mia domanda è: "A cosa è dovuto il ricorrente utilizzo, quasi al limite della perversione lessicale, in tutte le dichiarazioni dei calciatori del termine umiltà?".

 

Ammetto che andrebbe parafrasata, quindi cercherò di spiegarmi meglio:

 

Comprendo che l'umiltà sia un'ottima magister vitae ma per quanto riguarda la mia esperienza personale questo termine in ambito calcistico è davvero onnipresente.

Sia che ascolti l'intervista di un calciatore di serie A, che parli con un amico che ha appena firmato per la Pro o che chiacchieri con un tecnico di Terza Categoria, questo sostantivo spunta in una frase su tre (ma anche due).

 

Non essendo mai stato completamente immerso nel microcosmo calcistico e nei suoi meccanismi sociologici, sarei curioso di sapere:

 

"Cosa significa essere umile per un calciatore? E per una squadra?"

 

In effetti i giorni d'oggi potrebbero essere davvero i più adatti a questo tipo di riflessione.

 

Seguono umili ringraziamenti per il tempo dedicatomi,

 

buon lavoro,

 

Gianmichele

 

 

 



 

 

Caro Gianmichele,

la tua curiosità nasce probabilmente dalle interviste di giocatori, allenatori, addetti ai lavori che si sforzano, spesso dopo una vittoria o un successo personale, di dichiarare la propria umiltà. Lo fanno esplicitamente (“Mi considero un ragazzo umile”) o attraverso giri di parole (“dobbiamo mantenere i piedi per terra”; “non abbiamo ancora fatto niente, c’è ancora molto da lavorare”; “dobbiamo pensare partita per partita”). Il più delle volte usano questa strategia comunicativa per dare un messaggio interno: non sentirsi appagati aiuta a mantenere alta la tensione. Ma lo fanno anche per bilanciare lo scarso equilibrio dei media che, come sappiamo, fanno presto a gonfiare gli entusiasmi attorno a un periodo positivo, per una squadra o per un giocatore - salvo poi smontarlo totalmente alle prime difficoltà. Mandare un messaggio di equilibrio mette al riparo dalle prossime critiche.

 

È una dialettica rigida, che si ripete uguale a sé stessa da anni e che è inevitabile per come si struttura il discorso sportivo in Italia. Il commento calcistico raramente scava oltre la superficie, che è ricoperta di giudizi che sfuggono dalla complessità e che si riducono spesso alle dicotomie bene/male, buono/cattivo, giusto/sbagliato.

 

Dietro alla scorze delle cose, però, spesso di annidano meccanismi più complessi.

 

Una cosa che va considerata è che i calciatori sono persone elette. Hanno un talento raro e hanno comunque dovuto passare una selezione darwiniana per metterlo a frutto. Per molti sono la cosa più vicina alle divinità. La maggior parte del pubblico italiano, che li guarda in tv e li segue sui social vorrebbe stare al loro posto: i calciatori questo lo sanno e dichiararsi umili è il mezzo che usano per dirci che sono ancora come noi, che non si sono montati la testa. Nonostante girino con macchine veloci, tagli di capelli sempre freschi e borse ridicolmente costose, rimangono persone umili. Secondo il dizionario Treccani del resto l’umiltà è anche un «sentimento e atteggiamento umilmente riverente e sottomesso». Quindi l’umiltà non è solo una forma di difesa dalla superbia, ma anche  qualcosa che cerca di definire i rapporti con chi ci sta attorno. In un certo senso i calciatori si dichiarano umili anche per rassicurarci che non sarebbero niente senza noi tifosi.

 

Io però ho l’impressione che lo ripetano anche per accontentarci: i giocatori si riempiono la bocca di umiltà perché è proprio quello che vogliamo sentirci dire. Perché, di converso, la mancanza di umiltà è ciò che meno perdoniamo a un calciatore. Quello che non sopportavamo di Balotelli era soprattutto quella che consideravamo la sua “sbruffonaggine”, un’eccessiva sicurezza di sé che poi gli è tornata indietro sotto forma di declino calcistico e depressione umana. Come agli antichi peccatori di Hybris.

 

La narrazione dell’umiltà, insomma, ci piace perché annulla le distanze fra noi e questa specie di divinità pagane, ce le fa somigliare all’amico che giocava con noi al campetto e che ce l’ha fatta, pur rimanendo sempre quello con cui dividevamo le goleador in parrocchia. L’amore per certi giocatori nasce soprattutto da questo tipo di narrazione. Pensiamo a Belotti, che a differenza di Balotelli ha conservato un’aria da “cocco di mamma” e ci permette di immedesimarci perfettamente col suo successo. Balotelli se ne gira a torso nudo, fumando narghilè sopra dei suv scoperchiati; Belotti alla cena del suo compleanno non ha neanche offerto la cena e il suo allenatore ha dovuto costringerlo.

 

Un paio di anni fa Walter Veltroni ha intervistato Roberto Baggio: due personaggi che incarnano in maniera forte, sebbene diversa, i buoni sentimenti nazionalpopolari. Durante 

 il concetto di umiltà ricorre 6 volte. Quando Baggio deve dire quale valore trasmetterebbe ai propri figli non ha dubbi: «L’umiltà. Se sei umile, non hai paura di imparare. Io nella mia vita ho ricominciato mille volte da zero. Ho fatto un eterno gioco dell’oca. Arrivavo alla casella finale e poi, per un incidente, dovevo ripartire da capo. Ma se sei umile non hai mai problemi ad affrontare sfide. Gli arroganti hanno paura del futuro. Gli umili lo cercano. Se vuoi essere qualcuno, nella vita, devi essere umile».

 

Dall’altra parte però i calciatori non possono fare altrimenti. Nel loro dichiararsi umili c’è, di fondo, l’accettazione della futilità e della mutevolezza delle cose. La consapevolezza che nel calcio tutto cambia molto velocemente. Per mostrare più sicurezza di sé bisogna aver raggiunto uno status così indiscutibile da non poter più temere nulla, che è il caso di Zlatan Ibrahimovic. La non umiltà dello svedese, il suo mettere le distanze tra lui e noi, è arrivato al punto in cui si definisce direttamente non-umano: «Sono un leone, non un uomo». Il successo della narrativa di Ibrahimovic passa proprio dal ribaltamento di questa retorica dell’umiltà; ma è allo stesso tempo il motivo che lo ha reso un personaggio divisivo, specie a inizio carriera, quando ancora doveva raggiungere questa condizione da venerato maestro.

 

Non so se a te dà fastidio sentire i calciatori riempiersi la bocca di umiltà, in fondo è questione di gusti. Preferiamo gli eroi nazional-popolari, i ragazzi della porta accanto, oppure superuomini che sembrano non condividere niente con noi? A me sembra che la narrativa dominante sia la prima, e per questo i calciatori non possono smettere di dichiararsi umili, dimessi, modesti. Non possono davvero fare altrimenti.

 

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