• Calciatore del mese
Daniele Manusia

Il calciatore di gennaio 2020: Josip Ilicic

Lo sloveno ha vinto il premio Calciatore del mese AIC per il mese di gennaio.

Da nove anni guardiamo Josip Ilicic ma non capiamo che giocatore sia. È sempre stato lento e fragile, un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. E lo è rimasto anche oggi che è probabilmente il miglior giocatore della Serie A. Lo abbiamo considerato come un giocatore bello da vedere, capace di qualche colpo di genio, ma a cui manca qualcosa per salire al livello dei migliori in assoluto. Forse gli manca la costanza, o la voglia. Continua a non essere perfetto e non fa niente per nascondere i propri difetti, semmai è tutto il resto che ci tiene nascosto. È al tempo stesso timido e furbo, gioca come se non gli interessasse essere notato, da noi e dagli avversari. Si sottrae allo sguardo e al contatto, perché altrimenti come il vaso di legno di Esopo che non vuole vicino a sé il vaso di ferro, mentre entrambi vengono trasportati dalla corrente del fiume, andrebbe in mille pezzi. Ma sembra sapere qualcosa che gli altri giocatori in campo non sanno. 

 

Con la tripletta segnata lo scorso sabato, nel devastante 0-7 con cui l’Atalanta ha battuto il Torino a Torino, Ilicic ha pareggiato la sua migliore stagione di sempre dal punto di vista realizzativo (quella 2015/16 in cui ha segnato 13 gol con la maglia della Fiorentina) e ha superato Paolo Rossi come gol totali in Serie A (ottantacinque). È la sua quarta tripletta in due anni e solo Messi (sette) e Aguero (sei) hanno fatto meglio.  Nel mese di gennaio ha segnato sette gol in cinque partite (sei in quattro, se consideriamo solo il campionato) e anche se in mezzo ci sono due sconfitte e un pareggio è ormai opinione comune che si tratti di uno dei migliori giocatori del campionato. 

 

È evidente, ad esempio, quando Djiji e Lukic, dopo essersi fatti fallo da soli, lasciano la palla a metà campo senza pensare che Sirigu è lontano dalla porta, e Ilicic sorprende tutti calciando a giro nella porta vuota. Quando si piazza tra Vicari e Reca aspettando il cross rasoterra di Zapata, con il corpo già pronto a metterlo in porta con il tacco sinistro, con una piroetta. Quando in una situazione simile si mette alle spalle di Pezzella, aspettando il cross lungo di Gosens, che schiaccia in porta con tiro al volo tanto secco e potente quanto il movimento a compasso della sua gamba sinistra è stato elegante. In questi casi non possiamo non riconoscere che Josip Ilicic, oltre a una grande tecnica, ha anche un grande intuito e una grande visione di gioco. Quando questo genere di cose le fa nel giro di un mese, anziché di una o più stagioni, diventa quasi innegabile che si tratta di un giocatore con qualcosa di straordinario. 

 

 

Poche settimane fa, Flavio Fusi scriveva su Statsbomb che secondo i loro dati (Expected Assists in open play, Expeceted Goals, xG/tiro, dribbling, tocchi in area, falli subiti) «la stagione 2018/19 di Ilicic è stata paragonabile solo a quella di Lione Messi e Neymar» e che in quella corrente stava facendo ancora meglio. E secondo le statistiche di Alfredo Giacobbe al momento è primo in Serie A in praticamente tutte le statistiche offensive: gol ogni novanta minuti (0.8), xG in open play (0.5), xA in open play (0.4) e passaggi effettuati in area (3.3). 

 

È significativo che ci si fidi di lui solo adesso che sono tre anni di seguito che va in doppia cifra, pur sapendo che non si tratta di un centravanti. Abbiamo bisogno di una conferma esterna, di qualcosa di materiale che ci rassicuri sul fatto che non ci stiamo illudendo. Forse ha a che fare con il nostro essere italiani, è come se aspettassimo una circolare ministeriale per sentirci liberi di pensare che Josip Ilicic è davvero un grande giocatore. Ovviamente è anche merito di Gasperini e del resto dell’Atalanta, uno dei migliori attacchi in Europa, se finalmente le sue qualità funzionano con una certa affidabilità. Ma nel fatto che Josip Ilicic è arrivato a 31 anni senza che prendessimo sul serio le potenzialità del suo talento c’entra anche il fatto che  non corrisponde alla nostra idea di “grande giocatore”. 

 

Perché non è uno di quelli che cerca di cambiare il corso della partita da solo, sempre e comunque, partita dopo partita, anno dopo anno. Le condizioni perché un giocatore di calcio sia considerato grande sono due: che riesca a trasformare uno sport di squadra in uno sport individuale, e che lo faccia quando e come vuole. O almeno che almeno ci illuda che queste due cose siano entrambe possibili. Che non sia solo un caso e neanche che dipenda da quelle infinite variabili che sappiamo sottendere all’interezza di una partita di calcio che ci piace analizzare. Un campione deve liberarci dal fatalismo e dal meccanicismo. Deve rassicurarci sul fatto che un essere umano nell’universo non è davvero grande come un granello di polvere, che non siamo solo formichine.

 

Niente di Ilicic ci dà questa sicurezza, perché neanche lui ne è sicuro. Ha sempre messo insieme lampi di onnipotenza e debolezza. Ci prova spesso (quasi ogni volta che prende palla, a dire il vero) e a volte passa letteralmente attraverso i muri, ma quando fallisce (altrettanto spesso) lo fa come fallirebbe chiunque di noi. Non si arrabbia neanche, non è posseduto dalla voglia di successo, non sembra sentirsi in credito con la vita come i grandi campioni. Certo ha vissuto dei bei momenti anche prima, in coppia con Pastore nel Palermo 2010/11 finalista di Coppa Italia, o con Borja Valero e Kalinic alla Fiorentina. Ma la sua azione “tipo”, quella con cui lo immaginavamo fino a poco tempo fa, era uno slalom palla al piede in cui barcollando, ondeggiando, sembrando sempre sul punto di cadere, finiva in effetti per cadere, anche se dopo aver saltato tre persone e due in tunnel. Ogni tanto riusciva a restare in piedi e concludeva con un tiro a giro sotto l’incrocio, magari, o un filtrante perfetto, ma più spesso le sue velleità di poter cambiare la partita svanivano nel nulla. 

 

Ancora adesso, Ilicic non ha quel magnetismo di chi prende palla con l’intenzione di creare qualcosa di unico e fa vibrare l’aria intorno a sé. Il suo magnetismo è più letterale, consiste nella capacità di attirare su di sé gli avversari, che è anche una disgrazia se non sei poi in grado di eludere i loro interventi con un dribbling o liberandoti della palla. Ilicic basta rallentare, correre sempre più piano, finché non è praticamente fermo con la palla al piede, e aspettare che il difensore tenti l’intervento per spostarsi o passare la palla una frazione di secondo prima che gli venga tolta. Sembra muoversi solo per evitare il più a lungo possibile di affrontare un altro essere umano, che sarà senz’altro più esplosivo, duro, cattivo di lui. 

 

L’incertezza è parte del suo stile. Forse persino la paura. Si muove per il campo con le spalle curve e quando intravede un avversario inizia a esitare. Le sue finte sono anche dei tentativi, degli abbozzi, degli appunti. Delle riflessioni su quello che non gli è possibile fare. “Posso andare dritto lungo linea?”, si chiede Ilicic mentre conduce sulla fascia destra e un avversario accorcia la distanza. “No, meglio che vada dall’altra parte”, pensa mentre con il piatto destro si fa passare la palla dietro la gamba sinistra. E se l’avversario preso in controtempo lo tocca con la punta del piede, Ilicic va a terra. Perché in effetti quando un calciatore ti colpisce il tuo corpo sente dolore. 

 

Josip Ilicic ha anche una sensibilità e un tocco di palla straordinari, il controllo del corpo di un ballerino e il talento di un equilibrista che sarebbe capace di giocare a calcio su un filo sospeso tra due palazzi. Ma è il suo cervello a funzionare in modo diverso da quello dei giocatori comuni. Probabilmente ha allenato l’arte dell’elusione al punto da sentire istintivamente, da percepire senza neanche guardare, gli spazi vuoti lasciati dai corpi altrui e da sapere dove far passare il pallone prima ancora che quello spazio si riduca a zero. Mentre gli altri giocatori si muovono il più velocemente possibile, Ilicic si ferma e riflette sui loro movimenti, prendendoli poi di sorpresa come quei maestri zen che nei film di arti marziali sconfiggono i loro avversari con un solo movimento, senza scomporsi. 

 

Ilicic gioca in modo cervellotico dando l’impressione di non pensare affatto, trova sempre il modo di far passare il suo corpo oltre quello dell’avversario e al tempo stesso di portarsi dietro la palla, come fosse un cane fedele che magari prende una strada diversa ma si riavvicina alla sua gamba appena può. Non potrebbe giocare in modo più semplice neanche volendo, la sua natura sta nel farsi chiudere le pareti della trappola addosso – immaginate una scena come quella della stanza dei rifiuti in Star Wars Episodio IV, in cui il compattatore sta per schiacciare tutti i protagonisti –  per trasformarsi all’ultimo secondo in un foglio di carta e passare tra la porta chiusa e il pavimento.

 

Foto di Marco Luzzani / Getty Images.

 

Non abbiamo mai pensato che un grande giocatore possa essere quello che, a sentire Gasperini, va spronato ad allenarsi con continuità; uno sportivo che lamenta continui acciacchi e che i compagni chiamano la “nonna”; uno che dopo il dramma di Astori aveva paura ad addormentarsi; uno che quando ha avuto un’infezione ai linfonodi piuttosto seria ha pensato subito al peggio e che quando poi si è infortunato al ginocchio ha pensato di smettere. Noi abbiamo paura di morire; noi quando leggiamo di Astori abbiamo paura di addormentarci. Non i campioni sportivi che abbiamo in mente. Quelli sono più grandi degli inconvenienti e della morte stessa. Lavorano sodo, si migliorano, non si accontentano, diventano leggende. Ilicic ha detto: «Quando mi sento bene, posso fare quello che voglio in campo», ma il punto è che i veri campioni, per lo meno per come ce li immaginiamo, stanno sempre bene. Anche quando stanno male, è solo il momento precedente a quello in cui staranno di nuovo bene e faranno quello che vogliono. E i campioni vogliono sempre vincere. I grandi sportivi lo spaccano il mondo, non camminano piegati in due come se dovessero portarne loro tutto il peso. 

 

Eppure Ilicic è diventato un grande giocatore proprio passando attraverso un mare di incertezze e difficoltà, vivendo a pieno la fragilità del proprio corpo e della propria mente. Pensando cose «che non vorresti mai pensare», invece di dirsi che “tutto è possibile” o cose del genere. A trentadue anni, infine, ha ritrovato una leggerezza che si sposa bene con il suo gioco. La competitività non gli è mai mancata e nel suo talento c’è sempre stato anche un pizzico di prepotenza, si vede nei tiri da fuori potenti e precisi e nella freddezza sotto porta. Adesso può essere anche, “solamente”, un giocatore utile. Le sue qualità più importanti sono sempre nascoste (scopre le carte vincenti solo quando gli altri sono andati all-in), ma sa rendersi visibile per i suoi compagni anche per un appoggio di prima, e la sua abilità negli smarcamenti, fondamentale per il sistema di Gasperini, è da giocatore totale, non da semplice rifinitore. 

 

Josip Ilicic non è solo diventato un grande giocatore, ma soprattutto un giocatore completo e costante. Amato da una tifoseria, parte della storia di una squadra che non lo dimenticherà mai per quello che sa fare in campo “quando sta bene”. 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).